La rassegna dedicata a Vittorio Sereni presenta oggi le sezioni IV, V, VI e VII del poemetto “Un posto di vacanza”, di cui vi abbiamo proposto la lettura delle prime tre sezioni nell’appuntamento di martedì scorso.
IV
Mai così – si disse rintanandosi
tra le ripe lo scriba – mai stato
così tautologico il lavoro, ma neppure mai
ostico tanto tra le meraviglie.
Guardò lo scafo allontanarsi tra due ali di fresco,
sfucinare nell’alto – e già era fuori di vista, nel turchino,
rapsodico dattilico fantasticante
perpetuandosi nell’indistinto di altre estati.
Amò, semmai servissero al disegno,
quei transitanti un attimo come persone vive
e intanto
sull’omissione il mancamento il vuoto che si pose
tra i dileguati e la sogguardante la
farfugliante animula lì
crebbe il mare, si smerigliò il cristallo
di poco prima, si frantumò
e un vetro in corsa di là dalla deriva
raggiò sopravento l’ultimo enigma estivo.
Passano – tornava a dirsi – tutti assieme gli anni
e in un punto s’incendiano, che sono io
custode non di anni ma di attimi –
e più nessuno che giungere doveva e era atteso
più nessuno verrà sulle acque spopolate.
(Che fosse in ansie per Angeliche fuggenti
o per tornanti Elene? Si potrebbe supporlo.
Ma non si creda – benché questo assomigli
a un gran male d’amore e se ne accresca a volte –
non si badi all’implorante dalle rive,
sa essere buon simulatore.
Di fatto si stremava su un colore
o piuttosto sul nome del colore da distendere
sull’omissione, il
mancamento, il vuoto:
______________________l’amaranto,
luce di stelle spente che nel raggiungerci ci infuoca
o quale si riverbera frangendosi su un viso
infine ravvisato, mentre la barca vira…)
Tutto salpava, tutto
metteva vela sotto lo sguardo vetrino
tutto diceva addio sull’onda del venti di agosto.
Restava, colto a volo, quel colore
tirrenico, quel nome di radice amara,
la grama preda dello scriba
stillante altra insonnia dai mille soli
d’insonnia luccicante
dei marosi.
V
Del tempo che forse cambia discorrono voci sotto casa,
si estasiano del trascorrere argento
di chioma in chioma dei pioppi pettinati a rovescio,
altre venute dalla piana riferiscono
che l’estate è tuttora fiamma di miraggi,
non ha smesso una cicala o una foglia.
Esplode in più punti e dilaga la sparatoria dei clic-clac.
Pensavo, niente di peggio di una cosa
scritta che abbia lo scrivente per eroe, dico lo scrivente
[come tale,
e i fatti suoi le cose sue di scrivente come azione.
Non c’è indizio più chiaro di prossima vergogna:
uno osservante sé mentre si scrive
e poi scrivente di questo suo osservarsi.
Sempre l’ho detto e qualche volta scritto:
segno, mi domandavo, che la riserva è agli ultimi,
che non resta, o non c’era, proprio altro?
Che fosse e sia un passaggio obbligato? Mi darebbe [coraggio.
Guardo la flottiglia riparare nel fiume spinta dal fortunale.
S’infrascavano un tempo qui i pittori
oggi scomparsi con parte dei canneti: i tempi
hanno ripiegato i cavalletti gettato i pennelli fatto le tele a [pezzi.
Sarei io dunque il superstite voyeur, uno scalpore
represso tra le rive, una metastasi fluviale?
uno che sforna copie di ore lungo il fiume,
di stasi e turbolenze del mare?
Viene uno, con modi e accenti di truppa da sbarco
mi si fa davanti avvolto nell’improbabile di chi,
stato a lungo in un luogo in un diverso tempo
e ripudiatolo, si riaffaccia per caso, per un’ora:
«Che ci fai ancora qui in questa bagnarola?»
«Elio!» riavvampo «Elio. Ma l’hai amato
anche tu questo posto se dicevi: una grande cucina,
o una grande sartoria bruegheliana…» Ci pensa un poco [su:
«Una cucina, ho detto?» «Una cucina.»
«Con cuochi e fantesche? bruegheliana?» «Bruegheliana.»
«Ah,» dice «e anche sartoria? con gente che taglia e cuce?»
«Con gente che taglia e cuce.» «Ma» dice «dove ce le vedi [adesso?»
«Eh,» dico eludendo «anche oggi ci pescano, al razzaglio.»
«Ma tu» insiste «tu che ci fai in questa bagnarola?»
«Ho un lungo conto aperto» gli rispondo.
«Un conto aperto? di parole?» «Spero non sia di sole [parole.»
Oracolare ironico gentile sento che sta per sparire.
Salta fossi fora siepi scavalca muri
e dai belvederi ventosi
non mi risparmia, già lontano, l’irrisione
di paesi gridati come in sonno, irraggiungibili.
Ne echeggia in profondo, nel grigiore,
l’ora del tempo la non più dolce stagione.
VI
L’ombra si librava appena sotto l’onda:
bellissima, una ràzza, viola nel turchino
sventolante lobi come ali.
Trafitta boccheggiava in pallori, era esanime,
sconciata da una piccola rosa di sangue
dentro la cesta, fuori dal suo elemento.
Mi spiegano che non è sempre così, non sempre
come l’ho vista prima: che questo e altri pesci d’alto mare
si mimetizzano nei fondali, alle secche, alle correnti
colorandosi o trascolorando, a seconda. Non sapevo, non so
niente di queste cose. Vorrebbe
conoscerle l’istinto solo standoci in mezzo,
vivendolo, e non per svago: a questo patto solo.
A quegli esperti avrei voluto dire delle altre ombre e colori
di certi attimi in noi, come ci attraversano nel sonno
per sprofondare in altri sonni senza tempo,
per quali secche e fondali tra riaccensioni e amnesie,
di quanti vi spende anni l’occhio intento
all’attraversamento e allo sprofondo prima che aggallino
freddati nel nome che non è
la cosa ma la imita soltanto.
____________________________Ci si sveglia vecchi
con quella cangiante ombra nel capo, sonnambuli
tra esseri vivi discendenti
su un fiume di impercepiti nonnulla recanti in sé la [catastrofe
– e non vedono crescere e sbiadire attorno a sè i più cari.
Aveva ragione l’interlocutore, quello
della riva di là, che da un po’ non dà più segni.
__________________________________________Ma
– il mare incanutito in un’ora
ritrova in un’ora la sua gioventù –
dicono le voci sopraggiunte in coda al fortunale.
VII
Mai così fitto mai
così fittamente deliberante
appena fuori dalla foce
in tondo il crocchio dei gabbiani. Uno
si stacca a volo, tuffatosi
pesca un alcunché, torna al conciliabolo.
Sei già mare d’inverno:
estraniato, come chiuso in sé.
Amare non è sempre conoscere («non sempre
giovinezza è verità»), lo si impara sul tardi.
____________________________Un sasso, ci spiegano,
non è così semplice come pare.
Tanto meno un fiore.
L’uno dirama in sé una cattedrale.
L’altro un paradiso in terra.
Svetta su entrambi un Himalaya
di vite in movimento.
_____________________Ne fu colto
il disegno profondo
nel punto dove si fa più palese
– non una storia mia o di altri
non un amore nemmeno una poesia
______________________________ma un progetto
sempre in divenire sempre
«in fieri» di cui essere parte
per una volta senza umiltà né orgoglio
sapendo di non sapere.
Sul rovescio dell’estate.
Nei giorni di sole di un dicembre.
Se non fosse così tardi.
Ma tu specchio ora uniforme e immemore
pronto per nuovi fumi
di sterpaglia nei campi per nuove luci
di notte dalla piana per gente
che sgorghi nuova da Carrara o da Luni
tu davvero dimenticami, non lusingarmi più.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).