Ricordiamo Mark Strand, voce in assoluto tra le più rilevanti della poesia contemporanea. Damiano Abeni sceglie e commenta una serie di poesie che ripercorrono la sua opera.
Da L’uomo che cammina un passo davanti al buio. Poesie 1964-2006 (Mondadori, 2007)
DORMENDO CON UN OCCHIO APERTO
(Sleeping with one eye open)
Imperturbate dal vento con le sue orchestre,
le finestre
non sono scosse, nè dell’abitazione
le zone
più diverse emettono il solito stridore
alle giunture,
capriate, travi portanti,
montanti.
Invece sono mute. E l’ace-
ro, capace
a volte di strepitare com un ossesso,
adesso
non un suono dalle fronde
diffonde.
Tocca a me stanotte essere scosso,
con addosso
un carico di spettri. Persino la mezzaluna (metà
uomo, metà
tenebra), sull’orizzonte,
si distende
su un fianco e getta una luce equivoca
che gioca
sul pavimento, e cala altezzosa
la sua morbosa
sembianza su di me. Oh, mi sento morto,
composto
fra le mie coperte per un tempo interminato,
e dimenticato.
La mia camera è umida e algente,
trattata rudemente
dalla luna, e strana. I brividi
mi di-
lavano, squassano le ossa, ciò che è incerto
in me si fa più incerto,
e io giaccio e dormo con un occhio aperto,
e spero
che non accada nulla, nulla dasvvero.
*
MANGIARE POESIA
(Eating poetry)
Mi cola inchiostro dagli angoli della bocca.
Non c’è contentezza come la mia.
Ho mangiato poesia.
La bibliotecaria pensa di avere le traveggole.
Ha gli occhi afflitti
e cammina con le mani tra le pieghe del vestito.
Le poesie sono svanite.
La luce è fioca.
I cani sono sulle scale della cantina e salgono.
Roteano gli occhi,
le zampe bionde bruciano come stoppie.
La povera bibliotecaria comincia a battere i piedi e piange.
Non capisce.
Quando cado in ginocchio e le lecco la mano,
urla.
Sono un uomo nuovo.
Le ringhio contro e abbaio
Faccio le feste felice nel buio libresco.
*
COME E’
(The way it is)
Il mondo è orribile.
E la gente è triste.
WALLACE STEVENS
Sto a letto.
Mi rigiro tutta la notte
nel freddo indisturbato abisso
delle lenzuola senza dormire.
Il mio vicino cammina in camera sua,
indossa la maschera
soffice di un falco dal grande becco.
Sta alla finestra. Una piuma vola
sale dal colmo del suo elmo.
La luce della luna
si versa come latte su di lui e il vento sciacqua le bianche
coppe vitree dei suoi occhi.
Con l’elmo nella borsa della spesa
siede nel parco, sventola una bandierina americana.
Non lo sis ente quando si sposta
dietro alle siepi e alle piante,
sempre sui confini consunti
del paese, e punta una pistola a qualcuno come me. MI accuccio
sotto al tavolo della cucina, e mi dico
sono un cane, chi ucciderebbe mai un cane?
La moglie del vicino torna a casa.
Enra in salotto,
si denuda, la chioma le ricad3 sulla schiena.
Pare che guardi
lunghi fiumi piatti d’ombra.
Le piante dei suoi piedi sono nere.
Bacia il marito sul collo
e gli infila le mani nei calzoni.
I miei vicini ballano.
Rotolano sul pavimento, lui le mette la lingua
nell’orecchio, i suoi polmoni
esalano il fetore della broda e del clima dell’inferno.
Per strada c’è gente che si sdraia
ginocchia all’aria, con occhi
colmi di lacrime, ceneri
che penetrano nelle oreccie.
I vestiti vengono loro strappati
di dosso. Hanno le facce estenuate.
Cavalieri gli galoppano intorno, spiegando perchè
dovrebbero morire.
La moglie del vicino mi chiama, bocca schiacciata
contro il muro alle spalle del mio letto.
Dice: “Mio marito è morto”.
Mi giro sul fianco,
sperando non abbia mentito.
Le areti e il soffitto della camera sono grigi –
il colore della luna visto dalle finestre di un lavasecco.
Chiudo gli occhi.
Mi vedo a galla
sul mar morto del mio letto, risucchiato via,
e chiedo aiuto, ma l’urlo vago
mi si strozza in gola.
Mi vedo nel parco
a cavallo, avvolto nel buio,
che conduco gli eserciti di pace.
Le zampe di ferro del cavallo non si flettono.
Lascio le redini. Dove andranno a finire i disordini?
Flotte di taxi si fermano
nella nebbia, i passeggeri
si addormentano. Della benizina cola
da un tubo di scappamento tricolore.
Chiudendo a chiave le porte,
le persone che escono dagli uffici si tengono strette,
raccontando daccapo sempre la stessa storia.
Tutti quelli che si sono venduti vogliono ricomprarsi.
Non si fa nulla. La sera
comsuma le loro membra
come una carestia.
Tutto si offusca.
Il futuro non è più quello di una volta.
Le tombe sono pronte. I morti
eriditeranno i morti.
*
L’IDEA
(The idea)
Per Nolan Miller
Anche per noi esisteva un desiderio di possedere
qualcosa oltre il mondo a noi noto, oltre noi stessi,
oltre quanto sapevamo immaginare, qualcosa in cui
nondimeno potessimo riconoscerci; e questo desiderio
veniva sempre di sfuggita, nella luce che svaniva, e
in un freddo tale che il ghiaccio sui laghi della valle
si spaccava e si rovesciava, e la neve soffiata dal vento
copriva tutta la terra che riuscivamo a vedere,
e le scene del passato, quando riaffioravano,
non apparivano più come una volta, ma spettrali
e bianche fra false curve e cancellature celate;
e neppure una volta sentimmo di essere prossimi
finchè il vento notturno non disse: “Perchè farlo,
specialmente adesso? Tornate da dove venite”;
e allora apparve, con le finestre accese, piccola,
lontana tra gli anfratti di ghiaccio, una baita;
e ci fermammo lì davanti, stupefatti dal suo essere
lì, e ci saremmo fatti avanti ad aprire la porta,
e saremmo entrati nel lucore a scaldarci, lì,
se non fosse che era nostra proprio non essendo
nostra, e che doveva restare vuota. Quella era l’idea.
*
COS’ERA
(What it was)
I
Era impossibile da immaginare, impossibile
da non immaginare; il suo azzurro, l’ombra che proiettava,
che cadeva a riempire l’oscurità del proprio freddo,
il suo freddo che cadeva fuori di sè, fuori di qualsiasi idea
di sè descrivesse nel cadere; un qualcosa, una minuzia,
una macchia, un punto, un punto entro un punto, un [abisso infinito
di minuzia; una canzone, ma meno di una canzone, [qualcosa che affoga
in sè, qualcosa che va, un’alluvione di suono, ma meno
di un suono; e la sua fine, il suo vuoto,
il suo vuoto tenero, piccolo, che colma la sua eco, e cade,
e si alza, inavvertito, e cade ancora, e così sempre,
e sempre perchè, e solo perchè, una volta essendo stato,[era…
II
Era l’inizio di una sedia;
era il divano grigio; era i muri,
il giardino, la strada di ghiaia; era il mondo in cui
i ruderi di luna le crollavano sui capelli.
Era quello, ed era più di quello. Era il vento che sbranava
gli alberi; era la congerie confusa di nubi, la bava
di stelle sulla riva. Era l’ora che pareva dire
che sapevi in che punto esatto del tempo si era, non avresti
mai più chiesto nulla. Era quello. Senz’altro era quello.
Era anche l’evento mai avvenuto – un momento tanto [pieno
che quando se ne andò, come doveva, nessun dolore era [tanto grande
da contenerlo. Era la stanza che sembrava immutata
dopo tanti anni. Era quello. Era il cappello
che s’era dimenticata, la penna lasciata sul tavolo da lei.
Era il sole sulla mia mano. Era il calore del sole. Era come
sedevo, come aspettavo per ore, giorni. Era quello. Solo [quello.
*
UOMO E CAMMELLO
(Man and camel)
La vigilia del mio quarantesimo compleanno
stavo in veranda a fumare
quando di punto in bianco un uomo e un cammello
apparvero. Dapprima nessuno dei due emetteva
alcun suono, ma mentre adagio risalivano la strada
e uscivano dal paese, i due cominciarono a cantare.
Ma quello che cantavano è rimasto un mistero per me –
le parole erano vaghe e il motivo
troppo ornato da ricordare. Dentro al deserto
andavano e nell’andare le loro voci
si alzavano all’unisono sul lieve scrosciare
della sabbia soffiata dal vento. La meravglia del canto,
l’amalgama vago di uomo ecammello, pareva
l’immagine ideale di ogni coppia fuori dal comune.
Era questa la sera che avevo atteso tanto
a lungo? Volevo credere lo fosse,
ma proprio mentre erano sul punto di svanire, l’uomo
e il cammello interruppero il canto, e al galoppo
tornarono in paese. Si fermarono davanti alla veranda,
fissandomi con occhi piccoli e lucenti, e dissero:
“Hai rovinato tutto. L’hai rovinato per sempre”.
*
Da Quasi invisibile (Mondadori, 2014)
MELANCONIA ERMETICA
(Hermetic Melancholy)
Diciamo allora che è scesa la notte e il vento si è spento e gli alberi vereazzurri si sono fatti grigi e le montagne di ghiaccio, levigate sotto la faccia butterata della luna, sono come spettri, immobili in lontananza, e la luce fioca della luna si riversa nella stanza dove siedi a un tavolo, fissi un bicchiere di whisky, e dove sei stato tanto a lungo che la notte, così inerte, così spoglia, è diventata non soltanto il tuo giorno, ma tutta quanta la tua vita; e diciamo che mentre sei lì il sole, il sole reale, è sorto, e ti viene in mente che ciò che hai fatto della notte era solo una possibilità, un’indolore e rarefatta forma di disperazione che potrebbe portare, se protratta, a un esito indesiderato, e ti rendi conto che le parole che evevi scelto non erano parole giuste – non sei mai stato la persona che lasciavano intendere tu fossi; e allora diciamo che in casa c’è una pistola con il colpo in canna e ti trastulli con l’idea di usarla e dici: “Dai, sparati”, ma, anche in questo caso, non sono le parole giuste, così, come hai già fatto tanto spesso, le rettifichi prima che sia troppo tardi.
***
Ho privilegiato le poesie che più spesso Mark e io abbiamo letto insieme.
Penso che sia importante partire da “Sleeping…” non solo perché è la poesia che dà il titolo alla prima raccolta, ma perché testimonia la meticolosa attenzione formale di Strand, che per questo pezzo sceglie la strana, dissonante forma della “split couplet”: un distico a rima baciata i cui due versi sono drasticamente sbilanciati per numero di piedi/accenti. E questa poesia è anche esempio di come la forma non sia fine a se stessa, ma sia invece in completa corrispondenza armonica con il contenuto: altra caratteristica da tenere sempre presente in Strand.
Nel secondo pezzo, è il contatto fisico con la poesia (“ho mangiato poesia”) che viene esaltato: fonte di gioia per lo scrittore, di sconcerto per i “contabili della letteratura”. Un contatto fisico che ci spoglia delle convenzioni, ci riporta a essere vitali e felici come quando eravamo bambini, anzi ci trasforma in qualcosa d’altro, in qualcosa che sta a monte dell’essere uomo – sia nel senso individuale di persona che collettivo di umanità.
“Come è” è difficile da prendere alla lettera, ma è anche questa una poesia pratica: scritta nel cuore del periodo della guerra del Vietnam è una fenomenale dichiarazione sulla crisi definitiva e irreversibile dell’occidente.Solo i lettori più pigri possono pensare che in poesie come questa ci sia solo invenzione, figurazione, immaginazione, insomma fattori che sembrano “fuori dal mondo”, ma un poeta non può essere grande se non si occupa del mondo in cui gli capita di vivere. E la grandezza di Strand sta anche nel saper creare mondi apparentemente indipendenti, fantastici, ma che comunque parlano di noi e del nostro destino.Tutta giocata tra lo spazio privato della “camera” e quello pubblico del “parco”, e nella “notte” del nostro tempo, parla di individui e di società le cui membra si consumano come in periodo di carestia, per cui “tutto si offusca”. Fino alla lucida dichiarazione finale, secondo cui “il futuro non è più quello di una volta”, passaggio che ho scelto come titolo per la seconda silloge italiana di Strand, pubblicata da Minimum Fax.
“L’idea” fa parte de “The Continuous Life”, una raccolta uscita dopo oltre dieci anni di silenzio.In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera una decina di anni fa, Strand diceva (grande il suo uso della metafora anche nelle conversazioni spicciole) di venire a Roma in cerca della sua “scarpa ideale”. Diceva che ne aveva provate decine, magnifiche, ma di non averla trovata. E che ciò lo faceva contento: “Se la trovassi non sarebbe più ideale, no?” E questa è esattamente l’idea in questa poesia, cioè che la cosa che più cerchiamo e desideriamo “era nostra proprio non essendo nostra”.
“Cos’era” fa parte della stessa raccolta, “Blizzard of One”, che vinse il Pulitzer per la poesia nel 1999. Forse la più grande elegia su un amore perduto, la cui perdita viene amplificata a dismisura da ogni più piccola traccia che invece è riuscita a permanere. Da questa poesia ho estratto il titolo della prima raccolta italiana di Strand, “L’inizio di una sedia”, pubblicata da Donzelli. Mark mi aveva raccontato che dopo la separazione dalla moglie una sera stava scarabocchiando qualcosa e suo figlio piccolo gli aveva chiesto cos’era: era “l’inizio di una sedia”, gli ha risposto.
Questa poesia da “Blizzard of One” esemplifica bene la somma musicalità della poesia di Strand. Una musica che non è abbellimento, decoro, ma che è parte costitutiva del corpo della poesia. In una raccolta in cui si trovano anche, ad esempio, due villanelle e un lungo pantoum – come se l’autore volesse ancora esibire la sua capacità di esprimere la propria arte anche in forme classiche, codificate e riconoscibili, e quindi immediatamente condivisibili – è importante continuare a riconoscere il costante sforzo formale di Strand. E in questa poesia in modo particolare, Mark Strand riesce a portare il proprio materiale poetico fino al punto ideale definito da John Ashbery in un’altra poesia-capolavoro del ‘900 statunitense (“Late Echo”): lo fa “rallentare al passo di un’autentica sarabanda” e lo fa “annidare” fra l’ “estate e l’inverno” della propria esistenza, in modo che rimanga “vivo, e si riposi”.
“Uomo e Cammello” dà il titolo alla penultima raccolta di Strand. Come spesso succede in Strand, anche questa poesia parla di poesia, della “meraviglia del canto”. Il problema è che il poeta, incauto, introduce una maldestra generalizzazione: la strana coppia formata dall’uomo e dal cammello “pareva l’immagine ideale di ogni coppia fuori dal comune”. Mai generalizzare! L’uomo e il cammello smettono di cantare, tornano in paese, fissano Strand negli occhi e gli dicono “Hai rovinato tutto. L’hai rovinato per sempre”. E “fuori onda” una volta, tra la lettura di questa poesia e la successiva, sorridendo con la sua tipica ironia, auto-sminuendosi bonariamente, Strand mi ha detto: “Ecco uno dei rari esempi in cui una poesia riesce giustamente a ribellarsi contro il proprio autore”.
Dall’ultimo libro scelgo “Hermetic Melancholy” in cui trovo il succo, il nucleo, della poesia di Strand: dalle parole, dal modo in cui vengono usate, riviste, corrette, disposte e ridisposte, dipendono la vita e la morte.
Damiano Abeni
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).