Per ricordare Lorenzo Pataro (1998-2025), tra le voci poetiche più originali delle giovani generazioni, pubblichiamo una scelta di poesie dal suo libro “Amuleti” (Ensemble, 2022).
Lo schianto della ghianda sulla terra
il fuoco nella casa di campagna
le ossa esposte al sole come una reliquia
tu che getti le scapole sfibrate
nel baule antico del pagliaio, un vecchio
cappotto appeso a un chiodo veste
il freddo delle mura – si muove fra le travi
il grido e poi l’ala di qualcosa.
*
Ancora qui a dire del richiamo
tornato nel cielo a farti casa
di tutte le stagioni sotto il fico
a nascondere un amore clandestino
ancora qui a dire che è tutta questa vita
la vita attesa sulla porta come i cani
a fare le feste con le code vagabonde
al padrone che ritorna nella sera
ancora qui a dire queste mani
questa pelle e questa voce
a credere di esistere davvero
errando in cerchio nei corpi
come folli o menadi ubriache
ancora qui a dire questo fuoco
questa danza millenaria senza nome
qualcosa che circola nel sangue.
*
Guardo un falco venire alle ringhiere
a raschiare con la ruggine le ali
(dalle piume si sgretola l’amianto delle case)
l’oro si mescola alla creta
il mosaico rivela un salmo ancora ignoto
la dimora spoglia dei tuoi avi
mette a nudo i martiri murati
e la polvere si ostina a entrare nella luce.
*
Se dico casa, non avrai riparo. Se dico pane.
Se dico grano tu lieviti e ti spalanchi nel mio nome.
Siamo nati. “Alberi case colli per l’inganno consueto”.
Se dico àncora, mi abissi. Siamo nati.
Gettati in un nome verso un nome.
Se dico tetto mi scoperchi, se dico cielo
mi nevichi e mi scardini dal corpo.
Con la grazia dei vulcani. In quello
stare delle cose illuminate per sé stesse.
Se dico sillaba, fonemi si sparpagliano
e poi il gelo li ricuce, li spoglia
e fa nuda la parola, esposta
e divina come un barbaro in esilio.
Adesso. Se lo dico, già è passato.
Siamo nati. Gettati in un nome verso un nome.
*
Cerchia la parola, la parola disarmata
alla fine della strage sulla linea che segna
la frontiera. Autunno-dire, inverno-sentire.
La casa è nuda. Tu fai tana nella soglia.
Si sgola la distanza e si ammanta
la preghiera di fonemi involontari.
Ti mando a brillare sulla neve.
Azzurro bene non visto che perdura.
*
Ricorda la visione. Il corpo che si spoglia dei suoi aghi come un pino. Il tuo corpo-fotosintesi, le tue mani sul mio corpo fanno tana per i ghiri della mente, le tue vene hanno linfa che si mescola al mio sangue. Il tuo corpo-fotosintesi, i tuoi piedi mi radicano alla terra, tu mi bevi e poi ti posi sui miei rami come un merlo, sei corteccia per tutte le ferite, incisione, taglio al cuore. Il tuo cuore che è la martora in letargo, al riparo, accucciata come un bene a perdurare. Mi fai tana e poi mi scuoti. Ricorda la visione. I cerchi del tuo tronco sovrapposti alle linee delle mani. Ricorda la visione. Io cospargo di ambra la tua pelle sbucciata dall’inverno. Insieme diventiamo secolari. Ci pieghiamo insieme al vento come fosse un dio-bambino che ci culla.
*
Capire che l’Altro è una fiamma:
se la tocchi col dito
o la spegni o ti bruci.
*
Dicono che ci passerà, questa pigrizia viscerale, il male è ovattato nella stanza, non sentiamo aria respirare nemmeno da una mosca, dicono che il seme disperso ha causato nascite improvvise, lì fuori, la finestra ha favorito il passaggio dei cromosomi, abbiamo bevuto tutto il nettare dai seni sospesi di Madre-Noia, dicono che non resta altro se non piangere, spingere fuori la gioia dalle zampe – come un animale – e dargli un nome, sentirla urlare.
*
Per ritornare al grembo
per prima cosa
chiudersi a gomitolo tra le coperte
come in un gioco eterno dimenticare
le forme i colori gli spazi
abbandonarsi come a un abbraccio
guardarsi da fuori senza riconoscersi
farsi chiudere gli occhi dal silenzio, pungente
respirare piano, pianissimo per non svegliarsi,
inondare la stanza d’acqua
galleggiare senza peso, come aquiloni
attaccarsi con grazia il cordone
senza farsi male
dimenticare
fingersi morti per non essere attaccati
sentire e non sentire
scalciare per sentirsi vivi
ritrovarsi nudi, senza il bisogno di coprirsi
imparare a respirare
senza essere ascoltati.
*
E se fossimo solo un’ipotesi di volo,
un’istruzione leggera all’apertura
delle ali, se fossimo solo
il capovolgimento, la conversione
di un altrove in cui vive
la nostra parte divisa,
e se un giorno ci ricongiungeremo
con la coincidenza esatta
della felicità, e se allora forse
sogno e realtà
arrivassero finalmente
a coincidere, e se questa fosse solo
una possibilità da spartire
con l’altro, da scambiare
come in un patto?
E se riuscissimo a non rifletterci
più, se riuscissimo a valicare
il limite dello specchio,
del cielo, della porta, riusciremmo
a ritrovarci ancora interi,
veri come una volta?
*
La pace animale nell’inverno.
Il sonno delle case. L’umano
che è cosa nelle cose. Un corpo
fratello sgretolato dall’archivio
rivela il fondo-rame, i cocci di creta
da cui veniamo. Ogni scheggia
ritorna nella fiamma primitiva,
ogni nome al suo alfabeto.
*
Il sonno dei morti è una virgola tra le voci dei vivi. Sottile, la cruna di un ago. Basta poco, un rumore di fondo, un bisbiglio accennato, il latrato lontano di un cane che perde il suo seme, il sogno di un bimbo interrotto da un volo improvviso nel vuoto, basta poco, una nenia appena indistinta, ci si infila ogni cosa che ha un suono. Eppure il sonno dei morti è limpido e vuoto, asciutto e senza ricordi. Un sogno leggero. Interrotto riprende il suo corso, è un fiume senza capo né coda, senza dighe nel mezzo, né argini ai lati. Come un lino che è steso a coprire ogni poro. È come stare nel grembo materno, al sicuro, ignari del mondo, vigili a ogni sussulto, protetti da un corpo più grande. Ma se calciano forte c’è il rischio che qualcuno in allerta li senta.