Patrizia Valduga legge “Osceno e sacro l’amore…” (I poeti leggono se stessi /5)

da | Ott 7, 2013

Osceno e sacro l’amore delibera
stessa sede per sé e per gli escrementi.
Se non mi leghi io non sarò mai libera,
né casta mai se tu non mi violenti.
(2004)

Mi sembra che questa sia una specie di confessione; ma la confessione è un sacramento e si fa in privato. Così, per non diventare oscena, fingerò di essere momentaneamente un critico di me stessa.

Per prima cosa bisogna dire che questa quartina è il frutto di due furti, messi in atto come al solito dall’autrice “con avvedimento e riverenza”, secondo l’insegnamento di Daniello Bartoli. I primi due versi sono quasi per intero di Yeats, dalla poesia Crazy Jane talks with the Bishop: “but Love has pitched his mansion in / the place of excrement” (“ma Amore piantò la sua dimora / nel luogo degli escrementi”, nell’italiano di Ariodante Marianni). Gli altri due sono per intero di Donne, dal XIV degli Holy Sonnets: “… for I / except you’enthrall mee, never shall be free, / nor ever chast, except you ravish mee” (“… se tu / non m’incateni non sarò mai libero, / casto mai se tu non mi volenti”, nell’italiano di Cristina Campo).

Per scoprire da dove venga la perentoria affermazione sull’amore “osceno e sacro”, più che ai vari Sade, Artaud, Bataille, Girard, ecc., sarebbe meglio pensare a Baudelaire e a Flaubert, entrambi processati per oscenità, entrambi sacri al cuore dell’autrice, e per lei più puri dei gigli sull’altare. Ma andiamo a vedere l’uso che fa Raboni (l’unico suo vero maestro) della parola “osceno”. Ci sono quattro ricorrenze significative – perché oscuramente imprevedibili – di questa parola nella sua opera: “osceno fonografo della tua agonia” (Cadenza d’inganno), “l’osceno biancore della strada” (Quare tristis), “l’oscena materia del buio” (ibidem), “nell’osceno incantesimo del buio” (Barlumi di storia). Altre due ricorrenze – “oscena mia patria” (Ogni terzo pensiero) e “osceno frasario da piazzista” (Ultimi versi) – sono di immediata comprensione. Nella prima l’agonia è quella della madre, che è durata giorni, non ore; nella seconda, “il biancore” della strada salta agli occhi a causa dell’assenza del cancello, strappato per fare ferro durante la guerra. Dunque l’oscenità è esibizione, è esibire una ferita. Nella terza e nella quarta ricorrenza l’oscenità è, all’opposto, un nascondimento, è nascondere una ferita. L’ambivalenza può essere in parte risolta da un’altra citazione, lì dove Raboni afferma che “il male / non è mai nelle cose” (Le case della Vetra). L’oscenità non è nell’amore; ma l’amore diventa osceno per esibizione, quando ci si dimentica che è naturale come gli escrementi e privato come una confessione; a farlo diventare osceno per nascondimento è sufficiente considerarlo osceno. Ed è sacro perché ha bisogno di un altro essere umano, e ogni essere umano è sacro.

In Yeats c’è un vescovo, e Donne si rivolge a Dio. La religione c’è da subito, c’è sempre nei versi della Valduga: da “Sa anche farsi carne la parola, / per i nostri piaceri ultraterreni… / Ti onorerò, Gesù, con atti osceni” dei Medicamenta fino al “Sii lodato, amore risplendente” e “Sii adorato, amore risplendente” del Libro delle laudi. Anche il legare e il violentare ci sono da subito, ci sono sempre nei versi della Valduga: “legami, annegami e infine annientami” (Medicamenta), “ma tu ami chi in carcere ti tiene” (La tentazione), “fa’ presto, immobilizzami le braccia, / crocefiggimi, inchiodami al tuo letto” (Cento quartine), ecc. – per non parlare della Lezione d’amore, apice dell’immaginazione masochistica dell’autrice, dove si racconta una notte d’amore trascorsa nientemeno che con il marchese di Sade in persona. Costrizione della forma e costrizione al godimento troveranno – se così possiamo dire – un senso meno letterario e più profondo nel Libro delle laudi, preghiera al dio delle anime (la Valduga si dichiara non più cattolica che musulmana o buddista o induista) che chiude, aprendosi a una forma più libera, la sua vicenda poetica. La gabbia formale, forzata dalla più dolorosa delle sue esperienze, diventa l’emblema di quella gabbia mentale di cui questa stessa esperienza l’ha resa consapevole.

Patrizia Valduga

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NOTA: Quando uscì la prima raccolta di Patrizia Valduga (Medicamenta, 1982), la poesia italiana aveva attraversato un periodo di frammentazione, di deriva e aveva liberato una soggettività sciolta – esplicitamente o in modo indiretto – da ogni condizionamento stilistico o concettuale che potesse limitare l’originalità espressiva. Medicamenta dà un taglio netto: l’inedito recupero dei modi formali della tradizione metrica (sonetto, ottava, terzine dantesche, stanze di ballata) si impone come una rete costrittiva alle pulsioni irrazionali, all’emotività, all’intrico tra il sacro e l’osceno, tra Eros e Thanatos, insolubile ma anche fonte di una precisa osservazione sulla contraddizione e sulla complementarietà dei contrari, nodo ispirativo portante dell’opera della Valduga. L’uso dei generi metrici della tradizione – dal poemetto in endecasillabi a rima baciata di Donna di dolore (1991) alla quartina di endecasillabi di Cento quartine e altre storie d’amore (1997) fino alla sestina di Lezione d’amore (2004) e alle laudi in distici del Libro delle laudi (2012) – vincola il verso a un difficile equilibrio: il manierismo è esorcizzato nell’identificazione tra «gabbia formale» e «gabbia mentale», come scrive l’autrice nell’autocommento, in cui la genuina sfera degli istinti e dei sensi è trascesa, apparentemente domata, anche se è proprio il contenimento dei sensi nella forma – e del loro linguaggio più immediato e crudo – che riesce a stupire, a inquietare, a scandalizzare. L’effetto può essere meglio interpretato se si osserva la novità neometrica come caratteristica della rappresentazione postmoderna degli aspetti più viscerali e tragici dell’esistenza: il conflitto tra Eros e Thanathos o la doppia faccia, sacra e oscena, dell’amore. La gabbia metrica e la costellazione delle citazioni, come quella della quartina commentata dall’autrice che ci apre con puntualità la mappa dei suoi riferimenti (da Donne a Yeats, da Baudelaire a Flaubert per arrivare all’amatissimo Raboni), sono una forza aggregatrice e strutturante che ben si riconosce nella retorica postmodernista. Una retorica che nella Valduga risponde, senza ironia e senza maniera, al bisogno di comprensione, a una necessità autentica, e diventa sempre più sperimentale dove i contenuti sono più brutali e violenti. La sfida della forma, del suo contrasto con il linguaggio e con i sensi si può trasformare a volte anche in un’ipotesi sociale, se si osserva che la carica trasgressiva non veste la poesia della Valduga di dissimulazione, ma mette in scena la ricerca tragica di un equilibrio e di una verità. (M. B.)

Immagine: Gianfranco Molino, Ritratto fotografico di Patrizia Valduga.

La rubrica “I poeti leggono se stessi” ha già ospitato:
Mario Benedetti, Milo De Angelis, Franco Buffoni, Umberto Fiori.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).