Patrizia Cavalli: un posto, una storia, un culto

da | Lug 3, 2022

L’ultimo contributo dei nostri omaggi a Patrizia Cavalli (1947-2022) è un coccodrillo di Gianluigi Simonetti, già apparso su “IlSole24ore”, che ringraziamo.

 

Con Patrizia Cavalli muore uno dei tre o quattro maggiori e più noti (anche internazionalmente) lirici italiani in attività, e uno dei più dotati di talento e grazia. Ma la sua morte ha un significato anche storico, perché colpisce una generazione poetica relativamente fortunata: quella di autori come De Angelis e Valduga, Magrelli e Cucchi, Paris e Bellezza, nati a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta – forse i nostri ultimi poeti autorizzati dalla storia a godere fin dai loro esordi di uno spiccato interesse critico, oltre che dell’ospitalità di collane editoriali ancora prestigiose, ricettive e in forma. Autori diversissimi tra loro, e diversi tutti da Cavalli, ma accomunati dalla voglia di reagire all’ortopedia ideologica e stilistica della neovanguardia, in auge quando loro si formavano. Poeti quindi capaci di fregarsene della crisi della lirica, e ricominciare in qualche modo a scrivere da zero, o quasi. Capaci soprattutto di imporsi all’attenzione degli addetti ai lavori prima che una grande glaciazione di visibilità sociale e rilievo culturale colpisse progressivamente, nel corso degli anni Ottanta, le generazioni poetiche successive, stroncandole a colpi di distrazione.

In questa cornice Patrizia Cavalli aveva un posto, una storia e un culto tutto suo: da una parte, fin dall’inizio, l’appoggio di intellettuali colti, esigenti e raffinati (da Morante a Agamben, da Berardinelli a Garboli); dall’altra, nel corso del tempo, un pubblico vasto, solidale ma tutt’altro che specialistico, attratto dall’illusoria facilità espressiva della sua poesia, dal suo lasciarsi capire senza intoppi, dalla melodia accattivante e lineare dei suoi versi. Lo stesso pubblico che in questi giorni ricorda Cavalli come poeta amichevole, immediato e quasi pop (mentre una frangia di letterati sperimentali, erede dell’ortopedia neoavanguardista di cui sopra, ne circoscrive l’esperienza, più o meno per lo stesso motivo).

Si tratta in parte di un equivoco, se è vero, come credo sia vero, che Patrizia Cavalli non aveva in realtà granché di facile e di pop. Non lo aveva nel carattere, spigoloso e spesso intransigente. Non lo aveva nella cultura, refrattaria a orecchiare le mode del momento e indisponibile a gonfiarsi. Ma soprattutto non lo aveva nella sostanza della sua poesia, che affonda nell’eredità di autori solo apparentemente semplici come Sandro Penna e Elsa Morante. Da Penna vengono a Cavalli i temi a lungo esclusivi dell’eros omosessuale e della quotidianità illuminata a sprazzi dall’assoluto; l’idea che compito della poesia consista nell’evocare l’amore il più fedelmente possibile, in una sorta di esorcismo continuamente ripetuto («Ma d’amore/ non voglio parlare/ l’amore lo voglio/ solamente fare», al termine di una lirica che mette in scena i preparativi di un appuntamento, allo stesso modo in cui i testi penniani s’impuntano sull’attimo che precede o segue il consumarsi della catastrofe amorosa, felice o tragica che sia). Da Penna arrivano poi i ferri del mestiere: la forma breve, le parole comuni, la cantabilità naturale e senza sforzo (spesso in endecasillabi). E come in Penna l’abilità artigianale e l’eco della tradizione – non della Storia – si sentono e ci sono, anche se non si vedono. Anche perché rispetto al modello Patrizia Cavalli opera fin dall’inizio la scelta decisiva – e per eccellenza romanzesca – di illuminare anche il lato oscuro del desiderio: il bovarismo, la noia, il disgusto di sé. L’ombra di Elsa Morante si nota allora nelle rime, che soprattutto negli epigrammi si fanno ironiche e aggressive («D’improvviso come fosse un raffreddore/ torna l’amore»); nelle similitudini, spesso in equilibrio tra odio e attrazione («Così trasporti gli anni/ tra falsi amori/ perché nulla cambi»); nelle invettive, scagliate contro gli altri –  «Bella mia vallo a dire a mamma tua!// Io sono bella, ma non sono tua» – o anche contro se stessa: «Ti ho sfidato con una parolaccia/ tu mi hai risposto illesamente dama». E infine si proietta in una delle figure più caratteristiche della Cavalli, la sintassi sospesa in lunghe serie paratattiche che culminano inevitabilmente in clausole canzonatorie o autolesioniste. Perché certo la realtà ospita l’infinito, la «promessa della luce», ma al tempo stesso la finitudine, l’imbroglio («chiedo alla gentilezza delle nuvole/ di intervenire, meglio grigie che bianche,/per svelare l’imbroglio degli azzurri/che fingono la grandezza, fingono l’infinito,/ la luce effimera – la ladra»).

Ricordandola su RivistaStudio, Clara Mazzoleni nota che le poesie di Cavalli «sembrano fatte apposta per i social»: stanno bene dentro un quadrato o in un rettangolo e agiscono immediatamente, come un ansiolitico. Certo Patrizia ha giocato spesso con l’ingenuità e la leggerezza, ma le sue tautologie, come le sue inversioni, alludono alle nostre tortuosità più profonde e gravi: altro che ansiolitico. L’ironia e la depressione l’hanno sottratta alla schiera dei poeti ‘santi’, intorbidando spesso la sua limpidezza. Ma garantiscono ai suoi versi – che resteranno – il possesso di una verità ulteriore e tutta loro.

 

Immagine: Foto di Dino Ignani.