Pasta madre è una delle raccolte uscite nel 2013 nella collana di poesia “Licenze poetiche” di Aragno. Proponiamo una selezione di testi. Segue una recensione di Marco Corsi.
un colpo di fucile
e torni a respirare. Muso a terra,
senza sangue sparso.
Cose guardate con la coda
di un occhio che frana
mentre l’altro è già sommerso, e tutto
si allontana. Gli alberi
si piegano su un fianco
perdono la voce in ogni foglia
che impara dagli uccelli
e per pochi istanti vola.
*
ridono anche senza figli
selvatici come alberi che danno
frutti agli uccelli, con gli occhi
umidi – buchi nella terra:
abbiamo già cresciuto molti semi
la notte guardando
le vene illuminate della valle.
*
come la pioggia cadendo comanda
batti nel petto
fino a che si infranga
sul grigio della strada, resti
sui resti
di un fuoco che viveva
dentro gli animali e gli alberi.
*
nell’ora che fa buone le bestie
ci inchinavamo muti.
La luce scopriva
fessure, movimenti
veloci – non potevamo
essere riassorbiti.
*
con la costanza degli insetti
torniamo contro questa
luce che non si apre, che ci spezza
quanto ancora busseremo
al vetro che divide
l’ossigeno dal cuore?
*
come formiche rosse velenose
discendevano in te salivano
per una crepa della terra
trovandoti nel viso
una ciotola buona.
*
con le tue carezze ai piedi
secche foglie, aspetto nuda
le ossa oltre la carne,
gemme nell’inverno
e armatura.
***
Per leggere Pasta madre di Franca Mancinelli bisogna tornare ad una dimensione dell’antico e del biologico che ha il suo primo sedimento nei lieviti di una immaginazione potente: le figure si dispongono su inarcature di gusto gotico, ma lontane dalla ridondanza del gotico cittadino, e più vicine al gotico che ancora si può ammirare in certe chiese di campagna, molto compatto nella sua solidità e forte nella definizione dei simboli come nelle giunture che avvicinano pietra a pietra.
Le parole sono pietre, di fatto, anche quando offrono ariosità alla composizione e alla struttura, stretta nel giro che congiunge allocuzione e monito: l’allocuzione della parola parlata e il monito della parola scritta. Questa stessa voce che si presta a diverse modulazioni, infatti, arriva su ciascuna pagina in maniera naturale, senza l’imposizione della lettera maiuscola, conservando entrambi i caratteri della sua combinazione sintetica. Basta leggere in trasparenza una delle prime composizioni, tra quelle in cui l’immaginazione si fa sconcertante grazie anche alla traduzione di uno shock assieme reale e metafisico: «un colpo di fucile/ e torni a respirare. Muso a terra,/ senza sangue sparso./ Cose guardate con la coda/ di un occhio che frana/ mentre l’altro è già sommerso, e tutto/ si allontana. Gli alberi/ si piegano su un fianco/ perdono la voce in ogni foglia/ che impara dagli uccelli/ e per pochi istanti vola» (p. 9).
Come giustamente annota Milo De Angelis negli Appunti su Pasta madre che chiudono il volume, «Questo libro sembra scritto in una stanza con la finestra socchiusa. Dalla finestra entrano le cose del mondo. Dalla stanza escono messaggi e richiami»: è questa, in fondo, la dimensione più libera e articolata della poesia di Franca Mancinelli, che riesce a restituire l’incompiutezza di ciascuna definizione attraverso una potenzialità visionaria anch’essa dimidiata, perché attraversata dall’umano e dalle sue diverse forme di regressione. Per questo all’inizio si diceva dell’antico e del biologico: già nel componimento citato s’intravede l’immagine di una Sibilla cosciente, che non disperde i suoi messaggi con le foglie, ma che da quelle stesse foglie sa contare le verità delle sue abitudini visionarie e dei suoi discernimenti.
In questo senso la Mancinelli differisce anche dal modello secolare della Dickinson che potrebbe affacciarsi dalle parole di De Angelis: non c’è nessuna contemplazione, ma non per mancanza di compiacimento, piuttosto per una profonda dedizione nei confronti dei sintomi della negazione e – per tornare ancora all’antico, all’ancestrale – della morte. Togliamo un altro passo dalla sequenza di queste sezioni che si articolano attraverso spazi di silenzio: «come formiche rosse velenose/ discendevano in te salivano/ per una crepa della terra/ trovandoti nel viso/ una ciotola buona» (p. 48). Ecco dunque che si affaccia anche la figura del limite, e non serve molto tempo per intuire che questo limite non ha una struttura verticale, ma che si distende come il segno dell’orizzonte, come il segno della terra, e quindi ancora come il segno della morte, appena accesa dalla processione di formiche che sgranano l’immagine di un possibile volto e di un molto più probabile ossario. Non c’è confusione tuttavia, ciascuna cosa viene consegnata al suo mondo di appartenenza (quello dei vivi o quello dei morti): lo scatto avviene in quanto ferita dell’immagine, è da lì che sanguina il senso non sempre rappreso e quasi mai capace di affidarsi alla devozione e alla consolazione. Senza troppa esitazione si può allora dire che la voce della Mancinelli, quella voce che si è detto appunto nuda nella sua capacità di calarsi e intercalarsi alle movenze della scrittura, è una voce “totale”, presente da millenni nel nostro orecchio e alla coscienza dei significati, una voce “maieutica” capace di estrapolare dalle radici dell’umano i reperti e i germi della sua significazione.
Rimangono ancora due questioni inevitabili da prendere in considerazione, ovvero la prospettiva del tempo futuro e la capacità di fissazione dell’io sull’immagine del Sé che la poesia riesce a tratteggiare. Se in accordo con la figura della Sibilla il futuro è per eccellenza tempo della predizione, c’è un altro tipo di futuro che emerge da Pasta madre: il futuro che è sintomatico rispetto all’incertezza del presente, sia esso il presente dell’individuo o dell’intera specie umana («quanto ancora busseremo/ al vetro che divide/ l’ossigeno dal cuore?», p. 40). L’io del soggetto poetico, seguendo queste avvertenze, diviene punto di congiunzione nel tempo presente tra l’essere stato del passato e la sua proiezione nel futuro, ma non attuando una strategia della fuga («un’esca ci guidi dentro/ le luci dell’estate. Uno spillo/ ci regga le pupille, ci fissi/ a una parete, decisi/ ad appartenere a qualsiasi/ collezione della specie», p. 30), bensì attivando i fermenti della consapevolezza e quindi trapiantando il passato della tradizione nel futuro dell’incertezza congenita e delle congiunte possibilità («darò semplici baci di sutura/ verserò saliva ad ogni giuntura/ sarò sbucciata e dolce ai denti./ Ogni mattino ti coglierò un pugno/ di fiori dal selciato.// Per te avrò aghi sempreverdi/ e sboccerò ogni inverno per bruciarmi», p. 51). Il futuro del resto è regressione, se vuole giungere a verità con i piccoli gesti della ripetizione: «torno a immergermi nel corpo/ azzurro e buono di una domenica/ mattina, fraterna ad altri/ senza capelli e occhi, muti/ come in un giorno di lavoro/ per corridoi/ con altre ombre accanto./ Ma in questo chiaro di saliva/ cloro e seme, abbandonata ognuno/ la sua scorza, gesto dopo gesto entriamo/ bambini con un segno d’acqua in chiesa» (p. 70).
Marco Corsi
Immagine: Gabriele Munter, Meditazione.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).