Dell’edizione delle Poesie giovanili di Paolo Volponi (filologicamente curata e annotata dal sottoscritto e da Sara Serenelli, Einaudi, Torino, 2020) presentiamo cinque poesie che possono darci un’idea significativa, anche se parziale, del laboratorio poetico dello scrittore urbinate, tra i venti e trent’anni, a ridosso della raccolta d’esordio, Il ramarro (1948), fino alla pubblicazione de L’antica moneta (1955). Stando a queste prime acquisizioni (cui altre si potranno aggiungere nei prossimi anni), si può senz’altro dire che il giovane Volponi si muove da subito in una direzione di ricerca poetica più articolata di quanto non lascino trasparire le prime sillogi, in cui appare ancora decisivo il confronto con l’esperienza ermetica e post-ermetica. Da questi testi “scartati” emerge, infatti, un linguaggio più crudo e diretto, che solo per comodità manualistica potremmo assegnare a una fase ancora “acerba”, laddove invece esso prefigura una moralità lirica poco incline a mediazioni troppo letterarie, anzi propensa a una scrittura “estrema”, che non lesina toni taglienti, inaspriti dalla coscienza di una marginalità che erode ogni margine di eroismo orfico: quella scrittura che tracimerà per molteplici e diversi canali nella narrativa, ma anche nella seconda stagione poetica di Volponi, da Foglia mortale e Nel silenzio campale.
Salvatore Ritrovato
(verso Il ramarro, 1948)
I viaggi
non mi spaventano.
Anche se girassi
dietro la fortuna.
Farei solo dei passi.
Col piede
accanto a un sasso.
Ogni strada
ha un sasso
e una margherita.
Ed io vado
sasso per sasso
e colgo la margherita.
*
La cicatrice sul collo
che si arrossava.
I seni
composti sotto la maglia
rossa
modellata
fino all’anca.
Sul grembo
ricciuto
la mia mano,
la seta arrotolata.
Nell’osservazione
moriva
il mio amore.
*
L’EROE
Non voglio un ridicolo coro,
non voglio essere itinerario di postini.
Non potreste scordarmi
ed avrei un’eternità d’indifferenza.
Non voglio più essere vostro.
La morte lasciatemi almeno
che sia mia.
Voglio morire come mi pare.
*
Capiterò di là con una tromba,
squillerò dalla collina
sulla valle.
I seduti dell’attesa
s’alzeranno a camminare
e non troveranno strade.
Sarà uno scherzo
a metà.
Capiranno d’essere perduti.
E allora si sdraieranno
a riposare
sull’argine verde
senza l’assillo
di perdere le trombe.
(verso L’antica moneta, 1955)
La luna muore
e perde sangue chiaro
che si riversa
nelle gole latranti dei cani
negli occhi delle civette
che più non hanno pace.
Il fiato di lei che muore
come acciaio riluce
e pesa su ogni cosa.
Tutto è lunare,
il mondo nudo
è fermo,
bianca la corteccia dei cipressi
e la terra che s’apre.
Nei limpidissimi spazi
sospesi ovunque
stanno occhi chiari e duri;
pesanti globi d’acqua
inghiottiti
riempiono la gola.
*
I sassi bianchi
sono le tue spalle
gli alberi
la tua statura
e se un cavallo galoppa
è la tua gola che batte.
Ancora stanotte
hanno acceso lampade chiare
sulle rive d’oltre-torrente
e la civetta ne stride.