“Osservando gli huon”. Per Cesare Viviani

da | Gen 28, 2020

Esce oggi il numero III della sesta serie di «Nuovi Argomenti». Nella sezione ‘Poesia’ si possono leggere cinque testi di Cesare Viviani, introdotti da un saggio di Damiano Sinfonico: “Osservando gli huon”. Per Cesare Viviani. Pubblichiamo le poesie e il saggio.

Inedito

Non mi presentare i genitori,
portami dai tuoi fratelli nel bosco,
presentami a loro,
tu celestiale, pura, unica al mondo,
la fragranza sostenga ancora il tuo stelo,
così che ti possa rivedere, io che ti ho
da sempre cercata
e immensamente desiderata,
tu amata dagli altri fiori
più che da me.

 

 

 

*

da Credere all’invisibile (Einaudi, 2009)

Fece lei, la parola, più di quanto
operai e operatori, scienziati e inventori,
mercanti e costruttori
avevano fatto.
Così cominciò il fiume a scolpire,
e poi gli uomini a imitazione.

*

Passi il cavaliere nella piana
e nessuno lo veda e nessuno si accorga
e nessuno lo pensi, e lui sappia di essere
una pedina umana.

Ha conservato il suo colore rosa il fiore
nel buio della notte.
Quando una lama lo tagliò non ci fu terrore,
non ci fu dolore, per il fiore
fu come un improvviso colpo di vento.

*

Essere allevati non da madre e padre,
come fermamente si crede,
ma da uno sconosciuto,
sempre vicino, presente, influente,
e invisibile, quasi
impercepibile. Non sapere chi è
lo sconosciuto che fa per noi,
non sapere come rivolgerci a lui.

*

Avere appreso dalla natura le parole,
dai salici, dalle acque correnti,
dai legni trascinati, loro,
i loro cambiamenti nella luce e nel buio
hanno insegnato il linguaggio,
loro l’esempio vero,
loro il tesoro delle espressioni.

***

“Osservando gli huon”. Per Cesare Viviani

di Damiano Sinfonico

Una delle immagini caratterizzanti e forse più affascinanti della poesia di Cesare Viviani è quella degli huon:

Dovrebbero tutti gli arrampicatori andare
a conoscere, a osservare gli huon,
alberi arcaici che crescono ogni cento anni
solo dodici centimetri.[1]

Si tratta di conifere della Tasmania estremamente longeve, capaci di vivere anche due o tremila anni arrivando all’altezza di trenta metri. Il loro tempo si dispiega maestosamente: probabilmente alcuni esemplari sono nati mentre in Grecia si componevano i primi versi dell’Iliade. «Andare / a conoscere, a osservare gli huon»: Viviani si rivolge al lettore, lo sta esortando. Un gesto così semplice risulta dissonante nella scrittura contemporanea, come lo è l’autore nelle foto di gruppo.

Esordiente negli anni settanta con testi d’impronta psicoanalitica, incandescente in titoli come L’ostrabismo cara (1973) e Piumana (1977), per abbracciare poi una opacità interrotta da lampi di senso nella decade successiva e giungere infine a un pedale meditativo, Viviani si è situato in un ambito estetico proprio e originale. E nonostante la sua centralità editoriale fin dall’esordio, egli appare – soprattutto nell’ultimo periodo – un protagonista appartato, di cui peraltro è nota la ripulsa verso «gli asfissianti e inquinanti ambienti letterari».[2]

La sua opera si distacca dal panorama contemporaneo quasi rigettandone i presupposti. Forse a partire da L’opera lasciata sola (1993), i suoi libri hanno recuperato quella funzione conativa e quella sentenziosità che la modernità novecentesca aveva accantonato: i moniti e le esortazioni rivolte al lettore, insieme all’enunciazione di verità generali non argomentate e indimostrabili, sono indice di una postura poetica controcorrente e inattesa, volutamente inattuale.

Ciononostante i libri di Viviani manifestano una irriducibile profondità e complessità di intenzioni, già intuibili dai titoli, tra cui l’ambizione di sfidare i limiti del particolare (La forma della vita), dell’empirismo (Credere all’invisibile), della logica (Infinita fine), del discorso (Osare dire). Tutta l’opera è attraversata da una aspirazione all’assoluto, da cui la meditazione sulla finitezza e indecifrabilità della vita. Dal contrasto tra termini assoluti e traiettorie individuali deriva una sproporzione, declinata in una critica radicale dell’illusione umana di significare qualcosa all’interno della natura. Questa tensione nichilista, affiliata a Leopardi, costituisce il nucleo più moderno e infiammato.

Per rappresentare questa parabola si potrebbero scegliere, tra tante, due parole complementari: affannarsi e accorgersi. La prima indica tutti gli sforzi, pratici o speculativi, di fissare delle coordinate: «insiste ognuno a costruirsi / una vita»;[3] «Ci si è tanto preoccupati / di quello che dicevamo, / di quello che ci veniva detto, / di come avremmo vissuto, / e anche di fronte alla maestà della natura / non capivamo».[4] La seconda parola indica il rovesciamento di prospettiva, la presa di coscienza che non ci sono coordinate e il mondo non è come lo pensiamo o vediamo: «Prevosto mio, / qualcosa di inimmaginabile sta accadendo. / Io mi aspettavo / che con la luce del mattino, e poi / avanzando nelle ore del giorno, / qualcuno intervenisse a riportare / quest’auto abbandonata nei circuiti del mondo. / Traslochi, accertamenti, interrogatori. / Ma tanti che sono passati non hanno visto / l’ambulanza ferma sul ciglio della strada: / come se non ci fosse o fosse invisibile»;[5] «È passata la vita, / e non ce ne siamo accorti».[6]

La forza di questa ricerca risiede anche nell’aderenza fisica alle parole. Viviani ha spesso accostato la scrittura a un artigianato, sia per le implicazioni etiche (l’umiltà, la pratica, la lentezza), sia per i tempi di composizione, in particolare dei libri poematici (la nota che accompagna le centoottanta pagine de La forma della vita evoca gli affreschisti di grandi pareti: «Anni di lavoro quotidiano. Stacchi e riprese con l’umiltà che si ha di fronte a un lavoro inconcluso, da continuare. Un’immersione così prolungata, una riserva di ossigeno pacata e diffusa nel tempo. Il lavoro artistico mischiato alle cose dei giorni, ai pasti, ai ritmi della giornata. Tanta intensità coniugata con la durata, la distanza giusta dal fuoco per sopravvivere alla prova e mantenere la forza inventiva»).[7]

Anche lo stile può essere percepito come un prodotto di lento e paziente artigianato: vicinanza alla lingua standard, a volte rasente la prosa, a volte con aperture di avvolgente musicalità, raggiunta con allitterazioni di suoni dolci, pause, espansioni. Ci si lasci sollevare per esempio dai versi fluenti di Chi crede di avere una stanza:

Chi crede di avere una stanza,
una sicura dimora, una stabile residenza,
non vede su quale carro di nomadi e carovana,
in che scia di presenze, in quale flusso,
in quale leggero e rapido transito
scorre.[8]

Una volta ritornati con i piedi per terra, si sentirà nostalgia per questa carica di assoluto, tanto inattuale quanto necessaria per dare profondità a un discorso sulla poesia. Forse questi versi non sono un campione trasparente della sensibilità contemporanea, ma grazie a questo sfasamento si affina la vista e si arricchisce l’esperienza. E non escludo che il lettore avrà voglia di vedere gli huon, di immaginare il mondo attraverso i loro sensi.

[1] C. Viviani, La forma della vita, Torino, Einaudi, 2005, p. 91.

[2] C. Viviani, Non date le parole ai porci, Genova, il melangolo, 2014, p. 110.

[3] C. Viviani, Passanti, Milano, Mondadori, 2002, p. 7 (corsivo nel testo).

[4] C. Viviani, Infinita fine, Torino, Einaudi, 2012, p. 58.

[5] C. Viviani, L’opera lasciata sola, Milano, Mondadori, 1993, pp. 30-31.

[6] C. Viviani, Osare dire, Torino, Einaudi, 2016, p. 93.

[7] C. Viviani, La forma della vita, Torino, Einaudi, 2005, p. 187.

[8] C. Viviani, Passanti, Milano, Mondadori, 2002, p. 93.