di Stefano Bottero
Il 23 Giugno del 1939 l’editore Parenti pubblica Poesie, prima raccolta poetica di Sandro Penna[1]. Elio Pecora ricorda che il poeta, intento in quei giorni nel viaggio di cui racconterà nella “lunga prosa” Viaggio in Ciociaria, non fa alcuna menzione nel suo diario della pubblicazione del volume[2]. L’esclusione è significativa: la poetica di Penna in Poesie, articolata intorno a una serie ristretta di nuclei tematici e figurativi ricorrenti, si definisce in una particolare estraneità del sé dalla vita comune e dalle cose del mondo storico. Dalle cose contingenti, di fatto, come la pubblicazione del suo stesso libro. A questo proposito Berardinelli si esprime in questi termini nell’intervento Penna o l’altrove presso il convegno “Una strana gioia di vivere – Sandro Penna poeta a Roma” del 1997.
In ognuno dei suoi versi si celebra l’assenza e l’irrilevanza di una storia che viene allontanata e messa da parte con il gesto indifferente di chi sta guardando altrove. Sovrana è l’indifferenza di Penna alle vicende del mondo storico. L’irradiante immobilità delle sue immagini è appena screziata dalle vicende di una cronologia che non è storica ma biologica, cronologia di una vita vissuta […] in un presente fatto di estatici dormiveglia della coscienza, dove la realtà fisica del presente non permette che ci si illuda, perché tutto ciò che c’è da vedere è visibile, dato una volta per sempre, benché transitorio.[3]
Diversi critici hanno sottolineato, nel corso degli anni, questo particolare aspetto della poetica penniana. La centralità che Berardinelli attribuisce alla sua “indifferenza alle vicende del mondo” permette tuttavia di leggere in essa una valenza specificamente fondativa. Si consideri che nel 1939 Sandro Penna ha 33 anni, che tra il 1932 e il 1934 le sue poesie sono apparse già in periodici tra cui «L’Italia Letteraria», «Solaria» e «La Gazzetta del Popolo»[4] e che in quegli stessi anni ha rapporti epistolari regolari con poeti del calibro di Ungaretti e Montale. La sua identità di poeta è ben lontana dall’eremitaggio intellettuale e non si pone affatto in un atteggiamento di distaccato solipsismo artistico rispetto all’ambiente letterario contemporaneo. La sua “indifferenza” non è dunque da leggersi come ‘sociale’ o ‘relazionale’, ma riguarda un aspetto più intimo della sua persona, radicato nella profondità del suo rapporto con la realtà. Rapporto che, fin dagli anni della sua giovinezza, coinvolge si articola in riflessioni su questioni relative all’arte e, più in generale, sulla bellezza. Già a ventidue anni scriveva nel suo diario:
Dominante in me è stato ed è, il contrasto fra attività spirituale teoretica e att. spir. pratica: fra l’arte e contemplazione della bellezza e attività e l’ideale stesso della bellezza e attività come scopo proprio. Sapere, insomma, di sempre più allontanarsi dall’ideale di bellezza per quanto diventa più in noi un alto ideale. E sorge qui lo sconfortante sentimento del contrasto […].[5]
Di fatto Penna afferma, in passi come questo, la propria coscienza filosofica dell’irraggiungibilità dell’“ideale della bellezza” attraverso la manifestazione artistica pratica, concreta. La bellezza assoluta sfugge come un’impressione impossibile da registrare nel linguaggio dell’arte e pone sé stessa come una questione irrisolvibile. Il “sentimento del contrasto” che “sorge” non potrà mai essere appianato da un’espressione poetica che colga con esattezza ciò che la bellezza ideale significa. In altre parole, nella pratica – cioè nel fare concretamente poesia – si ottiene unicamente “l’allontanarsi dall’ideale di bellezza” impossibile da cogliere del tutto. Se dunque secondo la sua concezione estetica è impossibile cogliere nell’arte e nella poesia la bellezza ideale, essa non solo ‘esiste’ ma costituisce il dato immateriale con cui quello puramente materiale – fisico, concreto – dell’espressione artistica deve rapportarsi. A quest’ultimo concetto, che affonda le sue radici nella estetica romantica dell’Ottocento, Theodor Adorno attribuisce nella Teoria estetica una posizione di centralità fondamentale proprio a proposito dell’essenza dell’opera d’arte. Nella prospettiva del filosofo, la componente materiale e fattuale dell’opera è sì motrice dell’esperienza estetica dello spettatore, ma rimanda a un contenuto immateriale che si manifesta attraverso l’opera, senza mai ‘darsi’ del tutto.
Tramite l’apparenza […] le opere d’arte non diventano letteralmente epifanie, per quanto alla genuina esperienza estetica riesca difficile di fronte a opere autentiche non confidare che in esse sia presente l’assoluto. Alla grandezza delle opere d’arte è intrinseco suscitare questa fiducia. Ciò mediante cui esse diventano un dispiegamento della verità è contemporaneamente il loro peccato mortale, e l’arte non può assolvere se stessa da quest’ultimo.[6]
L’opera non è dunque manifestazione immediata del contenuto assoluto – per dirla con Penna, dell’“ideale della bellezza” – ma oggetto fisico e concreto in cui quel contenuto risiede. È dunque impossibile, per il poeta, far coincidere i suoi versi con l’assoluto della sua ispirazione, anche se questo si manifesta in essi. Se dunque l’ideale della bellezza costituisce ciò a cui si tende nella scrittura, la scrittura stessa consiste nell’atto di tensione verso l’ideale. Ecco allora che la “sovrana indifferenza” di Penna non significa un generale disinteresse nei confronti della realtà empirica[7], ma il riconoscimento dell’esistenza di un’ideale assoluto ad essa ulteriore. Quello della bellezza, appunto, esperita in quello che in un altro passo del diario chiama l’“immenso vuoto nel cuore” che “fa del dolore poesia”[8]. Segue la poesia che apre la raccolta, “La vita… è ricordarsi di un risveglio”.
La vita… è ricordarsi di un risveglio
triste in un treno all’alba: aver veduto
fuori la luce incerta: aver sentito
nel corpo rotto la malinconia
vergine e aspra dell’aria pungente.
Ma ricordarsi la liberazione
improvvisa è più dolce: a me vicino
un marinaio giovane: l’azzurro
e il bianco della sua divisa, e fuori
un mare tutto fresco di colore.[9]
La manifestazione della bellezza giunge inaspettata, tanto inattesa quanto fugace. Il dato corporeo del giovane marinaio rapisce il poeta, proiettando le sue sensazioni verso un’istante di estasi assoluta, vasta come il mare. A una prima strofa densa di solitudine e alienazione segue un’apertura verso una felicità possibile, un riscatto della propria condizione sconsolata. Più precisamente, la condizione della “malinconia vergine” che occupa il proprio corpo, per la quale l’istante di contemplazione del corpo dell’altro è medicamento e cura. Se infatti la poesia si apre con la lucida constatazione di ciò che costituisce la vita, si conclude invece con la “liberazione” dallo stato di dolore. Liberazione “improvvisa”, “dolce”, ma mai definitiva. Il significato dell’“indifferenza alle vicende del mondo storico”[10] di cui parla Berardinelli prende dunque forma in questi termini poetici: l’esistenza vera è il ricordo di un risveglio e non la partecipazione attiva alla vita ‘storica’. È solitudine profonda, lenita dagli istanti di manifestazione della bellezza. Edoardo Sanguineti – che nella sua celebre antologia Poesia italiana del Novecento indicizza Penna tra i Poeti ermetici – ricorda a questo proposito:
Convinto della verità dell’ispirazione, Penna narra di aver scritto il suo primo componimento svegliandosi una notte, al mare, «dove non si poteva accendere la luce per le zanzare», sopra i margini bianchi di un giornale: una poesia (La vita… è ricordarsi di un risveglio) che piacque a Saba.[11]
L’immagine del poeta insonne nel cuore della notte, folgorato da un momento di ispirazione pura, è chiaramente da ricondursi a un desiderio dello stesso Penna di ‘estetizzare’ il suo atto pratico della composizione, e richiama a un immaginario di stampo romantico-ottocentesco. Come si è detto, i versi di Penna sono già apparsi su riviste diverse prima del 1939, eppure il poeta attribuisce a “La vita… è ricordarsi di un risveglio” il titolo di suo primo componimento. Il testo, che ha dunque un valore particolare, si pone come un punto fermo nell’arco dell’opera penniana tutta, rendendosi veicolo di quella che potremmo definire come una ‘dichiarazione poetica’: una presa di posizione filosofica che racchiude al suo interno i parametri del pensiero poetico di Penna. Dal punto di “La vita… è ricordarsi di un risveglio” in poi, il suo lettore saprà che cosa sia per lui la vita e che cosa sia la bellezza e potrà beneficiare dell’assoluta intelligibilità del nesso tra ciò che la sua poesia dice e ciò di cui si compone. In altre parole, avrà la consapevolezza dell’assenza di uno scarto tra quanto il poeta ‘registra’ a proposito della propria visione delle cose e quanto costituisce la poesia stessa. Lo riportava già Antonio Porta, citato da Jonathan Sisco: “come i lirici greci Sandro Penna ci mostra come è la poesia, come e di quanto di indefinibile è fatta, e come la si possa definire solo con sé stessa”[12].
La precisione della concezione ontologica ed estetica penniana costituisce dunque la base per lo stabilirsi della sua poetica in Poesie. L’armonizzazione delle singole componenti di essa si esprime nella profonda organicità formale dell’opera, che si presenta come l’esordio di un poeta già consapevole della propria visione. I motivi figurativi e concettuali risultano accordati in un corpus privo di incrinature interne, in cui i giovani corpi maschili – oggetti unici della tensione sentimentale ed erotica del poeta – compaiono come manifestazioni dell’archetipo di una bellezza ideale.
Sole senz’ombra sui virili corpi
abbandonati. Tace ogni virtù.
Lenta l’anima affonda – come il mare –
entro un lucente sonno. D’improvviso
balzano – giovani isolotti – i sensi.
Ma il peccato non esiste più.[13]
Si noti la ricorrenza dei motivi già osservati nell’iniziale “La vita… è ricordarsi di un risveglio”[14]. I corpi, il mare, la malinconia, il sonno, l’istante improvviso che spezza l’ordine quieto delle cose e, infine, la liberazione dal dolore. Nella prima poesia l’istante di annullamento della sofferenza coincideva con l’impressione estetica donata al poeta dalla vicinanza del giovane marinaio. In questa sede successiva, la descrizione relativa all’istante di liberazione riguarda invece uno stato generale delle cose in esso, cioè l’annullamento della categoria del peccato. La cessazione istantanea della malinconia – resa possibile dal momento in cui l’ideale della bellezza si manifesta – porta dunque con sé il riscatto di una sofferenza terrena fatta di alienazione, di diversità e, appunto, di peccato. Si tratta di un tema chiave della poesia di Penna, per il quale l’acuta consapevolezza di sé coincide con la percezione della propria anomalia e del proprio peccato. Ciò che ne consegue è una tristezza profonda, sanata dai soli istanti di ispirazione, di bellezza. Questa dinamica interiore trova espressione in innumerevoli poesie nell’arco generale della sua opera, tra le quali “È l’ora in cui si baciano i marmocchi” costituisce probabilmente l’esempio più significativo.
È l’ora in cui si baciano i marmocchi
assonnati sui caldi ginocchi.
Ma io, per lunghe strade, coi miei occhi
inutilmente. Io, mostro da niente.[15]
L’immagine del mostro, che Deidier riconduce a un’ispirazione nietzschiana[16], racchiude al suo interno una stratificazione di significati emotivi e sociali di rara intensità. La percezione della frattura insanabile che divide il poeta dal resto del mondo borghese è indotta dall’inclinazione sentimentale e sessuale che egli riconosce come la propria natura. L’istante di manifestazione della bellezza ideale non giunge dunque a riscattare un disagio dettato dalla semplice ‘non-appartenenza’ del poeta alla vita comune. Lenisce, invece, il dolore e la malinconia di un “corpo rotto” dalla diversità proprio nella vita comune. “È l’ora in cui si baciano i marmocchi” appare per la prima volta in Una strana gioia di vivere, raccolta di appena trenta poesie pubblicata da Scheiwiller nel 1956[17], diciassette anni dopo Poesie. La tematica e la prospettiva estetica sono rimaste cristallizzate: già nel 1939 Penna si riferiva alla propria passione in termini simili, considerando la negatività originale dei propri sentimenti e la giovane età degli oggetti del suo desiderio in termini come “Ai fanciulli la sera / cresce un poco l’età”[18] e “Ei, nell’età gentile, ha il cuore vago. / E a me certo non pensa. Ma innocenti / peccati in me la pioggia riaccende”[19]. La radice di tutto ciò è ancora una volta da ricercarsi nell’intimità della sua esperienza umana. Già nel 1927 scriveva nel suo diario:
Cos’è ch’io sento tumultare nel cuore e nella mente di me: o vaghi, confusi, strani sentimenti? La carta bianca m’è dinnanzi a poterli decifrare, sentirli più individualizzati. Ancora, ancora e poi? Potrei farli sentire agli altri?! […]
E cos’è questo orgoglio ch’io provo d’essere infelice, ma solo per questo mio sentire?
Mio sentire?! Si! Mio solo.[20]
L’autocoscienza dei suoi sentimenti – che lo accompagna da sempre[21] – trova nella poesia un’espressione concreta. Nell’atto della scrittura la sua persona entra in relazione con la realtà, occupa un posto in essa. Scrive nel 1939: “Ho sempre creduto alla poesia come a un modo di vivere, e al suo riconoscimento come a una cosa probabile e forse impossibile, ho ripreso i miei vagabondaggi senza tempo”[22]. In questo senso il suo peccato è “innocente” e la sua mostruosità resta effettivamente “da niente”. Il suo rapporto con il reale storico si esaurisce nell’arco della scrittura poetica, in cui registra la propria diversità, il proprio desiderio, la propria tristezza. È la sua essenza di poeta a canalizzare la sua relazione con il tempo presente dell’Italia fascista, tempo per lui di un vero e proprio “orgoglio di essere infelice”. La sua diversità trova, attraverso la poesia, voce e incidenza su un reale a cui lui sente di non appartenere, in cui si considera ontologicamente diverso. In nessun punto della raccolta si assiste al compimento di un atto concreto da parte sua: l’agire pratico si è ritratto, sostituito dalla scrittura poetica – che porta alla manifestazione della bellezza – come sola azione nel tempo presente. Il filtrare della sua dimensione biografica nei versi, il suo distanziamento dall’agire e dal fare concreto, hanno dunque un significato di chiara presa di posizione nei confronti della sua stessa realtà contemporanea. È utile ricordare, a questo proposito, il passaggio in cui Giorgio Agamben afferma: “Non si comprende […] il senso di ciò che i poeti chiamano amore, finché ci si ostina a coglierlo, secondo un secolare fraintendimento, soltanto sul piano del vissuto”[23]. Nella prospettiva del filosofo, la dimensione dell’esperienza-vissuta del poeta non è infatti da prendersi come indicazione sul senso di un termine poetico. L’alienazione di Penna rispetto al reale, la sua estraneità all’azione pratica sublimata nel solo atto poetico, non costituiscono dunque le indicazioni per un’interpretazione di ciò che scrive. Definiscono, invece, la sua poesia come il suo unico atto, la sua scrittura come orientamento interiore e politico[24] nei confronti del presente. Così nella sua poetica ogni cosa è osservata e negata, l’Io è corroso dalla mancanza costante di un congiungimento con l’oggetto del desiderio erotico e sentimentale. Come si è visto, l’unico sollievo possibile giunge dall’‘illuminazione’ fugace e passeggera che la bellezza ideale gli offre: la possibilità di abbandonarsi alla pura dimensione sensuale in cui, come scrive lui stesso nel 1939, “l’uomo ritrova in brevi istanti sé stesso”[25]. La pura contemplazione estetica di un fanciullo può allora riscattare per un istante il dolore della diversità, ma niente di più.
Le stelle sono immobili nel cielo.
L’ora d’estate è uguale a un’altra estate.
Ma il fanciullo che davanti a te cammina
se non lo chiami non sarà più quello…[26]
Il “presente fatto di estatici dormiveglia della coscienza”[27], in cui Berardinelli proietta l’essenza della poesia penninana, non consiste in un rifiuto del presente ‘concreto’ della vita borghese. Al contrario, si riferisce all’immersione totale del poeta in esso. Un presente rarefatto, immobile, in cui i momenti faticano a distinguersi e in cui l’unico punto di rottura è offerto dall’istante di contemplazione della bellezza. Coglierla con la parola poetica – “se non lo chiami non sarà più quello” – è l’unica azione di cui il poeta si rende direttamente responsabile. Azione che, se considerata nella specificità della cornice artistico-sociale del Novecento, assume una valenza tutt’altro che orientata all’allontanamento dalla realtà. Così John Champagne nel suo studio recente Sandro Penna and anti-Oedipal impegno:
As Walter L. Adamson reminds us, for modernists, ‘art pursued autonomously is the key to the reinvigoration of experience both private and public. While modernists prized the solitary, individual, and unique, they also aimed to use art to reinvigorate the public sphere’. For the modernists, then, the autonomy of the art work, however illusory, was precisely ‘political’.[28]
L’Io del poeta è dunque immerso nel presente e nella vita comune pur rimanendo in essa non-partecipe. Proietta il proprio sguardo verso le cose ponendo una distanza tra esse e sé stesso, godendo degli istanti in cui l’ideale della bellezza si manifesta e ‘registrandoli’ nella scrittura poetica. La sua non è dunque una poesia di ‘rifiuto del presente’, i suoi versi non sono da considerarsi come la narrazione di una vita lontana dal mondo. Al contrario, appartengono a una pratica poetica che mostra come anche in un momento storico come quello del regime fascista, la diversità e l’alienazione possano acquistare una centralità di significato. Nell’espressione lirica di essi, dunque, la sola azione compiuta dal poeta.
Secondo la lettura di Pecora, la condizione ontologica in cui Penna è immerso non ha a che vedere con la sua sola esperienza. Sarebbe, invece, da ricondursi a un orizzonte esistenziale generale dell’uomo del ventesimo secolo. Commentando “Com’è forte il rumore dell’alba!” (poesia da Una strana gioia di vivere) il letterato si sofferma sugli ultimi due versi: “E la mia stella è quella stella scialba / mia lenta morte senza disperazione”.
Lo scialbore è sbiancamento, colore smorto, pallido; il contrario di acceso, visibile, rilevante. Ed è consapevolezza anche in Montale (“Ciò che di me sapeste / non fu che la scialbatura”). È l’uomo senza qualità di Musil, l’indifferenza del Michele moraviano, l’insufficienza di Zeno. È la prostrazione dell’uomo del Novecento, che, uscendo da bugie e illusioni, pure patisce quelle mancanze e, nel vuoto, si aggira tristemente, perfino incapace di disperare.[29]
Il suo è un momento storico in cui l’annichilimento dell’uomo è totale. Giacché le categorie della storia hanno rivelato la propria consistenza illusoria, perfino la disperazione stenta ad arrivare. L’uomo – il poeta – abita così un tempo e uno spazio in cui non esiste sollievo terreno possibile[30], muovendosi in essi come fanno le maschere di un dramma beckettiano sulla scena. La riflessione di Pecora si intreccia così con quella del già citato Adorno:
La cattiva infinità, il non poter concludere, diventa principio liberamente scelto del modo di procedere ed espressione. Che in Beckett un dramma invece di smettere sia ripetuto alla lettera, è una reazione a ciò; quasi cinquant’anni fa Schönberg ha proceduto in modo simile con la marcia per la Serenata: dopo l’abolizione della ripresa, il suo ritorno per disperazione.[31]
Il presente storico del Novecento è un tempo in cui l’uomo è “nel vuoto”, trascinato dal ritmo di una vita che si dilata in un’immobilità inverosimile in cui il dolore non trova riscatto né conclusione. Lo stesso tempo in cui sembra annegare Ulrich, “l’uomo senza qualità di Musil”, figura archetipica dell’incapacità umana di fare fronte alla tirannia del tempo del vivere. Il parallelo stabilito da Pecora permette infatti di cogliere un aspetto chiave della poetica di Penna in Poesie e cioè la completa inerzia della realtà in cui il poeta vive e sperimenta gli istanti di illuminazione estetica. Versi come “Io vivere vorrei addormentato / entro il dolce rumore della vita”[32] pongono di fatto luce in luce l’impatto tra un’esistenza alienata e una realtà empirica perennemente uguale a sé stessa, che si ripete come si ripetono identicamente le estati[33]. Così in “Già mi parla l’autunno. Al davanzale”:
Poi mi chiudo nel letto. E mi saluta
il canto di un ragazzo che la notte
immite, alleva: la vita non muta.[34]
Si noti il riflesso concreto del “principio espressivo” rilevato da Adorno. L’elemento del sonno si sovrappone a più riprese quello della vita, che continua a procedere anodinamente e priva di momenti di rottura. Rispetto essa, Penna si interroga costantemente:
Ma chi sa se la vita somiglia
al fanciullo che corre lontano…[35]
e ancora
Dal chiuso libro approdo a quella
vita lontana. Ma qual è la vera
non so.[36]
La profondità con cui il poeta aderisce allo stesso non-agire dell’Ulrich musiliano getta così le basi di una poetica in cui, come si è osservato, la vita comune non è distante ma estranea. La narrazione di Musil, lo ricorda Micaela Latini[37], era infatti orientata dal principio dell’‘Io insalvabile’ del filosofo Ernst Mach alla negazione dell’unicità della coscienza, e alla frammentazione infinita di essa nei momenti del presente. Si prenda ad esempio un estratto della dichiarazione d’amore di Agathe a Urlich:
Non è terribilmente triste la vita che facciamo? Non arriva né Dio né il diavolo. Così già da anni me ne vado in giro. Che cosa può succedere? Nulla: non c’è via d’uscita, a meno che grazie all’arte non avvenga miracolosamente un cambiamento.[38]
Ecco il “non poter concludere” di Adorno, principio che priva la vita di una via d’uscita che non sia “grazie all’arte”. Così accade nella poetica di Penna, dove cui gli unici istanti in cui il dolore si annulla sono quelli dell’illuminazione che porta all’atto creativo artistico-poetico. Si ricordino i versi di “Sole senz’ombra sui virili corpi”[39]: nell’improvviso, nel balzo fugace dell’illuminazione, la manifestazione dell’ideale assoluto della bellezza e, con essa, la poesia. Così pure in “Sotto il cielo d’aprile la mia pace”:
Ragazzi corrono sull’erba, e pare
che li disperda il vento. Ma disperso
solo è il mio cuore in cui rimane un lampo
vivido (oh giovinezza) delle loro
bianche camicie stampate sul verde.[40]
Se anche l’anima affonda nel sonno del vivere, l’istante della contemplazione estetica rompe la dimensione opprimente del tempo uguale a sé stesso. Per un attimo, l’attimo della poesia, cessano il peccato, l’alienazione, il dolore derivato dall’irraggiungibilità di uno stato di completezza con l’oggetto del proprio desiderio sensuale. Si è detto, non un’illuminazione dettata dalla lontananza dell’Io del poeta dalla vita empirica, ma dal dolore che sperimenta in essa e a cui ritorna, infine, trascorso l’istante.
Dopo, si rientra nella realtà stupiti e con noia si rivestono i panni consueti. Per questo io vorrei non rientrare nel mondo. Per questo io vorrei essere sempre di quelli che non sanno cosa fanno.[41]
BIBLIOGRAFIA
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[1] E. Pecora, Cronologia in S. Penna, Poesie, prose e diari, a cura di R. Deidier, Mondadori, Milano, 2017, p. CXX.
[2] ibid.
[3] A. Berardinelli, Penna o l’altrove in Sandro Penna – Una diversa modernità, Fahrenheit 451, Roma, 2000, pp. 19-20.
[4] E. Pecora, Cronologia, 2017, pp. CIII-CXI.
[5] S. Penna, Pagine di diario in ID., Poesie, prose e diari, 2017, p. 783.
[6] T. W. Adorno, Teoria estetica, a cura di F. Desideri e G. Matteucci, Einaudi, Torino, 2009, pp. 139-140.
[7] Dato che, nelle pagine del suo diario, emerge con grande chiarezza.
[8] S. Penna, Pagine di diario, 2017, p. 786.
[9] S. Penna, Poesie (1939) in ID., Tutte le poesie, Garzanti, Milano, 1977, p. 3.
[10] A. Berardinelli, Penna o l’altrove, 2000, p. 19.
[11] E. Sanguineti, Sandro Penna in Poesia Italiana del Novecento, Vol. II, Einaudi, Torino, 1993, p. 986.
[12] J. Sisco, Sandro Penna in N. Lorenzini, Poesia del Novecento italiano. Dalle avanguardie storiche alla seconda guerra mondiale, Carocci, Roma, 2002, p. 222.
[13] S. Penna, Tutte le poesie, 1977, p. 10.
[14] Ivi. p. 3.
[15] S. Penna, Poesie, prose e diari, 2017, p. 409.
[16] R. Deidier, Notizie sui testi in S. Penna, Poesie, prose e diari, 2017, p. 1166.
[17] E. Pecora, Cronologia, 2017, p. CXXVII.
[18] S. Penna, Poesie (1939), 1977, p. 24.
[19] Ivi. p. 35.
[20] S. Penna, Pagine di diario, 2017, p. 778.
[21] Ivi. p. 771: “Fin dalla nascita, per quanto nel miglior grado, sono stato tale, ma solo nell’età dell’adolescenza ho cominciato a sentire me stesso: a sentire con quel poco di comune agli altri uomini che ho, il che mi ha dato il modo di comprenderne l’enorme differenza”.
[22] Ivi. p. 892.
[23] G. Agamben, Il linguaggio e la morte, Einaudi, Torino, 1982, p.85.
[24] L’aggettivo è utilizzato in riferimento al significato di ‘dimensione storica e culturale condivisa da una collettività sociale’.
[25] S. Penna, Pagine di diario, 2017, p. 898.
[26] S. Penna, Poesie (1939), 1977, p. 32.
[27] A. Berardinelli, Penna o l’altrove, 2000, p. 20.
[28] J. Champagne, Sandro Penna and anti-Oedipal impegno in «Modern Italy», n.18, 2013, p. 2.
[29] E. Pecora, La stella scialba di Sandro Penna in Sandro Penna – Una diversa modernità, 2000, p. 15.
[30] Si ricordi, il sollievo possibile è solo nella poesia e nella manifestazione della bellezza.
[31] T. W. Adorno, Teoria estetica, 2009, pp. 197-198.
[32] S. Penna, Poesie (1939), 1977, p. 59.
[33] Ivi. p. 32, v. 2.
[34] Ivi. p. 34.
[35] Ivi. p. 49.
[36] Ivi. p. 38.
[37] M. Latini, Robert Musil e il mistero dell’esistenza in «Gli annali di Eumeswil», Il mistero, n. 6, 2015, p. 51.
[38] R. Musil, L’uomo senza qualità, traduzione di I. Castiglia, Newton Compton, Roma, 2012, p. 727.
[39] S. Penna, Poesie (1939), 1977, p. 10.
[40] Ivi. p. 29.
[41] S. Penna, Pagine di diario, 2017, p. 898. Il frammento risulta essere stato annotato il 22 Ottobre 1939 a Roma, la vigilia del quarto mese dalla pubblicazione di Poesie, alle quattro del mattino.