(“Guardare” è una rubrica che propone poesie scritte da ventenni e trentenni e che prova a raccontare il nostro momento storico dal punto di vista del loro immaginario. Questo percorso ci accompagnerà nei prossimi mesi con un’uscita ogni due settimane. Tessera dopo tessera si configurerà un mosaico in cui speriamo emergano interrogativi, chiavi di volta e genealogie di un tempo che muta velocemente, lascia disorientati, ma chiede anche nuove e autentiche forme del guardare. Nella diciottesima uscita due poesie di Michele Ortore, nato a San Benedetto del Tronto nel 1987.)
SALA D’ASPETTO
Te l’ho detto che la vicinanza
basta cercare la notte su Google
il mio nome è la pieghetta nel
bloc-notes del piccolo te
piccolo te
piccolo piccolo pic
ho detto
cresca pure finché può la collera
è un pensiero e gracchia ma
come un ellepì frega
la punta e dà nomi al silenzio
se ho scritto un altro verso senza politica
è perché mi arrotolo nella sala d’aspetto
del suo stringimano
poesia fai di me l’alburno che cresce
piccolo me
me pi
ho detto
poesia
prego si accomodi sono il suo nuovo
senso di famiglia vuole una ricetta
o un certificato di malattia piccola?
Incastra due dita nel taschino del camice.
Io guardo il profilo dell’occipite suo
e mi ricorda qualcosa provo a trascinare
quel grumo di luce che converge al cristallino
(tengo premuto il tasto sinistro
ricerca per immagini ma
il sito non è più raggiungibile, è un eccetera
della mente come tanti chissà
e comunque fanno come gli pare).
Vede, dico, in realtà volevo presentarmi:
sogno di avere un nome, per lei,
e non soltanto squillare
al telefono in occasioni mucose.
Vede, mi dice, prima di tutto dovrebbe aiutarmi
a togliere le due dita dal taschino:
sono incastrate nella mia sicurezza;
ho un cuore da leone e il taschino
sa com’è nel camice è a sinistra.
Poi, piccolo, ci tengo a chiarire che
come senso di famiglia
ti darò del tu (pausa piccola).
Anch’io ero come te. No, scusa,
quello era un film. Sei un umano
ben temperato, ma ripeti
pensieri apprettati, ti apparti da te
e tiri il doppio nodo. No, non lo
sciogliere, è quel tipo di limite
di cui non ci si pente, lo dico io,
tuo senso di famiglia che in un
film ero come te.
Mi avvicino e afferro l’avambraccio
a quest’uomo vestito di bianco
le nocche delle dita si riaffacciano
dalla tasca e ora sono cinque Giuliette.
Dai, ti misuro la pressione.
Accidenti.
È alta. La senti, vero, la pressione?
È la società che insuffla schemi nelle arterie,
colesterolo sentimentale. Ma tu.
Tu piccolo. Non puoi certo girare
l’angolo con le orecchie piegate.
Continuerà a piacerti soprattutto
ciò che non hai.
Credi alla mia diagnosi. È scritta qui
porge il foglio e non sento vicinanza
c’è una pieghetta che rade l’asta a una B
saluto cordialmente perché sono sul fondo
e stirando la pieghetta cerco nel mio piccolo
il nome proprio dei pensieri. E sanno tutti
come scrivono i dottori.
NON GUARDAVAMO
Comincia con un bicchiere che cade,
l’urto di una borsa. La mano ghiacciata
scatta come il collo di un gabbiano, rovescia
la coppa di cristallo finto.
Oggetti che continuano a cadere,
quando si può ancora spiegare,
un colpo di scopa per ogni distratto,
non guardare sotto.
Ma ogni scatto involontario ha sotto
un sistema di pulegge, passacavi,
scorrimenti magnetici, metalli
scanalati per lunghe trazioni
interne, lunghe lunghe, lunghe
lunghe, lunghe, noi sapevamo covare
una ninna nanna per ogni giorno,
con ogni parola trovata negli occhi.
Ma: le fiabe tristi di Tolstoj.
Cade lentamente
è una fossa gravitazionale
di mezzo metro, stacca
in verticale dal tavolo
inclinato di quarantacinque
cade lentamente, fermo così
cadi lentamente, fermo così
lungo, lungo
sei ancora intatto, ora, ti ho fermato
anche se una parte
di te ha già