Tra qualche mese avrò quarant’anni e tolta la crisi caratteristica che accompagna questa fase, se mi volto indietro ho a che fare coi miei primi vent’anni di scrittura in versi, di traduzioni, letture, e quindi di scoperte letterarie. Ma vi sono anche incidenti di percorso, testi abortiti, scorciati, e molti cestinati, pubblicazioni in riviste, recensioni, saggi, liriche raccolte in antologie, poi in volume.
Mi sono formato a cavallo tra il ventesimo e il ventunesimo secolo e risento ancora di questa frattura.
Ho l’impressione che tutto sia precipitato con l’undici settembre 2001, uno degli apici più alti che la «società dello spettacolo» abbia mai toccato. Qualcuno ha definito quell’attacco «un capolovoro artistico».
È da qui, credo, che tutto è cambiato. Perché un colpo mediatico (nonostante la catastrofe umana) è stato subito confuso con un’opera. E tutti hanno cominciato a scrivere su quest’opera.
L’era della comunicazione ha avuto davvero inizio qui, e la dittatura della condivisione è salita al potere schiacciando le forze vive dei conflitti, insiti in qualunque opera.
Si è cioè privilegiato sempre di più la trasparenza, il nitore piatto del messaggio o del tema, del comunicato, e in letteratura: il compito, l’oggetto liscio.
Anche le sperimentazioni, le post-avanguardie, sono finite dietro un vetro, o meglio in vetrina, perché improvvisamente tutti dovevano comunicare con tutti. Principalmente emozioni, ma anche commenti su fenomeni sociali, esercizi a tema, resoconti in prosa-poesia. Moltissime variazioni.
Lo stesso accadeva nel mondo dell’arte contemporanea. Se prima la ripetizione era un argomento, poi un gioco ad effetto (la pop art), ora diventava costitutivo del fare artistico. L’artista, essendo sempre meno libero, deve ripetersi per «rassicurare i mercati» (Angela Merkel) e confermare la propria esistenza.
Solo certi films si permettevano ancora qualche corto-circuito con il Sistema. Mi è capitato di parlarne in un articolo sul cinema di poesia post-pasoliniano. Non rilevavo un ritorno a quel tipo di cinema, ma un suo sviluppo.
Così oggi ricevo uno scritto di Paolo Febbraro, poeta e critico tra i migliori che si possano incontrare. Il testo è una postfazione alla mia prossima raccolta di versi e comincia così:
«La poesia non va incoraggiata, allietata da pronto successo, accolta con favore o peggio con indulgenza. La poesia la scrivono in decine di migliaia, e quasi tutte quelle decine di migliaia la pubblicano, ingolfando un mercato che non esiste.
La poesia, quando è brutta, è bruttissima; e quando è discreta, o dignitosa, è ininfluente, è ancora più insidiosamente immorale, perché una poesia dignitosa è un quieto controsenso, una compensazione di opposti il cui risultato è zero.
La poesia buona, o eccellente, è quella che – come dice Patrizia Cavalli – non cambierà il mondo. La poesia discreta, dignitosa, stanca il mondo, lo consola, lo fa assopire».
Ciò che mi ha turbato leggendo passo passo questo discorso, quasi del tutto privo di commenti ai testi, è ricordare che in venti anni ero stato duplicemente incoraggiato e scoraggiato, e avevo fatto altrettanto coi miei coetanei, e poi lo stesso recapitando i primi libri di autori più giovani di me.
Ma il più delle volte ero stato incapace di spronare il presunto poeta. E nelle mie recensioni, tra il 2000 e il 2006, non ricordo di aver avuto grandi entusiasmi. Quelli arrivavano dai libri di cui non dovevo dar conto e che leggevo in silenzio.
A furia di rispondere alla dittatura della comunicazione, abbiamo perso l’abitudine di stare veramente da soli.
Da quando vivo in Francia è maturata una grande nostalgia per la lingua italiana e per la sua letteratura. Questa parola, «nostalgia», mi fa pensare a uno degli ultimi film di Andreï Tarkovski, Nostalghia, girato per l’appunto in Italia.
È un autore che amavo quando avevo vent’anni. Poi criticato, accantonato, e infine reinterpellato.
Nostalghia era un misto di kitsch involontario, bellezza ricercata, e lirismo a buon mercato. Ma c’era anche una sacrosanta fede nell’operato di chi sta dietro la telecamera e nel suo occhio, oltre a una devozione totale all’opera.
Altrove Tarkovski reagisce alla domanda di una documentarista che gli dedica un film: «Cosa vorresti dire ai giovani?».
E lui: «Vorrei che i giovani imparassero a stare soli senza annoiarsi, perché non vi è nulla di peggio che annoiarsi di se stessi».
Mi sono allontanato da un mondo di poeti-santi e martiri dell’Est quando ho visto decadere «le migliori penne della generazione che mi ha preceduto». Quella dei fratelli maggiori e, perché no, di qualche padre.
Sembravano aver rimpiazzato il fuoco con il dovere di presenza, la postazione ideale per riferire al megafono, forte e chiaro, quanto avevano da dire.
Il fatto è che non solo parlavano politicamente corretto anche quando verseggiavano, seguendo fedelmente la tendenza che «le istituzioni» avevano lanciato, ma è che non avevano più niente da giocarsi. Perché più niente andava a fuoco.
Semmai si limitavano a mettere a fuoco quanto esperivano per mezzo di una cronaca giusta.
«Tutti hanno del talento» diceva una vecchia scrittrice che frequentavo.
E dunque, se sacralizzare delle esperienze estetiche d’oltreconfine non nutriva particolarmente la poesia italiana, la mia generazione, quella dei nati negli anni ’70 (e non parlo di quella successiva!) si è trovata a collezionare riferimenti, per mostrare ad ogni costo che era preparata sul piano dello studio. I poeti erano ben armati culturalmente; almeno questo non si poteva negare. Si sono creduti salvi perché portavano con loro un pezzo di Novecento.
Allora con la fine di un certo romanticismo d’annata – che però non ha immunizzato nessuno dal bovarismo poetico, cioè dalla tematizzazione del proprio piccolo mondo – si è giunti alla promozione collettiva di tipo imprenditoriale, da grosso gruppo che intende pesare sul mercato.
Nel frattempo mi ero messo a scrivere della prosa drammaturgica e narrativa, un nuovo strumento di ricognizione. L’avevo fatto per bisogno di energia, perché la prosa mi dava forza, mi spingeva in avanti. E mi accorsi che questa spinta aveva dei nessi con la sessualità.
Ricordo perfettamente la lezione di Henry Miller e il bene liberatorio che mi procurò leggerlo, ricordo anche quanto allora avessi bisogno di stare con gli altri.
Oppure da solo, ma sostenuto da un motore verbale senza freni né interruzioni.
Avevo scelto la prosa soprattutto per non soccombere agli acuti e ai terribili rischi della verticalità poetica, che pur lodavo. E non è un segreto per nessuno se intendo anche i rischi psicologici. Perché di lirici puri che hanno perso la testa ce ne sono abbondantemente in letteratura.
L’esercizio della poesia richiede capacità di astrazione, ascolto, e affondo nel reale che inducono all’autismo, a una forma di ottusità; almeno per quanto mi è dato sapere. E forse anch’io volevo comunicare alla fine. Raccontare, non solo asserire ad oltranza, perentoriamente.
Cosa era successo alla poesia contemporanea in Italia? Nulla di diverso che non fosse accaduto nelle varie tradizioni nazionali, siano esse latine, germaniche, o anglosassoni. Le stesse tendenze ovunque, come fatti incontestabili: poesia orfico-ermetica, prosa-poesia, lirismo tagliente, prosa poetica alla francese, poesia neoclassica, come in William Cliff o Patrizia Valduga.
Forse in ambito slavo persistevano delle esperienze affini alle vecchie correnti surrealiste, ancora in versi, con uso abbondante dell’ironia postmoderna, ma pure nutrite talvolta di una fiducia nel «sentimento tragico della vita» (Unamuno), specie in Polonia, Romania, Serbia e Slovenia. Cioè una facoltà di ascolto superiore alla volontà di comunicare, se è vero che quelle società erano state represse, un tempo non troppo lontano.
Il dibattito non è certo tra poesia oscura o poesia leggibile. Il problema è culturale, direi cosmopolita, frutto della mondializzazione al suo stadio supremo, nel bene e nel male.
L’estate scorsa nello Yucatàn (Messico) ho avuto modo di conoscere un ragazzo-padre, artigiano in un villaggio di poche case, e senza connessione a Internet.
Ho trovato molta più Poesia nei suoi amuleti, piccoli oggetti da vendere ai turisti, nel suo modo di parlare italiano, con dietro il maya e lo spagnolo, che nei libri di versi degli ultimi dieci anni.
E allora ho dovuto sforzarmi per rimettere in chiaro, innanzitutto a me stesso, che la poesia non è una categoria astratta, ma un genere letterario sottovalutato.
Ascoltando i commenti dei lettori francesi su ciò che si pubblica di recente, continuo a trovare espressioni del tipo: «Manca qualcosa, non so cosa, ma questi versi è come se fossero inerti cadaverini…».
Ciò non toglie che si organizzino moltissimi eventi per onorare la poesia, e ciò nonostante gli editori che la rifiutano perché la pensano come Sartre. Nel senso che la poesia non è più capace di render conto del mondo in cui viviamo, di rappresentarlo tutto.
Eppure a me pare di sì, ed è proprio questo il guaio. I poeti lo ripetono per filo e per segno.
Riprendo di nuovo Tarkovski a cui torno senza complessi, come qualcun’altro potrebbe citare Benedetto Croce: «Solo i registi che ripensano il mondo, quelli che ne creano un altro, il loro, solo quelli dureranno. Degli altri, che imitano la società in cui vivono, non si ricorderà nessuno».
Parafrasandolo più modestamente, potrei dire dei poeti: Solo quelli che non hanno paura di farsi male, che non allestiscono (fosse anche lo spettacolo delle loro fonti), solo quelli che operano di bulino e rinunciano ad esporre ciò che producono ad ogni piè sospinto avranno qualche probabilità di lasciare qualcosa di bello. Qualcosa che non solo funziona impeccabilmente, ma che fa sentire vivi i loro lettori.
È vero, sono stato certamente incoraggiato da qualche compagno di strada più vecchio, ma ho dovuto anche convivere con enormi scoraggiamenti piovuti dall’alto, o almeno da quelle che consideravo delle alte autorità in materia.
Citerò solo un esempio.
Sono note le posizioni radicali di uno come William Cliff riguardo a cosa sia o non sia la poesia. Per lui, chi non scrive in versi della stessa lunghezza e rimati non è nemmeno da prendere in considerazione.
Ho dunque fatto i conti con un disprezzo e con propositi che non avrei avuto il coraggio di usare in presenza di un giovane poeta.
Qualunque testo io gli avessi presentato, per il semplice fatto di non aderire alla forma cui lui mi invitava a piegarmi, sarebbe stato inopportuno.
Dovevo seriamente riflettere se intendevo continuare o meno a scrivere versi.
Una volta, trovatomi per caso a presentare un mio libro allo stesso suo tavolo, dentro un caotico « mercato della poesia », ho avvertito in lui un tale sdegno per la mia vicinanza in quel preciso contesto, sdegno appena velato dal suo sarcasmo abituale, che avrei dovuto sentirmi automaticamente fuori posto.
Ciò non mi ha impedito di voler continuare a tradurlo, perché ciò che scrive è più importante del nostro rapporto.
Oggi sono essenzialmente i rapporti che determinano gli eventi letterari, le pubblicazioni e la favorevole ricezione dei libri. Non è grave se i buoni sentimenti invadono il loro contenuto, se queste opere sono ponderate a sufficienza o meno prima della loro uscita, se diranno il vero oppure se si limiteranno a seguire il tema scelto con serietà, senza colpo ferire, senza infamia e senza lode. Non importa, perché troveranno comunque chi ne scriverà con la stessa sobria indifferenza e con formule usate per altri a ripetizione, attingendo a un bacino di espressioni medie e convenute perfino nell’esaltazione.
Il guaio è che in poesia non basta arrotare i propri strumenti, sfondare gli « spazi metrici » o conoscerli perfettamente, né tanto meno tradurre a destra e a manca, per acquisire una nuova consapevolezza della propria lingua e della sua duttilità.
No. È necessario liberarsi asceticamente di ogni convenzione (e convinzione) morale o amor proprio, mettersi in pericolo selezionando se stessi e il mondo senza pietà, come per giocarsi ogni volta la vita su un asse verticale che non va da nessuna parte se non a fondo e in perfetto silenzio.
Immagine: Susan Hiller, Auras: Homage to Marcel Duchamp.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).