Nato a Varsavia nel 1910 Nathan Alterman è una figura simbolo della poesia ebraica israeliana moderna. La sua ricca e multiforme produzione poetica si intesse con la storia ebraica e quella dello Stato di Israele, attraversando fasi molto diverse. Cresciuto in Polonia fino alla prima adolescenza nel fervido clima culturale dellʼebraismo polacco, Alterman studia da giovanissimo la lingua ebraica biblica e moderna acquisendo una straordinaria intimità con i suoni e il ritmo di quella che sarebbe diventata la sua prima lingua poetica, insieme al polacco, allʼyiddish e al russo. Nel 1925, a quindici anni, si trasferisce in Israele, a Tel Aviv città dove ha vissuto per tutta la vita fino alla sua morte avvenuta nel 1970. A Tel Aviv muove i suoi primi passi come scrittore, redattore, giornalista e poeta. La sua vita si intreccia con quella di altri poeti e intellettuali emigrati nella Palestina mandataria che in quegli anni posero le basi per una ricerca letteraria che lo porteranno con urgenza a confrontarsi con le sfide della nuova vita ebraica in Eretz Israel (”Terra di Israele”) e con il sogno del ritorno nella terra dei padri a cui si oppone la realtà urbana e alienante del mondo moderno. Dopo una breve e importante parentesi di circa tre anni che porta il giovane Alterman a lasciare Israele per la Francia, nel 1932 torna tel Aviv e si dedica per quattro anni alla scrittura delle sue prime poesie edite su riviste e giornali e in particolare sul quotidiano Haaretz di cui diventa assiduo collaboratore. In questi stessi anni si lega a uno dei pensatori più originali e influenti della cultura israeliana, il poeta ed editore Abraham Shlonsky (1900-1973) fondatore del movimento simbolista Yaḥdav ”Insieme” e del giornale Turim ”Colonne”. In questi anni si delineano le traiettorie principali della sua ricerca poetica: il ritmo, la rima, la misura del verso emergono pian piano come il fondamento alchemico che permette al poeta di trascendere la realtà elevandola a un livello più alto. Questa è la cifra della prima raccolta di Alterman Kokhavim ba-ḥutz ”Fuori le stelle” considerata fino ad oggi uno dei capolavori della poesia israeliana moderna. Scritta in pochi mesi di intenso lavoro nel 1938, Kokhavim ba-ḥutz è una grande elegia alla poesia stessa. È la celebrazione di una nuova lingua, di una nuova melodia che torna a trovare il poeta sullo sfondo di un teatro solitario, pallido, inerme nella notte e al chiarore pietrificante della luna (immagini queste che ricorrono in tutta la produzione poetica di Alterman) allʼinterno del quale tuttavia si aggira una luce nuova. La poesia è il nume tutelare che si accompagna Alterman nelle sue visioni dechirichiane. Incarnata in ogni cosa e in tutti essa è voci e silenzio, onda e vento, passi e fossili, rende il poeta uno e molti, nel tentativo di realizzare lʼunica impresa che ha la forza di salvare il mondo: la poesia.
La produzione poetica di Alterman è molto ricca e si compone di diversi generi letterari. Per quanto riguarda la poesia si segnalano qui le raccolte più importanti: Kokhavim ba-ḥutz ”Fuori le stelle” (1938), Simḥat ha-ʿanyim ”La felicità dei poveri” (1941), ʿYir ha-yonah ”La città della colomba” (1957) e ha-Tor ha-shivʿi ”La settima colonna”. A queste opere segue nel 1974 lʼopera postuma Regaʼayim ”Momenti”. La maggior parte dellʼopera di Alterman non è tradotta salvo qualche apparizione in lingua inglese e spagnola. Il gruppo di poesie qui presentate per la prima volta in italiano sono tratte dalla raccolta Kokhavim ba-ḥutz nellʼedizione classica della casa editrice Ha-kibutz ha-meuḥad, Tel Aviv, 1995.
A cura di Francesca Gorgoni
Torna di nuovo la melodia
עוֺד חוֺזֵר הַנִּגּוּן
ʿOd ḥozer ha-nigun
Torna di nuovo la melodia che hai trascurato in vano,
e ancora una volta la strada si apre in ampiezza.
Una nuvola nel cielo e un albero nella piogge,
ti attendono ancora,
viaggiatrice.
Si alza il vento e nel volo di altalene
passeranno su di te i lampi,
e la pecora e la cerva saranno testimoni
che li accarezzasti e che continui ad andare —
— che vuote hai le mani, e la tua città è lontana,
e che più di una volta ti sei inchinata
alla verde foresta e a una donna nel suo riso
e alla cima di un albero dalle palpebre piovose.
Verrò di nuovo alla tua soglia
עוֺד אָבֺא אֶל סִפֵּךְ
ʿod avo’ el sippekh
Verrò di nuovo alla tua soglia a labbra spente.
Farò scendere di nuovo su di te le mani.
Di nuovo dirò tutte le buone parole,
che esistono,
esistono ancora.
Povera è la tua casa, così scura nella notte
così triste al suo interno, e lo sarà in eterno.
La mia vita che si è infranta prima di raggiungerti,
è consegnata alle piazze e al tamburo.
Poi d’improvviso come mano splendente
un tuo tocco.
Fendi improvvisa come un ricordo dimenticato.
Il silenzio nel cuore, tra un battito e lʼaltro,
questo silenzio
è il tuo.
Voce
קוֺל
Qol
La notte opaca nel vetro e nel fumo.
La piazza del mercato affranta.
I cieli volgono, il loro antico lume,
da una città,
a unʼaltra.
Nelle strade deserte una voce parlava e taceva
il tuo orecchio era in ascolto
della misura di quelle parole rimaste sole,
separate da risposta e conoscenza.
Cosa hanno reso più forte,
cosa hanno illuminato, non è dato sapere!
Nei deserti del freddo cosa ha reso più bello il loro peregrinare!
Il tuo cuore afflitto,
spinto contro il muro,
ricorderà il loro gelido brillare.
La tempesta è passata di qui prima del mattino
הַסַּעַר עָבַר פּוֺ לִפְנוֺת בֺּקֶר
ha-Ṣaʿar ʿavar po lifnot boqer
Stordito e barcollante
si acquieta il mercato e si alza
dai carri rivolti, da cumuli di fieno.
Di nuovo gli orologi di città spingono nella falda
gli ultimi momenti
prima dell’alba.
Eppure la strada
ancora è fragrante di pioggia
acqua negli occhi delle statue sul ponte
e respira un albero,
respira,
nella selvaggia fioritura ardente,
il nome
del tuono
e il vento.
Un grande pallore allora
אָז חִוָּורוֺן גָדוֺל
‘Az ḥivvaron gadol
Un grande pallore allora illuminava
le strade e i mercati.
Si affacciava sulla città
una grande onda di cieli inverditi.
I marciapiedi quietamente lavati,
mormorati, bisbigliati,
prigionieri nel brusio
di sguardi e di incontri.
Non spegnere il passato,
quel suo unico fragile lume.
Se non è stato amore
sarà almeno stata una bella sera autunnale.
Affacciata di nuovo sulla tua città
entra col peso di nuvole e tormenta.
Di nuovo i suoi pulcini ingialliti
ha riposto in ogni lanterna.
La luce
הָאוֺר
ha-‘Or
La luce –
incede risoluta dagli specchi di rame,
lega con le sue corone lʼalbero e il capro,
la giovane eroe sul petto dei fiumi,
chiama a celebrare il duello,
la luce,
la luce della nostra città,
cosa fa,
cosa fa, sola, sola,
se chiudiamo gli occhi un istante?
Rimasta là fuori,
sola ruggisce,
luce di giganti,
luce senza sguardo,
al di là dello schermo rosso
delle mie palplebre serrate.
Un canto
זִמְרָה
Zimrah
La notte nomade
volge ai monti.
Ora degli addii, come sei sacra!
Una giovane giunge sulla soglia come al sogno
e la sua poesia si infrange sulla porta.
Sulla soglia celeste solitario è il cipresso
il canto della giovane è dimenticato
e si riduce il mondo a tre parole,
ai campi ampi e al vento.