Torna antica la parola
e quella stanza era un suono
di fogli e neon, lesione
nella castità delle dita
eternità perduta per un soffio
a precipizio tra due pareti,
scendo in un giorno remoto,
il polpaccio s’indurisce,
tutto finisce a mezzogiorno, di ombra
in ombra si abbrevia una vita,
l’erba cresce nei corridoi
bisogna consegnare,
tra qualche minuto, bisogna
consegnare anche la brutta.
Torna antica la parola è la storia di un tema in classe. O meglio, è la storia poetica di tutto ciò che precede la consegna del tema: tensioni, chiaroscuri, fantasie, tutto un mondo in attesa che assume i contorni dell’incubo. Nelle dita che impugnano la penna si forma una lesione, i polpacci sono induriti da un crampo, la vita intera sembra abbreviarsi e non concede più il tempo necessario. «Di ombra / in ombra si abbrevia una vita». A mezzogiorno in punto occorre concludere. Non un minuto oltre. A mezzogiorno. Non bisogna andare fuori tempo o fuori tema. Occorre essere chiari e scorrevoli. Si deve andare a capo dopo il punto. Ma non sempre. Dipende. Periodi brevi. Frasi lunghe ridotte al minimo. La tensione aumenta. Il panico è dietro l’angolo. La realtà, a poco a poco, si sta allucinando. L’aula è un precipizio tra due pareti. L’erba cresce nei corridoi. In un tema si gioca la vita eterna. «Eternità perduta per un soffio». Ore decisive. Ore contate. Tutto dipende da queste pagine.
Fine della prima parte. Il tema è concluso. Rileggiamo. Non ci sono errori, inciampi, ripetizioni. Il lessico è ampio e vario. Le frasi si incidono nette sul foglio. Tutto sembra a posto. Tutto tranne una cosa. Ed è una cosa essenziale. La poesia lo dice alla fine. Lo dice in corsivo. E lo ripete due volte. Lo dice così, come un pensiero improvviso. Un pensiero che sopraggiunge e distrugge tutto il resto. Lo dice come un pensiero istantaneo. O una voce fuori campo. Come un coro greco. Una voce che ammonisce, sapiente e temibile. Una voce interiore che diventa voce di tutti, verità rivelata, comandamento. Non basta, dice, consegnare il tema nella sua forma compiuta, anche se abbiamo lavorato a lungo per raggiungere quella forma. Non basta. Bisogna consegnare tutto, compresi i dubbi, gli errori, i ripensamenti, le incertezze più risibili e penose. Non si può nascondere nulla. Bisogna consegnare ogni cosa, anche gli altri fogli, anche quelli scarabocchiati, stracciati, gettati nel cestino. Bisogna fare così, non c’è scampo: «bisogna consegnare, / tra qualche minuto, bisogna / consegnare anche la brutta».
Qui la poesia vira in un’altra direzione. Quel ritmo breve e percussivo di ottonari e novenari sfocia in una paura più vasta. Non si trattava solo di un tema. Era partito da lì, certo, da quell’aula dell’Istituto Gonzaga di Milano, da quei tremori adolescenti. Ma ora la cosa riguarda ogni età. L’età di allora e l’età di adesso. Il tema era la metafora perfetta della condizione umana. Bisogna consegnare anche la brutta, secondo la legge. Non si può nascondere nulla. Bisogna consegnarsi all’altro per intero, in una nudità senza difese. E’ questo che avverrà? E’ a lui che avverrà? E il suo tema, dunque, assume i lineamenti di una profezia? Il ragazzo non può rispondere a queste domande. Rimane lì, tremante, con i fogli in mano, in un’esitazione cruciale, sente che il momento sta per giungere e non riguarda solo quel tema, ma tutta la sua vita.
Milo De Angelis
NB: Sul peso assoluto del tema in classe, rinvio a questa riflessione biografica apparsa nell’Almanacco dello Specchio, Mondadori, 2007: “Mi preparavo al tema come ci si prepara a un incontro d’amore. Attendevo quel momento con una trepidazione, un batticuore gioioso, un trasporto totale del mio piccolo essere. Continuavo, certo, le cose di tutti i giorni. Giocavo a pallone, accudivo i miei gatti, leggevo Salgari. Ma tutto andava a confluire lì, nell’evento supremo, nel foglio che mi aspettava sul banco e riempiva di sé ogni giornata. E anche ogni notte. Il dormiveglia si popolava di frasi, episodi, volti e strade che avrei fatto rinascere nel tema. Quando giungeva il giorno benedetto, sentivo che da quel tema dipendeva tutta la mia vita e anche quella di chi mi leggeva, il maestro Bruno Piccoli, il mio primo ponte d’ingresso: attraverso di lui, mi rivolgevo al mondo intero. Mi trovavo di fronte a una porta. Quel foglio a righe, foglio di protocollo bianco e rettangolare, era davvero una porta. Bisognava varcarla per entrare nella vita autentica. E scrivere un tema era una profezia. Quello che stavamo per scrivere in un aula era quello che avremmo poi trovato in mezzo agli uomini: era un’anteprima dei nostri amori, dolori, solitudini, una mappa del nostro viaggio, una cartina muta da riempire con la massima precisione, un lasciapassare essenziale per la nostra salvezza” (NdA).
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Quell’andarsene nel buio dei cortili (2010) è la raccolta in cui è condensato in movimenti e bagliori tutto il percorso poetico di De Angelis, spesso con tono vicino all’aforisma. I testi di misura breve, raggruppati in sezioni dove si susseguono in un fluire di riprese e rispecchiamenti, sono costruiti attorno a un lessico chiave che porta con sé l’orfismo metropolitano di Somiglianze (1976), gli asciutti e tormentati alogismi di Millimetri (1963) e di Terra del viso (1985), gradualmente alleggeriti – in Distante un padre (1989) – dall’oscurità semantica, l’incontro di Biografia sommaria (1999) tra la tensione tragica individuale e quella scoperta alla radice della realtà più ordinaria, con un’osmosi viscerale tra biografia e cronaca. I termini chiave rimandano all’interrogarsi dell’io sul destino, come gli aggettivi e i verbi lapidari all’indicativo presente di Torna antica la parola, che sembrano evocare quel ritorno/riscoperta dell’origine descritto in “T. S.”, poesia tra le più importanti di Somiglianze («Torna antica», «eternità perduta», «a precipizio», «scendo», «s’indurisce», «l’erba cresce»). Il motivo del tema in classe è una delle esplicazioni simboliche più acute del tragico in De Angelis: Torna antica la parola rappresenta, in una colata di versi fulminea, la tensione che si fa attimo e gesto e che espone l’uomo alla prova, alla verifica assoluta, così come il ragazzo che, allo scadere del tempo, deve consegnare il tema o l’atleta che sta per scattare alla gara. Torna antica la parola è un quadro concluso che sintetizza il tragico nell’opera di De Angelis: fissa la «tensione», il «pensiero istantaneo», il «comandamento», il bisogno umano di «consegnarsi», di aprirsi – nella nudità tragica, ma non nichilistica di ciò che siamo – all’interrogazione su un assoluto. (M. B.)
Immagine: Foto di Viviana Nicodemo.
(La rubrica “I poeti leggono se stessi” ha ospitato: Mario Benedetti – “Che cos’è la solitudine”/1)
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).