Mark Strand-Edward Hopper. Un poeta legge un pittore

da | Nov 24, 2016

E’ da poco uscito, per Donzelli, Mark Strand-Edward Hopper. Un poeta legge un pittore, con introduzione di Damiano Abeni e Moira Egan. Proponiamo dal volume un saggio inedito di Strand su Hopper e, a seguire, l’introduzione dei curatori.

Mark Strand su Edward Hopper
(2013)*

1.

Dipingere e raschiare, dipingere e raschiare per arrivare «alla cosa giusta», la cosa che all’inizio non c’è ma che si rivela lentamente, e poi del tutto, dopo aver percorso l’arduo cammino in cui visione e immagine si uniscono, per un po’, fin quando non si prova un certo malcontento e si riprende a dipingere e raschiare.
Ma cosa determina la riuscita dell’opera definitiva? La coincidenza della visione – l’idea, vaga all’inizio, di cosa possa diventare il dipinto – e il dato di fatto bruto del soggetto, del suo caparbio esistere, appena «lì fuori» con un esistere assolutamente insulare.
Fino a quando, cioè, Edward Hopper non vi vede qualcosa che lo rende un soggetto plausibile per un dipinto, e questa immagine con le sue potenzialità non trova posto nell’immaginazione di Hopper, così che la formazione del contenuto del quadro può avere inizio – con il contenuto che è costituito, ovviamente, da ciò che l’artista porta di suo al soggetto, la peculiarità che lo rende inequivocabilmente suo, al punto che guardando un quadro di un edificio, di un ufficio, o di un distributore di benzina, siamo in grado di dire che è un Hopper. Allorché il distributore di benzina appare sulla tela nella sua forma definitiva, ha cessato di essere soltanto un distributore di benzina. È stato hopperizzato. Possiede qualità che non aveva mai avuto prima che Hopper lo vedesse come un soggetto possibile per un suo dipinto. E per l’artista il dipinto esiste, in parte, come modalità per incontrare se stesso. Anche se il sé che si incontra può forse non corrispondere alla visione delle opportunità che uno specifico soggetto sembrava offrire. Hopper ha affermato, in un’intervista con Brian O’Doherty: «Io cerco ME», e senza alcun dubbio lo intendeva alla lettera. La dichiarata incertezza di Hopper, che ha sempre dubitato di aver raggiunto gli obiettivi che si era prefissato, può darsi sia comune a molti pittori. Il punto di arrivo, o il punto in cui il dipinto è finito, non può essere conosciuto a priori, ma allo stesso tempo non può essere completamente ignoto. Una vaga idea – non più che vaga, ma via via più chiara e più convincente – dell’aspetto definitivo del dipinto, una volta compiuto, è l’unica guida per l’artista. E solo di rado si arriva alla pur vaga certezza che il dipinto sia in effetti compiuto; esiste sempre la possibilità che si sia presa la strada sbagliata, che ciò che alla fine ci si trova tra le mani assomigli ben poco all’ombra nebulosa, o alla speranza, di ciò che il dipinto avrebbe potuto essere. E così, ancora una volta si ricomincia a dipingere e a raschiare. Data l’incertezza con cui opera il pittore, in protratti periodi di dubbio, è davvero sbalorditivo che sia in grado di liberarsi dall’ansia e arrivi a completare un lavoro. Perfino Picasso, dotato di un talento prodigioso, aveva bisogno di continue rassicurazioni.
Uno dei modi in cui Hopper ha affrontato questa mancanza di certezze è stata la realizzazione di numerosi disegni preparatori per ciascun quadro, in modo particolare per i dipinti a olio. La recente mostra al Whitney Museum lo appalesa in modo assoluto (1). Probabilmente si tratta della migliore e più istruttiva mostra dei lavori di Hopper, e di sicuro è la migliore in tempi recenti. I disegni di Hopper non hanno mai ricevuto l’attenzione che meritano. Addirittura, se si dovessero prendere in considerazione soltanto i dipinti, si potrebbe concludere, come in effetti ha fatto qualcuno, che Hopper fosse un disegnatore mediocre. Hopper stesso, per quanto abbia conservato i disegni, non li ha mai considerati all’altezza dei suoi quadri. Ma i primi studi, sempre della figura umana, erano il più delle volte fini a se stessi, e non facevano parte del più ampio progetto di un quadro. E questi disegni dimostrano le sue non comuni doti di disegnatore; la mostra del Whitney Museum presenta due nudi sdraiati straordinariamente languidi ed eleganti che possono essere apprezzati per il proprio valore intrinseco e non in quanto contribuiscono alla realizzazione di un dipinto. Altri disegni, tra i primi eseguiti da Hopper, hanno un carattere prettamente esplorativo: uno sguardo o un gesto, analizzati in sé e per sé, senza pensare che possano contribuire a un quadro.
Pare che le sue doti di disegnatore fossero ben note a tutti nell’ambito della New York School of Art, e Rockwell Kent – studente del suo stesso anno – riteneva che tra tutti gli allievi della scuola Hopper fosse il miglior disegnatore, e lo definiva il John Singer Sargent del loro corso. Dagli anni venti ci sono rimasti molti notevoli disegni paesaggistici – in particolare, un’eccezionale rappresentazione di un tronco d’albero – e numerosi nudi eseguiti durante le lezioni di disegno dal vero al Whitney Studio Club tra il 1920 e il 1925. Ma i disegni realizzati come studi per un quadro specifico, fatti in serie e concentrati sui dettagli più minuti, posseggono un’identità grezza e sommaria e chiaramente non sono destinati a essere visti se non come appendici di un dipinto. Le differenze tra schizzo e schizzo successivo sovente sembrano così minime, ogni disegno una specie di prova generale per il successivo, che ci si chiede quanta informazione si trova – ammesso che ce ne sia – in ciascuno di essi o addirittura se fosse davvero questo il loro scopo.
Un chiaro esempio lo si trova nei numerosi schizzi preparatori per il quadro New York Movie (1939) (2). È possibile che perseguano un altro scopo, alquanto più essenziale al carattere sfuggente tipico di tutti i dipinti di Hopper.
Possono avere costituito un modo per familiarizzare con il soggetto del quadro, con lo scopo ultimo di possederlo immaginativamente. I disegni quindi formano un rituale grazie a cui l’artista arriva a sentirsi assolutamente libero e in pieno controllo del soggetto. Non si tratta di raggiungere la certezza di come si dipinge una zuccheriera o un salino, come in Nighthawks (1942) (3), ma del fatto che questi oggetti diventano suoi. L’assimilazione del mondo esterno nel suo mondo interiore poteva essere conseguita solo attraverso il reiterato rituale del disegnare e ridisegnare, delle leggere rettifiche effettuate qui e là, la somma delle quali va a costruire un pieno possesso creativo nell’ambito della più ampia libertà psichica. A questo modo, in seguito, durante l’esecuzione del dipinto Hopper poteva apportare leggere varianti senza dover far ricorso al disegno – il quadro era già in suo pieno dominio. Eppure, per quanto il quadro possa essere diventato familiare, il dipingere e il raschiare continuano, e ogni piccola modifica costituisce un altro passo verso la realizzazione di una visione. Ma ciò che forse resterà ignoto persempre è cosa abbia portato Hopper a scegliere i soggetti dei quadri. Chiaramente, almeno in parte, le sue scelte dovevano avere a che fare con il grado di possibilità che quei disegni divenissero uno dei suoi quadri – vale a dire, con il fatto che già possedessero o meno le proprietà fisiche che lui avrebbe potuto manipolare o raffinare fino al punto da farle inequivocabilmente sue. E come caratterizzare quel mondo, riconoscibile a prima vista, ma ostinatamente arcano, una miscela inscindibile di quotidiano e di misterioso, di inspiegabile? È difficile indicare con precisione cosa li rende tali, a meno che non si tratti di un’imposizione della volontà dell’artista, visibile ovunque in generale ma non in un punto specifico. Questo, forse più di qualsiasi altro carattere, è responsabile dell’immancabile fascino che Hopper provoca in spettatori di tutto il mondo.
Alcune grandi mostre recenti a Londra, Parigi, Roma e Madrid testimoniano l’universalità del richiamo di questo artista. Non è certo soltanto la geografia urbana della New York della prima metà del XX secolo o l’aria datata delle camere d’albergo, delle persone negli uffici che fissano lo sguardo vuoto o sognante nel nulla, a cui si può attribuire l’origine di un tale interesse. Qualcosa eleva i dipinti al di là dei registri figurativi del realismo trasportandoli nel regno elusivo e quasi mistico della meditazione. Momenti del mondo reale, di cui noi tutti abbiamo esperienza, sembrano per mistero trasportati fuori dal tempo. Ad esempio il mondo visto di sfuggita da un treno, o da un’auto in corsa, rivelerà la scheggia di una storia che forse cercheremo, o forse no, di completare, ma i cui echi suggestivi ci commoveranno comunque, rendendoci consapevoli della natura frammentaria, fuggitiva perfino, delle nostre vite. Questa è forse la fonte del peso emotivo proprio di tanti dipinti di Hopper. E qui sta il motivo per cui cadiamo pigramente in piatti luoghi comuni quando cerchiamo di spiegarne la straordinaria forza. Ripetutamente, di continuo, vocaboli come «solitudine» o «alienazione» vengono utilizzati per descrivere i tratti emotivi di questi dipinti.

2.

Ho cominciato a imbattermi in questo elemento elusivo nelle opere di Hopper quando andavo da Croton-on-Hudson a New York ogni sabato per frequentare lezioni di disegno per ragazzi in uno degli edifici sul lato sud di Washington Square che in seguito vennero demoliti per far posto alla Facoltà di Giurisprudenza della New York University. Era il 1947. Soltanto un anno dopo che Hopper aveva dipinto Approaching a City (1946), io mi affacciavo al finestrino del treno e vedevo le schiere di casermoni nelle cui finestre potevo guardare cercando di immaginarmi cosa voleva dire vivere in uno di quegli appartamenti. E poi all’altezza della 99a Strada ci infilavamo nel tunnel che ci avrebbe portato alla Grand Central Station. Si provava un brivido nell’andare tutto d’un tratto sotto terra, a viaggiare nel buio, per essere poi liberati tra la massa di folla che si aggira nel terminal cavernoso. Anni dopo, quando ho visto Approaching a City per la prima volta, mi sono subito venuti in mente quei viaggi nel cuore di Manhattan – e da allora mi succede sempre la stessa cosa. E Hopper, per me, è sempre stato legato a New York, a una New York catturata di sfuggita, di passaggio, addolcita dalla nostalgia, una città che ha preso dimora nel ricordo.
In seguito, i miei sentimenti nei confronti di Hopper si sono fatti più complessi.
Il carattere arcano dei dipinti si è accresciuto, con quel suo curioso timbro anerotico nonostante la frequente presenza di donne nude o seminude in camere da letto, con quell’introspezione, con il loro trasporto verso la malinconia nonostante l’assenza di segni evidenti – tranne nel caso di alcuni esempi particolarmente espliciti – relativi alla rappresentazione stessa della malinconia.
Nel catalogo della recente mostra di disegni di Hopper al Whitney, scrupolosamente accurato e pieno di informazioni, si trova un breve e brillante saggio di Mark W. Turner che confronta il muro descritto da Melville in Bartleby lo scrivano con i muri di Hopper. Nel saggio viene citato questo interessantissimo passaggio:

Ho sistemato la sua scrivania vicino a una finestrella laterale, in quella parte di stanza, un’apertura che un tempo aveva offerto la veduta obliqua di alcuni cortili e muri di mattoni fuligginosi ma da cui, per via delle nuove costruzioni, non si vedeva più niente, nonostante lasciasse trapelare un po’ di luce. A un metro dalla finestra c’era un muro, e la luce pioveva nella stretta fessura tra i due edifici molto alti, come da una feritoia in una cupola. Per migliorare ulteriormente quella sistemazione mi sono procurato un alto paravento verde, in modo da escludere del tutto Bartleby dalla mia vista, senza peraltro impedirgli di sentire la mia voce. In tal modo godevo sia della mia privacy che di compagnia.

Questa descrizione si lega in modo diretto a Office at Night (1940), ma in certa misura si attaglia anche a diversi altri dipinti. La particolare assenza di erotismo dai dipinti di Hopper raffiguranti donne che si trovano da sole dentro a una stanza può essere spiegata, almeno in parte, dal fatto che esse entrano in modo essenziale a far parte dell’aspetto formale di quelle stanze. E ciò causa quella certa neutralità che le caratterizza e che stempera qualsiasi attributo emotivo si possa loro attribuire. E se l’affermazione di Hopper è vera – e cioè che dipingendo stava cercando se stesso, e che sperava di trovare se stesso in quello che dipingeva, a significare in definitiva che i quadri riflettevano il loro creatore, e non solo la sua identità di pittore ma anche qualcosa di lui stesso come essere umano –, allora Hopper doveva essere stato una persona inusitatamente reticente, emotivamente nascosta.
Le sue donne non sembrano avere altra vita che quella incorniciata dalle stanze in cui le troviamo. Guardano fuori verso un mondo, quello che noi altri occupiamo – e può essere che il loro sguardo abbia sfumature di desiderio e nostalgia – che non è il loro mondo. È questo radicale distacco dal nostro mondo che compromette il loro aspetto erotico. Non sono affatto disponibili. Lo percepiamo con la stessa certezza con cui vediamo il risoluto carattere geome-trico delle stanze che occupano. Una tale solidità spaziale conferisce ai dipinti un’aria di assoluta stabilità e fissa la donna in quel luogo preciso, come ad esempio in Morning Sun (1952) (4). E ciò è talmente vero che immaginare queste donne in qualsiasi altro contesto costituisce solo una forma di fuga da parte dell’osservatore rispetto alla risolutezza imprigionante del dipinto. La tendenza a costruire racconti attorno
ai quadri di Hopper non fa altro che trivializzarli, esponendoli al sentimentalismo.
Le donne nelle stanze di Hopper non hanno futuro né passato. Sono arrivate all’esistenza insieme alle stanze in cui le vediamo. Eppure, a un certo livello, questi dipinti ci invitano a partecipare con la nostra costruzione di una storia – come per dimostrare quanto sarebbe inadeguato un tale tentativo. No, ciascun dipinto è un universo a sé stante in cui il suo mistero rimane intatto. E per molti di noi ciò è intollerabile. Non avere futuro, non avere passato significherebbe trovarsi sospesi, irrisolti – equivarrebbe alla sgradevole cancellazione di ogni narrazione, o di ogni struttura formale in grado di contribuire a normalizzare l’arcano come elemento inspiegabile delle nostre vite.

Note:
(*) Questo saggio era stato scritto da Mark Strand perché venisse pubblicato dalla «New York Review of Books» come recensione alla mostra dei disegni di Edward Hopper al Whitney Museum of American Art nel 2013. Il testo manoscritto è stato ritrovato in un taccuino dopo la sua morte, avvenuta il 29 novembre 2014. Editato dalla sua esecutrice letteraria, la poetessa Mary Jo Salter, è apparso il 25 giugno 2015 sulla «New York Review of Books». La traduzione in italiano, a cura di Damiano Abeni e Moira Egan, e la pubblicazione in questo volume sono state possibili grazie all’interessamento e alla cortesia di Jessica Strand e di Mary Jo Salter, nonché di Robert Silvers della «New York Review of Books».
(1) Hopper Drawing, Whitney Museum of American Art, 23 maggio-6 ottobre 2013; Dallas Museum of Art, 17 novembre 2013-16 febbraio 2014; Walker Art Center, Minneapolis, 15 marzo-22 giugno 2014. Catalogo della mostra a cura di Carter E. Foster e altri (Whitney Museum of American Art, 2013) [n.d.c.].
(2) Supra, n. XXI, p. 57.
(3) Supra, n. II, p. 7.
(4) Supra, n. XVII, p. 45.

***

Dare un senso a quello che vediamo
Introduzione alla seconda edizione

Mark Strand ci ha lasciati il 29 novembre 2014. Già mentre completava il suo ultimo libro, Almost Invisible, uscito per Knopf all’inizio del 2012 (1), diceva agli amici che non avrebbe più scritto niente.
In effetti, durante i suoi tre ultimi anni, non è più apparso nulla di Strand, nemmeno in rivista. E la poetessa Mary Jo Salter, sua esecutrice letteraria, passando in rassegna le ultime carte del poeta, ha trovato un unico saggio nuovo. Si trattava di un pezzo del 2013 su Edward Hopper, destinato alla «New York Review of Books» ma rimasto incompiuto. Che proprio di Hopper trattasse l’unico scritto inedito lasciato da Strand non dovrebbe sorprendere: infatti di un solo libro Strand, nella sua cinquantennale carriera, ha voluto due edizioni sostanzialmente diverse, e si tratta proprio della raccolta di prose dedicate ai dipinti di Hopper. Uscito originariamente da Ecco Press nel 1994, il libro è stato ripubblicato in edizione notevolmente aumentata da Knopf nel 2001 e tradotto per la prima volta in italiano da Donzelli nel 2003. È lo stesso testo che viene ora qui riprodotto in una nuova veste grafica di formato più grande, con l’aggiunta del saggio inedito del 2013 (2).
Questo scritto, oltre all’unicità di cui si è detto, è importante per diversi motivi: non solo testimonia la lunga fedeltà di Strand a un pittore che chiaramente gli era in tutto congeniale, ma si tratta anche – come sempre quando un grande poeta parla di creazione e lavoro artistico – di un discorso sulla poesia. In particolare pone l’attenzione, ad esempio, su quel ripetuto, apparentemente infinito, «dipingere e raschiare», cioè sul lungo lavoro di creazione, sulla pervicace attività artigianale, sull’impegno fisico e mentale che deve portare l’autore in qualche modo al di là di se stesso e della propria capacità di immaginare. Strand soleva dire «la poesia deve in qualche modo sfuggirmi, deve trovare il modo di andare in luoghi che non conosco, perché – se io la controllassi in tutto e per tutto, come farebbe a essere migliore di me?». E per Strand la ricerca creativa ha a che vedere essenzialmente con la forma dell’opera, che necessariamente regge, definisce e guida l’opera stessa. Questo aspetto di forma che definisce il contenuto Strand lo vede nella continua ricerca da parte di Hopper di una «struttura formale in grado di contribuire a normalizzare l’arcano come elemento inspiegabile delle nostre vite», in cui si rivede in primo piano il poeta stesso. Ma senza una perfetta corrispondenza tra forma e contenuto si rischia l’astratto, il virtuosismo arido e fine a se stesso. Strand dunque pone l’accento anche sulla parte strettamente figurativa di Hopper, affermando ad esempio, a proposito delle donne che così di frequente compaiono nei suoi quadri, che esse «entrano in modo essenziale a far parte dell’aspetto formale di quelle stanze». Per questo si invita il lettore a entrare nel ricchissimo gioco di corrispondenze tra l’opera di Edward Hopper – in particolare nei quadri visti attraverso lo sguardo di Strand – e le poesie di Strand stesso, che lungo le vie imperscrutabili dell’arte si illuminano a vicenda e così facendo aprono visioni su ulteriori enigmi, tanto frequenti e fitti in questi due autori. Si guardino, per proporre un solo esempio, quadri come Stairway, oppure Rooms by the Sea (3), mentre si legge la poesia L’idea (4), che comincia così:

Noi pure desideravamo possedere
qualcosa oltre il mondo a noi noto, oltre noi stessi,
oltre quanto sapevamo immaginare, qualcosa in cui
nondimeno potessimo riconoscerci […]

Un’ultima scoperta sulla passione hopperiana di Strand è poi dovuta a Dana Prescott, direttrice della Civitella Ranieri Foundation a cui Mark Strand ha lasciato la sua biblioteca personale. Il volume Edward Hopper and the American Imagination, curato da Deborah Lyons e Adam D. Weinberg, catalogo di una mostra dallo stesso titolo, Whitney Museum of American Art, 1995, è punteggiato da annotazioni a matita di Strand (5). In diversi punti si tratta di note icastiche e ironiche rivolte all’interpretazione «sociopsicologica» dei quadri di Hopper, un modo di guardare l’arte in generale che irritava grandemente Strand – ma che lo divertiva anche. «Dimostralo!», scrive accanto a un paragrafo che sostiene che l’arte di Hopper sia focalizzata sul fallimento delle relazioni interpersonali o sull’alienazione delle persone dal loro ambiente. E all’affermazione che sia «la capacità di Hopper a rassicurarci sul fatto che non siamo soli nella nostra solitudine, e che possiamo trovare in qualche misura una redenzione nella luce del sole» a spiegare «l’indefinibile richiamo» della sua opera, Mark Strand risponde con un sardonico: «Hopper terapeutico?». Ma è con l’annotazione posta al margine del primo paragrafo di quel catalogo che vogliamo riportare il lettore al problema che più sta a cuore, come abbiamo detto, a Mark Strand – ai continui echi, agli sfuggenti mondi ulteriori che vengono a crearsi quando struttura formale e contenuto entrano in risonanza armonica.
Crediamo sia una domanda importante per capire meglio Strand e la poesia, Hopper e l’arte, e – come vogliono la grande arte e la grande poesia – per capire meglio noi stessi: «Come mai troviamo così difficile dare un senso a quello che vediamo?».

Roma, ottobre 2016

Damiano Abeni e Moira Egan

Note:
(1) Quasi invisibile, trad. it. di D. Abeni, Mondadori, Milano 2014.
(2) Cfr. infra, pp. 87-93.
(3) In L’inizio di una sedia, a cura di D. Abeni, Donzelli, Roma 1999.
(4) Si veda infra, rispettivamente n. XVIII, p. 51 e n. XXX, p. 81.
(5) Ringraziamo Dana Prescott, Mary Jo Salter e Jessica Strand per averci messo a disposizione il catalogo con le annotazioni di Mark Strand.

Immagine: Edward Hopper, Rooms by the sea, 1951.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).