[Due saggi brevi, di Leonardo Manigrasso e di Laura Organte, che parlano della ricezione che l’opera di Luzi ha avuto ed ha in Francia, e del suo lavoro come francesista.]
La fortuna francese di Luzi
Ricostruire la fortuna francese di Luzi equivale a ricapitolare per sommi capi l’intera ricezione della nostra poesia novecentesca in un’area, come noto, scarsamente in ascolto della tradizione italiana recente. Una sorta di diffidenza – o «malinteso», per parafrasare un saggio di Jean Charles Vegliante in merito a questo tema[1] – che in particolare ha colpito le generazioni di autori successivi alla coppia Ungaretti-Montale, sia pure senza risparmiare anche illustri coetanei e con un sensibile sbilanciamento di interesse critico sul versante ungarettiano, paragrafo fra i più singolari della storia degli scambi letterari fra i due Paesi… Ad ogni modo, il fatto che la vicenda luziana possa dirsi esemplare di tendenze e tempistiche più generali è ben lungi dal costituirla come un caso “medio”: al contrario la gran messe di testi messa a disposizione nell’ultimo trentennio da alcuni fra i più valenti traduttori d’Oltralpe ha ormai eletto Luzi al rango di “classico” per eccellenza delle generazioni novecentesche, forse solo assimilabile in questo – dopo la recente traduzione integrale dell’opera in versi – al nome di Giorgio Caproni.
La storia di Luzi in Francia può essere grosso modo divisa in due capitoli. Il primo di questi comprende la stagione che dalle prime sporadiche traduzioni del dopoguerra arriva fino agli anni Settanta, quando le versioni di poeti nati nel Novecento conservano per lo più (ma con eccezioni) il loro carattere “sondaggistico”, di assaggio o panoramica sulla “recente” letteratura italiana. Benché infatti il poeta fiorentino instauri subito nella sua opera un rapporto privilegiato, intrinseco con la Francia, la relazione in senso inverso stenta ad accendersi. Si costituisce come una bella eccezione la scelta di testi luziani apparsi sotto l’egida di Contini e Ferrata nel quarto numero di «Lettres» del 1944, accanto a versi di Montale, Gatto, Vittorini… Ancora negli anni Cinquanta le traduzioni di poesie luziane sono occasionali: fra queste si segnalano Nouvelles à Giuseppina in «Cahiers du Sud» nel numero consacrato alla poesia italiana del ’54 (nel fascicolo anche i primi versi di Parronchi e Bigongiari) e quattro testi tradotti da Maurice Javion per «Mercure de France» del 1959. Poco superiore la circolazione di testi luziani negli anni Sessanta, grazie all’impegno di traduttori come Philippe Jacottet, Lily Auclair, Geneviève Burckhardt e, ancora per i «Cahiers du Sud», Antoine Fongaro. Negli anni Settanta la presenza di Luzi si fa addirittura più carsica, sia pure nel quadro di un’attenzione crescente alle proposte più attuali della giovane scrittura italiana (del ’77 è Le printemps italien di Vegliante, per intendersi…). Una presenza sottotraccia che tuttavia predispone il decennio successivo ad una vera e propria esplosione dell’interesse per la poesia di Luzi, cui è correlativa, finalmente, una fittissima attività di traduzione.
Il secondo capitolo della fortuna francese di Luzi infatti vede il coinvolgimento di un contesto editoriale finalmente ricettivo. Negli undici anni che intercorrono fra il 1984 – anno della preziosa antologia Vie fidèle à la vie, con versioni di Pascale Charpentier, Fongaro et Michel Orcel – e il 1995, quando Bernard Simeone traduce tempestivamente per Verdier Voyage terrestre et céleste de Simone Martini, l’opera in versi di Luzi viene edita quasi nella sua interezza. Nel solo 1985 escono la traduzione integrale di Onore del vero con il titolo di La nuit lave l’ésprit a cura di Fongaro per le edizioni l’Alphée, e quella di Dal fondo delle campagne, Nel magma e Su fondamenti invisibili per Flammarion con il titolo L’incessante origine e traduzioni di Philippe Renard e ancora di Simeone; nel 1987 è la volta di Pour le baptême de nos fragments, ancora a cura dei due traduttori appena citati; seguono nel 1989 Mi-figue, mi-raisin (ossia la suite Semiserie), a cura di Éliane Deschamps per L’Échoppe, e Cahier gothique tradotto da Jean-Yves Masson, che testimonia ormai l’esigenza del pubblico transalpino non solo di conoscere gli esiti più recenti del percorso luziano, ma anche di ricostruirne gli antefatti, di sondarne gli esordi, di ritessere una vicenda avvertita sempre più al centro del canone italiano ed europeo; non a caso nel 1991 escono un’opera antologica come Dans l’œuvre du monde per Orphée, ancora grazie alla dedizione di Simeone e Renard, e finalmente le versioni del Luzi giovane di La barca e Avvento notturno, tradotti per La Différence da Masson; nel 1994 è la volta della traduzione di Primizie del deserto, seguita da Onore del vero, dovuta a Fongaro e Masson (edizione ripubblicata nel 2005). Una ricognizione capillare, dunque, cui forse non è estranea in questi anni l’assidua presenza dell’autore in Francia, i cui frequenti passaggi hanno avuto un ruolo non secondario nella promozione dei suoi libri (di gran prestigio, più tardi, la partecipazione di Luzi al Salon du livre di Parigi del 2002, dove l’Italia figurava come ospite d’onore…). Per quanto riguarda invece gli esiti più recenti della tradizione luziana in Francia, bisogna almeno citare la versione di Sotto specie umana curata da Masson nel volume A l’image de l’homme del 2004. Nel frattempo però la statura acquisita dal Luzi poeta in Francia induce i traduttori ad occuparsi anche delle altre varianti della sua scrittura: negli stessi anni di massima circolazione di versi luziani escono infatti rispettivamente Lieux nel 1984, con sette prose scelte da Trame (volume poi tradotto integralmente in Trames del 1986) e nel 1994 il Livre d’Hypatie; ancora più tardi, nel 1998, è la volta di un esile libretto intitolato Le present de Leopardi, che traduce un contributo saggistico di Luzi del 1972, Leopardi nel secolo che gli succede.
Correlativamente a questa diffusione di testi e materiali, si sviluppa una “tradizione” critica francese di importanza crescente nella bibliografia luziana. I nomi dei più importanti studiosi, nella fase iniziale, coincidono per lo più con quelli dei traduttori, da Fongaro a Renard (fondamentale il suo Frammenti e totalità. Saggio su Per il battesimo dei nostri frammenti, uscito in Italia nel 1995), da Simeone a Masson; negli ultimi anni tuttavia alle ricognizioni ormai “storiche” e al lavoro critico di alcuni fra i più competenti italianisti francesi si sono affiancati i lavori di studiosi più giovani, come dimostrano le recenti tesi di dottorato consacrate all’autore nelle Università d’Oltralpe. Ecco dunque che la ricostruzione della fortuna luziana presenta un quadro relativamente dinamico, soprattutto nell’ambito di un rapporto – quello della poesia italiana in Francia – che ancora stenta a consolidarsi: non resta che augurarsi che il prestigio di questo nome possa fare da traino per una più sostanziosa diffusione all’estero della letteratura italiana, il cui corso appare oggi per lo più affidato alla circolazione di testi on-line (in tal senso sono attive in Francia alcune realtà molto vitali, fra cui si distinguono uneautrepoesieitalienne.blogspot.fr, legato ai lavori del CIRCE, laboratorio afferente alla Sorbonne Nouvelle molto attento ai problemi legati ai tranferts culturali, oltre a enjambeesfauves.wordpress.com o recoursaupoeme.fr, blog letterari con apposite sezioni dedicate alla letteratura italiana[2]). Il lavoro di queste realtà oggi appare molto più sollecito e reattivo rispetto all’editoria cartacea, i cui cataloghi presentano tutt’oggi un panorama fortemente lacunoso quanto all’esplorazione delle nostre voci più autorevoli: insomma, nonostante la consacrazione di maestri ormai istituzionalizzati come Luzi e Caproni, il «malinteso» italo-francese sembra ancora assai lontano dall’estinguersi…
Leonardo Manigrasso
[1] Jean Charles Vegliante, La réception de la poésie italienne au XXe siècle : une illustration du malentendu italo-français, in Traduzione e poesia nell’Europa del Novecento, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 2004, pp. 131-152. Nello stesso volume cfr. sull’argomento anche Catia Cantini, Il sublime Arlecchino. La poesia italiana del Novecento nelle traduzioni francesi, pp. 153-202. E ancora a cura di Vegliante cfr. anche La traduction-migration: déplacements et transferts culturels Italie-France XIXe-XXe siècles, sous la direction de Jean-Charles Vegliante, Paris, l’Harmattan, 2000.
[2] Sull’argomento cfr. J.C. Vegliante, Giocare fuori casa «con le armi della poesia», in «Nuova Corrente», 2014, pp. 29-40.
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Mario Luzi traduttore dal francese: “La cordigliera delle Ande”
Un primo “quaderno di traduzioni” di Luzi esce nel 1980 con il titolo Francamente, che allude alla “nazionalità” dei testi scelti dal poeta e francesista, presso l’editore Vallecchi. Tre anni dopo, la raccolta, ampliata e con un titolo preso in prestito da una lirica di Michaux, La cordigliera delle Ande, viene riproposta da Einaudi nella collana “Supercoralli”, la stessa che aveva ospitato nel 1981 Il Musicante di Saint-Merry di Sereni e nel 1982 Il ladro di ciliegie di Fortini. Grandi poeti-traduttori, ai quali viene chiesto di fare in qualche modo il punto sul proprio contributo al capitolo (forse) più importante della storia della traduzione di poesia nella nostra letteratura, quello novecentesco.
La silloge luziana, composta da poco meno di una trentina di versioni con testo a fronte, alcune delle quali inedite e altre già apparse in rivista o nelle antologie di poesia straniera, si propone dunque come compendio di una lunga attività di traduttore che ha costeggiato quasi per intero un itinerario poetico caratterizzato da paesaggi sempre diversi e dall’avvicendarsi di istanze espressive scaturite da altrettanti interrogativi etici, esistenziali, conoscitivi.
Come per la cosiddetta poesia in proprio, si fatica a ridurre a un denominatore comune il prodotto dell’attività traduttoria di Luzi. Nel recensire sulle pagine del «Corriere della sera» La cordigliera delle Ande, l’amico e sodale Carlo Bo sceglie un titolo particolarmente efficace per riassumere il rapporto tra il poeta e l’arte del vertere: Le “occasioni” di Mario Luzi traduttore[1]. Il termine montaliano si presta indubbiamente bene a connotare una raccolta in cui ogni traduzione ha le sembianze di un incontro, di un’epifania destinata a conchiudersi in se stessa senza rivelare integralmente il segreto della propria natura di testo situato all’intersezione tra due lingue, tra due mondi poetici, in cui convivono due voci e due individualità creative differenti. D’altra parte, la traduzione è per il poeta «un oggetto eminentemente empirico», restio a lasciarsi cristallizzare nelle rigidità di una teoria per l’estrema varietà delle suggestioni, delle contingenze e delle possibili attitudini che agiscono nella pratica di questo particolare tipo di attività poetica la cui definizione rappresenta già una limitazione: «per fortuna, il valore semantico della parola traduzione non è mai stato delimitato. Molti ci hanno provato e ci provano ancora, ma quello che ha il titolo ad essere chiamato traduzione è, in fondo, imprendibile in una formula».[2]
Lungi da rappresentare il «libro ideale della poesia francese» di Luzi, La Cordigliera delle Ande si configura piuttosto, riprendendo una definizione dell’autore nella Premessa e confidenza che apre il volume, come «il grafico di certi punti di accensione spontanea o provocata. […] un registro fedele e senza progetto fissato del mio aggirarmi dentro la parte francese del meraviglioso recinto».
Va detto, comunque, che questo “aggirarsi” nella tradizione poetica d’Oltralpe, a dispetto dell’impressione di casualità e arbitrarietà instillata dalle parole del poeta, risulta seguire traiettorie ben precise, tracciate dalle tendenze e dalle frequentazioni dell’epoca, ed in particolare della cerchia ermetica fiorentina: non mancano all’appello alcune presenze irrinunciabili nei quaderni di traduzioni degli anni Trenta e Quaranta, a partire dall’Otto e Novecento dei maestri francesi – Baudelaire, Rimbaud, Valéry e Mallarmé – per risalire, lungo quella linea tracciata dallo stesso Luzi nell’antologia L’idea simbolista, curata per Garzanti nel 1959, a Sainte-Beuve e fino al Cinquecento metafisico di Ronsard e dell’allieva di Scève, Louise Labé. Il dialogo con i contemporanei si svolge spesso sullo sfondo della Firenze degli anni Cinquanta, città in cui l’unico autore spagnolo ammesso nella silloge luziana, Jorge Guillén, esule dalla Spagna franchista, torna più volte intessendo stretti rapporti con il cenacolo presieduto da Oreste Macrì, e dove più tardi Frénaud avrà modo di conoscere Alessadro Parronchi e lo stesso Luzi.
Qualche sosta più inattesa rivela le curiosità e le predilezioni del francesista, come avviene per Cadou, poeta «morto trentenne, nel 1951, e ingiustamente semidimenticato come in vita era stato semiignorato», o per i brani dalla «sottile e toccante immagineria» di Supervielle.
Quanto ai modi del traduttore, dalle poche indicazioni di metodo fornite nella Premessa o confidenza si evince la centralità della forma del testo originale, che talvolta «sembra esiga di essere assunta come un blocco con il quale al traduttore non resta più altro desiderio che d’identificarsi», altre volte «emette un invito a sperimentare in parallelo», e altre ancora consente l’instaurarsi di un rapporto di «prevaricazione […] dell’autore secondo sul ricco e indifeso tessuto del primo».
Esempio della prima casistica è senz’altro la versione del celebre sonetto Sur la mort del Marie di Ronsard realizzata dal poeta appena ventenne, che rappresenta il massimo grado di identificazione e, nel contempo, di appropriazione, tanto da essere inclusa nella prima edizione della Barca (1942), con il titolo di Copia da Ronsard. L’adesione alla forma è in questo caso assoluta, anche se, paradossalmente, il testo diventa inequivocabilmente luziano. Il traduttore assume la cadenza nobile e solenne dell’alessandrino, ma al contempo imprime ai versi, quasi tutti con ritmo di 2 a/3a – 6a– 10a – 13a, il passo del verso principe della tradizione poetica italiana, l’endecasillabo. Sul piano lessicale, con poche e veloci pennellate, il traduttore evoca la comune matrice petrarchesca, una sorta di “superlingua” in grado di ricomporre la babele dei linguaggi poetici: i versi 2 «En sa belle jeunesse, en sa première fleur» e 9 «Ainsi en ta première et jeune nouveauté», legati da una ripresa lessicale chiastica, diventano in Luzi «nella sua bella età, nel suo primo splendore» e «Così nella tua prima giovanile freschezza», in cui risuona evidentemente il Petrarca di CCLXXVIII, 1 «Ne l’età sua più bella e più fiorita» e I, 3 «in sul mio primo giovenile errore». La rosa, però, protagonista del sonetto ronsardiano e simbolo della forza della creazione poetica, in grado di consegnare l’oggetto del proprio canto all’eternità, assume, nell’universo luziano, un’accezione ben diversa, divenendo ipostasi della fragilità e caducità umana al pari della teoria di evanescenti fanciulle che popola le prima raccolte del poeta fiorentino. Nelle mani del traduttore, il testo muta profondamente, per così dire, dall’interno, rimanendo miracolosamente inalterato nella sua veste formale.
All’estremo opposto di una casistica che presenta pressoché tutte le gradazioni possibili, si trovano le versioni dei Plusieurs Sonnets di Mallarmé, affrontati alla fine degli anni Settanta dopo una lunga vicenda critica ed esegetica che ha portato, nel 1952, alla pubblicazione di uno studio critico (Studio su Mallarmé, Firenze, Sansoni). La marmorea e cristallina perfezione dei sonetti è intaccata dall’interno: gli alessandrini mallarmeani, frantumati in unità minori, appaiono come cristallizzati nell’attimo immediatamente successivo a un’esplosione che abbia impresso loro un movimento centrifugo. Il vuoto si insinua nella compatta e impenetrabile scatola metrica dettando un ritmo nuovo. Una paradossale «decostruzione costruttiva», autorizzata, a detta del traduttore, dagli esiti del Coup de dés mallarmeano, ma che trova le sue ragioni nella ricerca formale ed espressiva che condurrà alla versificazione molecolare di Per un battesimo dei nostri frammenti (1985).
In generale, il momento centrale del gesto traduttivo luziano sembra situarsi proprio in corrispondenza della restituzione della forma, o, per meglio dire, della partitura del testo originale, di cui il traduttore individua e libera, di volta in volta, potenzialità inespresse, esiti ulteriori, possibilità inesplorate. La medesima dinamica, a ben vedere, è alla radice dell’incessante rigenerarsi della poesia di Luzi, caratterizzata da modulazioni sempre nuove che corrispondono a mutate esigenze espressive e conoscitive.
[1] L’articolo appare nell’edizione del 6 febbraio 1983, a pagina 13.
[2] M. Luzi, Riflessioni sulla traduzione, in F. Buffoni, La traduzione del testo poetico (a cura di), Milano, Marcos y Marcos, 2004, p. 51.
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Il nostro dossier Per Mario Luzi (1914-2014) ha fino ad ora proposto:
– Milo De Angelis, Breve viaggio tra le ombre di Mario Luzi;
– Stefano Verdino, Uno scritto disperso di Mario Luzi;
– Diego Bertelli, Poesia e traduzione nella generazione del ’14: Luzi, Parronchi e Bigongiari.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).