Inauguriamo una nuova rubrica, dal titolo “Margini”, che propone letture critiche di poesie emblematiche del Novecento. In apertura Giuseppe Tiné scrive su «O notte» di Giuseppe Ungaretti.
Dall’ampia ansia dell’alba
svelata alberatura.
Dolorosi risvegli.
Foglie, sorelle foglie,
vi ascolto nel lamento.
Autunni,
moribonde dolcezze.
O gioventù,
passata è appena l’ora del distacco.
Cieli alti della gioventù,
libero slancio.
E già sono deserto.
Perso in questa curva malinconia.
Ma la notte sperde le lontananze.
Oceanici silenzi,
astrali nidi d’illusione,
o notte.
Una lenta e insieme larga cadenza apre «O notte». Parole che paiono sgranarsi adagio; come adagio, e appena, sembrano “svelarsi” allo sguardo l’alba e l’alberatura. L’allitterazione delle a, le assonanze che legano tra loro tutte le parole dei primi due versi («ampia», «ansia», «alba», «svelata»); la comune misura bisillabica delle prime tre parole del primo verso; quel richiamarsi dei due termini, entrambi non casualmente in fine del secondo verso, «alba» ed «alberatura»; tutto conferisce una segreta unità a questa quasi “scena” d’apertura, che è insieme come un preludio già contesto di tutti i temi della lirica.
Come altrove, in Ungaretti (si pensi solo a Dove la luce), anche qui, l’alba ed il crepuscolo si confondono, coincidono. E per ciò, si direbbe, nella luce tremula, insieme nascente e morente, di quest’ora sospesa, in cui s’incide e svela solo il fragile, filiforme, nudo profilo dei rami, il risveglio è doloroso. È l’ora che dice la caducità – il lamento, cosí ungarettiano!, dell’inermità. E con l’«alberatura» tornano le foglie, cosí care, cosí cariche di sensi, di umanissimi sensi – «sorelle» ad Ungaretti.
Nel crinale estremo di quell’attimo, in questa soglia “autunnale”, dove il tremulo nascere alla luce, dove l’alba (quell’ansia sua, ampia, di svelarsi e di fiorire – di riuscire, cioè, ad una chiarezza, ad una luce di visione e di forma, alla “giornata” piena ed alta di quella “gioventú” di cui Ungaretti dirà appena dopo) è già sorpresa nell’istante in cui si è fatta crepuscolo, tremulo agonizzare; in questo attonito e come desolato, ottuso risveglio, quasi epifania mancata, dolcezza già moribonda; l’ora del congedo dalla gioventú – dai suoi cieli alti, liberi, dal barbaglio della sua luce aperta – è appena trascorsa: irrevocabilmente; e quell’«appena» ci fa sentire come tanto piú straziato, perché piú prossimo, il distacco. Un misterioso legame avvince per ciò per vie segretissime la seconda sillaba di «autunni» con l’ultima della parola tronca «gioventú», poi ripetuta, quasi a dire, a ribadire la pena di quel congedo. (Come non pensare, del resto, all’autunno, agli alberi, alle foglie, di Fratelli?)
Il distacco dalla gioventú, dalla sua vittoriosa “luce”, è qui per Ungaretti come un precipitare da cieli alti, che lo lascia «deserto»: desertum, abbandonato: a sé solo (non giunge fin qui un’eco remotissima, un’inconsapevole memoria del grido di Cristo in croce?) – ma che lo restituisce, insieme, e proprio per ciò, alla sua nuda, desolata, inerme, pura umanità: condizione puramente umana, questa, che egli ri-conosce e ri-trova, secondo una dinamica psicologica e spirituale che è propria di Ungaretti, sempre rinverginata e come stupefatta di sé: «E già sono deserto», dice. E sembra voglia dire: “E già, come sempre, ma sempre nuovamente, sono deserto: rinato al, e nel, mio esser deserto”. È il tema dell’inizio, centrale in Ungaretti.
Cieli e deserti: sono immagini vagamente bibliche, nelle quali si sentono vibrare certi armonici religiosi ungarettiani; come, del resto, nelle immagini dello slancio, del volo, e della “caduta”: una caduta che s’indovina essersi consumata nello spazio che separa il libero slancio verso i cieli dalla condizione di abbandono in cui il poeta si ri-scopre gettato – secondo una tipica movenza ungarettiana, simile a un ruinare improvviso, che porta con sé talora, insieme, un repentino mutarsi della scena interiore. Si pensi solo a quei versi di Godimento, in cui torna, e forse non per caso, anche il deserto: «Accolgo questa / giornata come / il frutto che si addolcisce». E poi, subito dopo: «Avrò / stanotte / un rimorso come un / latrato / perso nel / deserto».
Dunque il poeta è desertum, abbandonato da tutto e da tutti: inerme, solo: ripiegato, incurvato entro sé: una “curva” che – fallito e schiantatosi nella caduta il volo rettilineo verso la trascendenza – sembra alludere a quella interiorizzazione, a quell’approfondimento del sé entro sé, a quella immanenza, dunque, sul cui piano – pure perso nella sua malinconia, senza piú cielo, né “gioventú”, ma proprio per questo, forse, sempre piú “in ascolto” della Terra, alla ricerca di un «paese innocente», di un nuovo inizio, di una nuova possibile “gioventú” – il poeta finirà per ritrovare, insieme con il suo nuovo sé – anche l’Altro. Il mistero della “creatura” palpita allora nel dolore come nell’allegria: la sua inermità è insieme fragilità, e però anche, e per ciò stesso, apertura, disponibilità all’abbandono (“godimento”, talora – come abbiamo appena visto – avido, dei sensi, di volta in volta gioioso od oscuramente, segretamente colpevole): un abbandono, e quasi direi una “resa”, in cui tuttavia la verticale tensione verso il Trascendente si placa e rilascia e ripiega in un’introspezione desolata, ma insieme epifanica e rinnovatrice.
Sappiamo infatti che in Ungaretti questo ri-uscire di sé e da sé in un sé sempre nuovo, può, al termine del suo processo, guadagnare anche un approdo vitale. Se il risveglio, il ri-uscire, questo lento riscuotersi ad una sempre rinnovata e stupita memoria e percezione di sé, è, infatti, all’inizio di O notte, uno stupefatto, attonito dolore, al “naufrago allegro” può toccare in sorte anche l’abbandono panico, estatico, oblioso e smemorato – smemorante – ad un attimo di pienezza e di compiuta rinascita: una «bara di freschezza» (dirà ne I fiumi) in cui seppellirsi, in cui morire, appunto, per rinascere.
Ed ecco, allora, il gesto forte di quell’avversativa «Ma» con cui si apre il quartultimo verso, il quale annuncia il nuovo ritrovamento, il nuovo riuscire del sé dal sé di prima in un nuovo sé: «Ma la notte sperde le lontananze…» È riaperto un varco, uno squarcio, proprio in seno a quelle tenebre in cui il poeta si era incurvato e perso: nel seno di questa solitudine (forse in virtú di essa?), in questo estremo abbandono, in questo curvarsi e perdersi entro sé, il poeta riattinge sé nuovamente: sprofonda e riesce in quella primigenia «notte», che è la pienezza dell’oscurità come i cieli della gioventú lo sono della luce (entrambi, luce e notte, quasi vittoriose o dissolventi antitesi all’ambigua, sospesa, tremante indefinitezza dell’alba-crepuscolo); riesce, cioè, in quell’inizio che è insieme la fine, in quella cosmica totalità invisibile nella quale soltanto è possibile sperdere ogni lontananza, ritrovare la prossimità con le cose – e forse non piú soltanto nel segno della fragilità: naufragare in sovrumani, oceanici silenzi, che sono insieme astrali grembi di nuove, “leopardiane” illusioni. A misura che questa immensità si allarga, la parola sembra qui ritrarsi, ritirarsi – la poesia risolversi in un inno tacito ed alto: della notte e alla notte – che inghiotte la voce del poeta, capace appena, ora, di nominarla: di dire solo il suo arreso stupore in quel vocativo finale. È, ancora una volta, la resa ungarettiana della parola: questa volta non “inerme”, tuttavia – bensí raccolta, e dissolta, nel Tutto.