Quattro poesie inedite.
Fermati in un punto e guardati attorno verso le sei,
sei e mezza: le narici bruciano di ossigeno
e la notte sta sparendo veloce. Dove va a finire?
Si ritira nelle ombre e lì prosegue nel primo minuto
del giorno che inizia a sparire. Ti si incolla addosso.
Ora sull’asfalto come fuori dalla tenda di Abramo.
C’è freschezza, quasi, e nitore, quando lo scarico del tir
punge al fondo della gola come una prima sigaretta.
È un esordio eterno a quest’ora il cielo extraurbano emiliano.
Rimani fermo e guardalo mentre supera di azzurro
la comprensione: poi potresti guardare la luce che frana
sui calanchi, crederla bella da fermare il cuore.
*
Dovremmo credere ai cartelli quando come costole
spalancano al cuore uno spazio per pulsare
se sull’alluminio rifrangono in cifre la misura
del divario fossile che basta a sentirci persi,
o vederli come sfregi verticali al modo che abbiamo
di sbirciare l’orizzonte del nostro New Jersey
ma senza ponti per il centro dove agglomerarsi
nel nucleo vulcanico dove si fabbrica la luce?
*
Lingua e precisione separano i destini
quando l’impressione spodesta gli aggettivi
e diventa quintessenza, una foglia
che scheletrisce sull’asfalto: così accade
durante un rientro a casa in notturna
su una strada che smarrisce e sorprende
nel tracciato, sotto un braille di stelle
che non so leggere, tra un catalogo vegetale
dai nomi che sfuggono, dosando gas
e freno nel mistero meccanico del movimento.
Stampato ma fuori registro dentro il tempo
l’ombra che non corrisponde e non sostiene
ma sbava i miei contorni: li drena, li svuota.
Il cono dei fari inquadra la danza del respiro
gigantesco della terra, pochi chilometri ancora,
le fusa dolci del milledue benzina: mai,
in nessun altro modo e così forte per giunta
spinge, buca e poi dilaga in corpo il senso
che non sarebbe perdita ma grazia superiore
spegnere tutto senza averci capito niente.
*
Chi mi dice che parole e repertorio
siano l’esatto tracciante del pensiero
o le sberle che lo strappano all’agenda,
che non facciano invece come il fumo
fa con gli occhi formando filigrane e figure
a principio di un racconto che all’altezza
della svolta scoppia come un verso rimpinzato
traboccante in nuove linee fino a perdere fiato?
Spero sempre che per tutti sia come riascoltarsi
registrati, la voce di uno spettro che nuota
nell’aria senza un punto per fissarsi.
Lingua, nave interstellare e utilitaria.
Poesia, ampia sintesi di uno zero a zero.
Marco Bini è nato nel 1984 e vive e lavora nel modenese. Suoi testi sono apparsi nelle antologie La generazione entrante (Ladolfi, 2011) e Post ‘900 (Ladolfi, 2015) e in diverse riviste cartacee e online. Nel 2011 è uscito il suo primo volume di poesie, Conoscenza del vento (Ladolfi) e nel 2015 la sua seconda raccolta, Il cane di Tokyo (Giulio Perrone). È redattore della rivista «Atelier» e collabora anche con il sito della rivista, per cui traduce poeti di lingua inglese.