Ispirato a una frase di Henry David Thoreau il testo che segue è tratto da “Nella spirale” di Gianluca D’Andrea, da poco uscito per Edizioni Industria & Letteratura.
Il gracchiare costante, questo urlo di uccelli impazziti. Nel giardino nero si affacciano nuove finestre. Inaudito. «Se voi, nati in questi tardi tempi» (1) vorrete incamminarvi dentro le stagioni,
scopriremo i prossimi sentieri e le nuove deviazioni. Tempi tardi e nuovi, origine.
Gli uccelli continuano a gracchiare, non più. Adesso un silenzio vegetale avvolge la colonna vertebrale. Cervice liquefatta sul sentiero, Orfeo redivivo e squartato:
Orpheus Tomorrow
I.
I suoi sensi erano divisi
come se i passi non fossero usciti
dal sentiero. Continuando a strisciare
sotto un cielo di pioggia, con le mani
sottili, si voltò infine e vide
la radice. Tra i passi annacquati
sentì una piccola voce,
un sussurro, un reclamo. Reclamava
la radice, un fuoco, il calore
perché tutta l’acqua sussurrava
Chi?
E lui si voltò nello scatto rappreso
e accolse i rami silenziosi, i frassini
spogli e sparsi sugli argini. Il vento
lo spingeva lontano, dove i passi
divisi si separarono fatalmente
dal sentiero, sotto un cielo di pioggia
senza stelle.
II.
E allora si voltò.
Era una commozione arcaica
che lo trascinava tra le bacche
e i rami secchi, tra i boschi
a succhiare e trasfondersi.
Solo immagini per trarre colori
sommersi, col blu altrove,
con nomadi e baracche
a materializzare il paesaggio.
C’erano rocce lì e un cuore commosso
e un suono d’uccello outsourcer.
Il cuore del bosco era dentro una nuvola
vaporosa, come una catena di cristalli
circondati dall’effimero.
E tutto appariva sparpagliato
e accessibile, ardente
come il suo essere solo,
inghiottito. Un dio di trasformazioni
si espandeva come nebbia e desiderio,
per questo si voltò e lo raggiunse
un vento moderato e lo bloccò
un archivio-agglomerato.
Nel lock-in che generava una nuova
appartenenza si sentiva appagato,
tenero, nascente come un uomo
raccolto nel suo attimo di rivelazione,
nella sua notte del passato. Nell’avvenire.
Così trasfuso nell’apparizione del mondo
nell’ora più solitaria
del suo cuore solitario.
III.
Un giorno, raggiunto dalla sua solitudine,
sentì un formicolio appagante
e un gibbone candido, gli occhi tristi,
incombere sui frammenti delle sue spoglie.
Aveva sempre saputo che a triturarlo
sarebbe stata un’onda di sfortuna
causata dal lavoro del destino,
dalla ripetizione costante dell’ascesa.
Per questo non si sorprese ma ascoltò
le parole compatte e attutite dell’ominoide,
la sua lingua poteva sembrare sbiadita
mentre vibrava sugli ultimi scorci
della sua rovinosa vita.
Dove il fiume ristagna stanno
le gambe marcescenti,
le dita irrorate
da una muffa digitale
e il cranio spezzato tra le rocce.
Entrambi volevano parlare
degli ultimi passi, ma un verso
stagnante e matriarcale risuonava
dalla lingua polverizzata sui granelli,
inzaccherata di terra, vorticante
sui circuiti di ieri, tormentato
dalle allucinazioni del buio.
Le linee cunicolari del mondo, le allucinazioni del buio e il tempo che si espande nella percorrenza. Ali e piedi e scoprire che intorno si aprono, svoltano i sentieri, il cielo nero supera il giardino, le cornacchie suonano un avvertimento, non incombe alcun vento impetuoso tra i viali, solo la pioggia s’infittisce. Poi il cielo sbianca e il profumo delle robinie si espande, sono grato al profumo, alle ombre immense con cui il sole disegna il paesaggio. Le variazioni della terra e le origini umili della vita. Mi arrampico prima che ritorni il vento, rimarrò qui finché non tornerà la pioggia, «nel cammino glorioso del giorno» (2).
NOTE:
- W. Shakespeare, Pericle, principe di Tiro.
- W. Shakespeare, Ivi.
Immagine: Laure Prouvost, Deep Travel Ink, 2019.