Tre poesie inedite.
In partenza: ciò che non riesco a dire
come inchiostro bianco su un foglio
bianco o grigio di neve,
o forse sei tu – spettatore
che hai aspettato di vedere versi
meno sospettosi per questa storia
il mio quindici di agosto ho pianto
– (agosto è il mese terribile)
e non ho più visto nulla
per molto tempo
e oggi ancora non vedo nulla.
“Viva l’Italia” – mi hanno sentita
in febbraio (quella sera sono uscita di casa)
ti condanno a non dimenticare
l’odore di tabacco nelle stanze
e il vuoto dei viali di domenica
e il velluto rosso
e la gloria del paese ritrovato.
Di cosa canto non me lo chiede nessuno
– di cosa canto
una scrittura rimasta parola detta
forte da non sbattere neppure
l’ultima delle finestre.
Hjortron: scrivo solo parole
incenerite dal tuo odore.
Di muscoli fragili frammenti
d’argilla, ferro insapore
frutto dei miei primi passi:
le prime parole definitive
ritorno
sono ritornata!
Vi ho portato un canto in dono,
nella voce ascoltate filamenti
di tabacco, di legno da parete.
So che non vedrete mai la mia neve
mentre io a nord ho perso lo sguardo
lascia che io dorma accanto a te, Ume
om du kan.
Lo hjortron era ultimo
in fondo al barattolo:
ne potevo mangiare poco per cena.
Ma la persona che quel sapore lo odiava
è rimasta lontana da qui;
continua a dirci che i frutti gialli sono acidi
– non fanno paura, me lo ha promesso;
nessuno ha paura dove è lei.
Nemmeno io.
(Lascia che io dorma accanto a te, Ume
om du kan).
Nota: Dallo svedese, hjortron: camemoro; Ume: fiume che attraversa la città di Umea, Svezia; om du kan: “se puoi”.
*
KADDISH
per i vivi
Il primo giorno domando alla madre
della morte che non è mia
del sangue di lui, caduto
nelle terre lunghe
nelle erbe non ancora falciate
il secondo giorno non ho capito
se l’uomo ha chiesto di attendere
a chi lo ama intensamente,
se la voce calda ha finito di cantare
le sacre vie, i magazzini svuotati
il terzo giorno ho detto addio alla mano
nell’acciaio di finestre di treni,
ho mangiato i frutti rinsecchiti
dell’autunno che qualcuno
ha nominato: autunno
il quarto giorno ho luoghi di persone
che danzano fra i miei organi stanchi,
con parti impietrite che scelgono
la consistenza dell’asfalto
della strada che mi precede
il quinto giorno digiuno pupillare:
vedere altro – non calmo gregge
che graffia correndo sulla sua schiena,
cicatrizza i solchi degli aratri di carne,
chiude i pochi occhi arroganti.
Il sesto giorno ad alta voce
non sono quello che dichiaro
l’ultimo è il settimo giorno:
dimentico ciò che non ho più.
*
Come il cavaliere che balla
alla fine della storia,
ci si inventa una morte felice,
più leggera dei fiori di pasqua.
(My mind is jumpin’ off the cliff,
life is not a dangerous place)
la vita non è un luogo pericoloso
Siete tutti voi un pattinatore
sopra il confine più ingiusto,
reggere con mani guantate lo specchio
delle camerate più piene:
uno spettro che chiama aiuto
per non sbagliare strada nell’attesa
la vita non è un luogo pericoloso
Vergogna della mente che si aggredisce
e dà nome al confronto
come una giovinezza che sarà
crepuscolo sotto il cielo di alcuni –
forse anche l’unico abete del bosco
può essere sole d’inverno
la vita non è un luogo pericoloso
La prima giornata a passo
di carovana – fuori sotto un grigio
di feste e cibi dolci:
sono solo timide paure
contro il canto che non è nulla
di più sconosciuto:
la vita non è un luogo pericoloso
Non ho molto da dire
se non un vento che sporca
ogni cosa che tocca,
lo stesso piumaggio distratto
e il suo pennello che ha perso
la grinta della preda
la vita non è un luogo pericoloso
Immagine: Stanley Whitney.