In un saggio all’interno del volume Ciudad y escritura. Imaginario de la ciudad latinoamericana a las puertas del siglo XXI (a cura di Nanne Timmer, Leiden University press, 2013) Gabriel Giorgi indaga due dispositivi attraverso cui la letteratura ispanoamericana ha affrontata il tema della violenza.
Cadáveres dell’argentino Néstor Perlongher è l’opera che fa della dislocazione dei cadaveri la materia prima della poesia: l’insistente ripetizione del verso Hay cadáveres rimanda alla quotidiana violenza perpetrata nel corso della Guerra sucia degli anni ’70-80, mentre la chiusa (No hay nadie? Pregunta la mujer del Paraguay. / Respuesta: No hay cadáveres. – Non c’è nessuno? Domanda la donna del Paraguay / Risposta: Non ci sono cadaveri.) crea il colpo di scena della sparizione fisica di quegli stessi resti umani e segnala il prevalere della forza dittatoriale. Corpi umani che si sottraggono al corpo del testo e alla storia. Nella sezione La parte de los crímenes di 2666, Bolaño ci guida in una passeggiata macabra nella città fittizia di Santa Teresa, alla frontiera tra Messico e Stati Uniti, in cui entriamo in contatto e veniamo quasi contagiati dalla proliferazione di cadaveri, specialmente di donne violentate e fatte a pezzi, nonostante il tono della narrazione rimanga quello freddo e scientifico del criminologo. Qui la violenza è quella visibile dell’accumulo esasperato sino all’irriconoscibilità di corpi che nulla più hanno di umano.
Questi due dispositivi, ci dice Giorgi, mettono in luce da prospettive storiche e letterarie diverse la falla comune degli Stati moderni latinoamericani i quali, per dirla con Foucault, creano dei territori di illegalità in cui l’esercizio della violenza risulta legittimato dall’alto delle gerarchie. La necropolitica si afferma dominando sulla materia corporale, sia praticandone la sua sottrazione (Perlongher) che la sua iperesposizione (Bolaño).
Una recente pubblicazione di Cristina Rivera Garza (Los muertos indóciles. Necroescrituras y desapropiación, Tusquets, 2013) pone un interessante quesito: che tipo di scrittura è valida di fronte all’imperare della necropolitica e alla morte dell’autore proclamata da Barth e Foucault? La risposta della scrittrice messicana getta le basi per la nascita delle necroscritture, scritture che ribaltano i procedimenti escludenti dello Stato e dell’autore incrollabile per dare spazio a scritture di tipo collettivo o personali ma dialogiche e in cui si fora il principio dell’originalità testuale manipolando in continuazione materiali diversi, estratti da discorsi, blog, giornali, interviste, etc.
In questo scenario si inserisce il lungo poema di María Rivera, letto dall’autrice l’8 maggio 2011 nella piazza del Zócalo a Città del Messico quale tappa conclusiva di una denuncia poetica attivata assieme al poeta Javier Sicilia, il cui figlio assieme ad altri sei giovani è stato ucciso dalla criminalità organizzata a Temixco. La denuncia della poetessa messicana si fa più ampia e rimanda a tutta la serie di crimini che attanagliano il suo Paese, appoggiati direttamente o indirettamente da uno Stato connivente. Una pervicace resistenza attraverso la parola, quella di María Rivera, parola che è calda e appassionante pur nella freddezza giornalistica dell’elenco. A poco a poco l’autrice scompare facendosi quasi reporter degli avvenimenti e insistendo sul verbo llamar (chiamare) tenta di dare un nome a quel catalogo di nudi corpi e nude emozioni in essi contenute e silenziate, di restituire loro la dignità di cui sono stati spogliati attraverso la loro esposizione pubblica.
A cura di Lucia Cupertino
I morti
Da lì vengono
i decapitati,
i monchi,
gli squartati,
quelle a cui spaccarono il coccige,
quelli a cui schiaccarono la testa,
i piccoletti piangendo
fra pareti oscure
di minerali e sabbia.
Da lì vengono
quelli che dormono in stabili
di tombe clandestine:
vengono con gli occhi bendati,
legate le mani,
crivellati alle tempie.
Da lì vengono quelli che si persero a Tamaulipas,
cognati, generi, vicini,
la donna che violarono in branco prima di ucciderla,
l’uomo che cercò d’evitarlo e si beccò uno sparo,
quella che fu anche lei violata, scappò e lo raccontò viene
camminando verso Broadway,
si consola con il pianto delle ambulanze,
le porte degli ospedali,
la luce brillando nell’acqua dell’Hudson.
Da lì vengono
i morti che partirono da Usulután,
da La Paz,
da La Unión,
da La Libertad,
da Sonsonate,
da San Salvador,
da San Juan Mixtepec,
da Cuscatlán,
da El Progreso,
da El Guante,
piangendo,
quelli congedatisi in una festa con karaoke,
e che incontrarono crivellati a Tecate.
Da lì viene lui che fu obbligato a scavare la fossa per suo [fratello,
che assassinarono dopo avergli estorto quattromila dollari,
quelli che furono sequestrati
con una donna che violentarono di fronte a suo figlio di [otto anni
tre volte.
Da dove vengono,
da quale cancrena,
oh linfa,
i sanguinari,
i perfidi,
gli efferati
assassini?
Da lì vengono
i morti così soletti, così muti, così nostri,
concatenati sotto l’enorme cielo dell’Anáhuac,
camminano,
si strascinano,
con la loro conca di orrore tra le mani,
la loro rabbrividente tenerezza.
Si chiamano
i morti che trovarono in una fossa a Taxco,
i morti che trovarono in posti isolati di Chihuahua,
i morti che trovarono sparsi in campi da coltivo,
i morti che trovarono gettati nella Marquesa,
i morti che trovarono appesi ai ponti,
i morti che trovarono senza testa in terreni demaniali,
i morti che trovarono al bordo della strada,
i morti che trovarono in auto abbandonate,
i morti che trovarono a San Fernando,
i senza numero che fecero a pezzi e ancora non si trovano,
le gambe, le braccia, le teste, i femori di morti
disciolti in taniche.
Si chiamano
resti, cadaveri, uccisi,
si chiamano
i morti le cui madri non si stancano di aspettare
i morti i cui figli non si stancano di aspettare,
i morti le cui mogli non si stancano di aspettare,
immaginano tra subways e gringos.
Si chiamano
corpetto tessuto nel cassetto dell’anima,
camicetta dei tre mesi,
la foto del sorriso senza denti,
si chiamano mammuccia,
papuccio,
si chiamano
calcetti
alla pancia
e il primo pianto,
si chiamano quattro figli
Petronia (2), Zacarías (3), Sabas (5), Glenda (6)
e una vedova (ragazza) che si innamorò quando andava [alle elementari,
si chiamano voglia di ballare nelle feste,
si chiamano rossore di accese guance e mani sudaticce,
si chiamano ragazzi,
si chiamano voglia
di costruire una casa,
mettere su mattoni,
dare da mangiare ai miei figli,
si chiamano due dollari per pulire fagioli,
case, tenute, uffici,
si chiamano
pianti di bambini su pavimenti di terra,
la luce volando sugli uccelli,
il volo delle colombe nella chiesa,
si chiamano
baci in riva al fiume,
si chiamano
Gelder (17)
Daniel (22)
Filmar (24)
Ismael (15)
Agustín (20)
José (16)
Jacinta (21)
Inés (28)
Francisco (53)
tra cespugli,
imbavagliati,
nei giardini delle fattorie
a mani legate,
nei giardini di protetti casolari
svaniti,
in posti dimenticati,
disintegrandosi senza parole,
silenziosamente,
si chiamano
segreti di sicari,
segreti di massacri,
segreti di poliziotti,
si chiamano pianto,
si chiamano foschia,
si chiamano corpo,
si chiamano pelle,
si chiamano tepore,
si chiamano bacio,
si chiamano abbraccio,
si chiamano riso,
si chiamano persone,
si chiamano suppliche,
si chiamano io,
si chiamano tu,
si chiamano noi,
si chiamano vergogna,
si chiamano pianto.
Da lì vengono
María,
Juana,
Petra,
Carolina,
13,
18,
25,
16,
i seni morsi,
le mani legate,
bruciati i loro corpi,
le loro ossa levigate dalla sabbia del deserto.
Si chiamano
le morte che nessuno sa nessuno vide che uccisero,
si chiamano
le donne che vanno sole di notte ai bar,
si chiamano
donne che lavorano escono dalle loro case all’alba,
si chiamano
sorelle,
figlie,
madri,
zie,
scomparse,
violentate,
bruciate,
gettate via,
si chiamano carne,
si chiamano carne.
Lì
senza fiori,
senza lapide,
senza età,
senza nome,
senza pianto,
dormono nel loro cimitero:
si chiama Temixco,
si chiama Santa Ana,
si chiama Mazatepec,
si chiama Juárez,
si chiama Puente de Ixtla,
si chiama San Fernando,
si chiama Tlaltizapán,
si chiama Samalayuca,
si chiama el Capulín,
si chiama Reynosa,
si chiama Nuevo Laredo,
si chiama Guadalupe,
si chiama Lomas de Poleo,
si chiama Messico.
*
Los muertos
Allá vienen
los descabezados,
los mancos,
los descuartizados,
a las que les partieron el coxis,
a los que les aplastaron la cabeza,
los pequeñitos llorando
entre paredes oscuras
de minerales y arena.
Allá vienen
los que duermen en edificios
de tumbas clandestinas:
vienen con los ojos vendados,
atadas las manos,
baleados entre las sienes.
Allí vienen los que se perdieron por Tamaulipas,
cuñados, yernos, vecinos,
la mujer que violaron entre todos antes de matarla,
el hombre que intentó evitarlo y recibió un balazo,
la que también violaron, escapó y lo contó viene
caminando por Broadway,
se consuela con el llanto de las ambulancias,
las puertas de los hospitales,
la luz brillando en el agua del Hudson.
Allá vienen
los muertos que salieron de Usulután,
de La Paz,
de La Unión,
de La Libertad,
de Sonsonate,
de San Salvador,
de San Juan Mixtepec,
de Cuscatlán,
de El Progreso,
de El Guante,
llorando,
a los que despidieron en una fiesta con karaoke,
y los encontraron baleados en Tecate.
Allí viene al que obligaron a cavar la fosa para su hermano,
al que asesinaron luego de cobrar cuatro mil dólares,
los que estuvieron secuestrados
con una mujer que violaron frente a su hijo de ocho años
tres veces.
¿De dónde vienen,
de qué gangrena,
oh linfa,
los sanguinarios,
los desalmados,
los carniceros
asesinos?
Allá vienen
los muertos tan solitos, tan mudos, tan nuestros,
engarzados bajo el cielo enorme del Anáhuac,
caminan,
se arrastran,
con su cuenco de horror entre las manos,
su espeluznante ternura.
Se llaman
los muertos que encontraron en una fosa en Taxco,
los muertos que encontraron en parajes alejados de [Chihuahua,
los muertos que encontraron esparcidos en parcelas de [cultivo,
los muertos que encontraron tirados en la Marquesa,
los muertos que encontraron colgando de los puentes,
los muertos que encontraron sin cabeza en terrenos [ejidales,
los muertos que encontraron a la orilla de la carretera,
los muertos que encontraron en coches abandonados,
los muertos que encontraron en San Fernando,
los sin número que destazaron y aún no encuentran,
las piernas, los brazos, las cabezas, los fémures de muertos
disueltos en tambos.
Se llaman
restos, cadáveres, occisos,
se llaman
los muertos a los que madres no se cansan de esperar
los muertos a los que hijos no se cansan de esperar,
los muertos a los que esposas no se cansan de esperar,
imaginan entre subways y gringos.
Se llaman
chambrita tejida en el cajón del alma,
camisetita de tres meses,
la foto de la sonrisa chimuela,
se llaman mamita,
papito,
se llaman
pataditas
en el vientre
y el primer llanto,
se llaman cuatro hijos,
Petronia (2), Zacarías (3), Sabas (5), Glenda (6)
y una viuda (muchacha) que se enamoró cuando estudiaba [la primaria,
se llaman ganas de bailar en las fiestas,
se llaman rubor de mejillas encendidas y manos sudorosas,
se llaman muchachos,
se llaman ganas
de construir una casa,
echar tabique,
darle de comer a mis hijos,
se llaman dos dólares por limpiar frijoles,
casas, haciendas, oficinas,
se llaman
llantos de niños en pisos de tierra,
la luz volando sobre los pájaros,
el vuelo de las palomas en la iglesia,
se llaman
besos a la orilla del río,
se llaman
Gelder (17)
Daniel (22)
Filmar (24)
Ismael (15)
Agustín (20)
José (16)
Jacinta (21)
Inés (28)
Francisco (53)
entre matorrales,
amordazados,
en jardines de ranchos
maniatados,
en jardines de casas de seguridad
desvanecidos,
en parajes olvidados,
desintegrándose muda,
calladamente,
se llaman
secretos de sicarios,
secretos de matanzas,
secretos de policías,
se llaman llanto,
se llaman neblina,
se llaman cuerpo,
se llaman piel,
se llaman tibieza,
se llaman beso,
se llaman abrazo,
se llaman risa,
se llaman personas,
se llaman súplicas,
se llamaban yo,
se llamaban tú,
se llamaban nosotros,
se llaman vergüenza,
se llaman llanto.
Allá van
María,
Juana,
Petra,
Carolina,
13,
18,
25,
16,
los pechos mordidos,
las manos atadas,
calcinados sus cuerpos,
sus huesos pulidos por la arena del desierto.
Se llaman
las muertas que nadie sabe nadie vio que mataran,
se llaman
las mujeres que salen de noche solas a los bares,
se llaman
mujeres que trabajan salen de sus casas en la madrugada,
se llaman
hermanas,
hijas,
madres,
tías,
desaparecidas,
violadas,
calcinadas,
aventadas,
se llaman carne,
se llaman carne.
Allá
sin flores,
sin losas,
sin edad,
sin nombre,
sin llanto,
duermen en su cementerio:
se llama Temixco,
se llama Santa Ana,
se llama Mazatepec,
se llama Juárez,
se llama Puente de Ixtla,
se llama San Fernando,
se llama Tlaltizapán,
se llama Samalayuca,
se llama el Capulín,
se llama Reynosa,
se llama Nuevo Laredo,
se llama Guadalupe,
se llama Lomas de Poleo,
se llama México.
Poeti messicani contemporanei /1: Rivera Garza.
Poeti messicani contemporanei /2: Jair Cortés
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).