Con fatica dire fame raccoglie quindici anni di scrittura; e si presenta, con l’imponenza del calendario, come seconda tappa (dopo Planimetrie, 1998) di un importante cammino poetico. È un’opera complessa, per riferimenti e per ampiezza di tematiche, eppure si impone forte, limpida. Questa forza è dovuta ad un percepibile lavoro millimetrico del poeta su ogni verso e, oserei dire, su ogni sillaba. Il valore supremo della dedizione, dell’insoddisfazione e del labor sono qui messi in gioco e denunciano fin da subito la grande fiducia che l’autore affida al medium della poesia nel mondo di oggi. Eppure, qui, questa umiltà dell’artigiano-poeta, questa prossimità quasi scabrosa alla materialità del proprio fare, risuona in una maniera tutta sua, tanto da diventare uno degli aspetti che accresce il peso semantico della raccolta, piuttosto che ridursi a mero dato di fatto. Ma inoltriamoci nella lettura.
L’orologio, il tempo
La scrittura di Turra, fin da subito, prende le distanze da alcune delle ricerche più attuali che la poesia sta percorrendo. Siderali distanze lo separano sia da coloro che stanno provando a scrivere in prosa, nuovi anfibi, sia da coloro che adoperano un verso tanto impastato con la prosa da renderlo da essa irriconoscibile. Qui invece è il metro che fa da padrone, il padre Cronos nel suo battere di endecasillabi e nel suo rammemorare inesorabile. Il libro parte proprio da qui, da questo segnale; e sembra quasi ribadire al lettore che scrivere in versi significa fare questione del tempo e del metron, ovvero della pienezza di ciò che finisce e ricomincia: ben altro dal discorso illusorio dell’infinita processione, così proprio della fiction.
Fin dai primissimi versi il lettore è colto da un certo spaesamento; è infatti accompagnato ad entrare in un vero e proprio regime anacronico: il tempo scorre a ritroso, lo stile anche sembra arretrare. Una coppia perfetta di endecasillabi si arresta sull’enigma della misura: “Il pensile orologio da parete,/ il metallo brunito della scocca” aprono la raccolta (p. 9, vv. 1-2). L’immagine dell’orologio, questo meccanismo delicato, sofisticato e precisissimo, si staglia come simbolo della cultura, di tutto quanto l’uomo faber è stato capace di costruire nella sua lunga esistenza storica; eppure Turra non cede a nessuna fascinazione, non è in questione qui l’esaltata canzone delle macchine. L’orologio diventa immediatamente il medium di un viaggio contraddittorio, a ritroso, nel tempo personale: “Con tatto d’entomologo ne sfili/ come altrettante ali le lancette:/ un volo di lancette sul quadrante,/ tutta la tua vita in un botto” (ibidem, vv. 3-6). Il testo proemiale, a rimarcare l’anacronia, che quasi diventa ostentata inoriginalità, giunge a citare chiaramente uno dei padri letterari che sorregge lo stile di questo poeta. Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la poesia del Novecento non può non riconoscere subito la voce del Gran Ligure in questo giro di versi: “E s’accampano di getto/ come usciti dall’armadio,/ i tuoi morti tutti e due” (ibidem, vv. 7-9). Il tempo, il verso, lo scorrere che si blocca e poi procede a ritroso non solo conducono alla visione dei padri biologici nella loro lunga sequenza di morti e di vivi “a mezzo busto dentro una cornice/ in un giorno di sole” (ibidem, vv. 13-14), ma anche di tutti i padri letterari. La poesia per Turra è questo fare anacronico, spaesante; artificio che, cosciente di sé, si ritorce volontariamente contro se stesso: e procede.
Per essere sul fiore del proprio tempo, per guardare avanti, – il poeta sembra dirci – dobbiamo stravolgere l’orologio, manometterlo: “Io torno sempre indietro./ Dirigo la mia lente qui davanti/ in quel niente” (p. 21, vv. 1-3). In questi tre versi si vede bene quanto il contrapporsi degli avverbi di luogo “indietro” e “davanti” e dei deittici “qui” e “quel” comporti una sorta di vuota sospensione creatrice di ogni coordinata spazio-temporale. Rovesciato l’orologio, è in questa anacronia che si comincia a vedersi.
Il contatore, il bisogno
La poesia di Turra non vuole essere nuova; i maestri non solo sono dichiarati, ma attraversati. Si sente continuamente l’eco di Tasso, Parini, Gozzano, Saba, Montale, Sereni e Caproni, stravolti in una luce umana che tuttavia non smette mai di essere fortemente presente al proprio tempo. La sua poesia, così come dichiara la propria origine, scava nell’origine della propria vita. E il poeta vi trova l’osceno. C’è in Turra un’attenzione fortissima agli aspetti più animali, più organici del vivere; lo scorrere di fluidi (“aspergendovi la vita/ eiettata dai miei lombi”, p. 16, vv. 6-7) ci guida alla contemplazione che il nostro essere è per di più fatto da bisogni, bisogni scandalosamente presenti in ogni nostro fare. Il titolo stesso della raccolta vi allude: la fame, il desiderio più volgare, più basilare, diventa iperonimo di tutti gli altri possibili che attanagliano il corpo che vive. La sua poesia si spinge così oltre da dare addirittura un nome a questa nuovo umanoide, finalmente compreso nel suo essere schiacciato dal peso animale che lo fonda, lo veglia: ecco l’uomo prono. Il testo che ne porta il titolo è potentissimo; così come accade nei migliori testi del nostro autore, ha la forza dell’emblema inciso a bulino nella materia verbale: “A ridosso/ dello zoccolo di casa/ ascolto il sibilo, l’insidia/ salire dal fondo,/ il giro d’ape dei contatori nell’umidità del sottoscala.// Sono l’uomo prono/ deciso così/ a passare il muro.” (p. 44).
L’uomo prono è l’umano del III millennio? Fragile, chiuso, sempre prossimo alla deriva dei propri istinti di piacere, “a capo chino” e “genuflesso” (si veda La spesa, p. 70), bloccato da un tempo che non gli permette di muoversi se non per faticosissimi millimetri nella selva della vita, egli si aggira spettrale fra le aree più oscure di nuovi labirinti: condomini, angoli bui, frigoriferi, sottoscala e cavedi. Egli è costretto così, inchinandosi e umiliandosi a se stesso, a trovare la propria via verso la verità. Si vede bene, ancora una volta, come la ripresa della celebre metafora montaliniana non sia inerte: qui tutto è rovesciato, siamo davvero nel regime oscuro della parodia. Il muro, la celebre “muraglia”, si ergeva in un panorama esterno di picchi e mare, orto e sole a picco: siamo nell’orrore dell’aperto, dello spazio che si slarga nel sole abbacinante dell’apparizione metafisica. Nella poesia di Turra, invece, tutto accade in uno spazio claustrofobico, addirittura “a ridosso/ dello zoccolo di casa”; l’altrove ha i tratti ctonii, umidi del sottoscala e il suo segno è questo “sibilo”, meccanico e animale insieme, del “giro d’ape dei contatori”. Ciò che si teme non è la landa aperta, habitat di un qualche dio minore; qui si tratta della paura – e del suo rovescio: il desiderio – che ogni animale ha dell’altro animale, perché ne conosce per istinto crudeltà e bisogni. E proprio a ciò si allude attraverso la metafora del “contatore”, luogo dove si misura l’enigma dei consumi, dei bisogni carnali, distribuiti nel tempo che sempre scorre. Tutto ciò emerge chiaramente anche in un’altra poesia, dove il connubio fra paura e desiderio ha il sapore di una perlustrazione kafkiana: “Da una scala di servizio/ al più riposto penetrale,/ senza uscire mai/ dal giro della casa,/ anch’io, lucifugo/ come la talpa,/ con il muso aguzzo tento/ la superficie del bugnato, /i pornografici graffiti/ dei vecchi affittuari.// Nell’osceno labirinto condominiale/ – immaginandomi vicinissimo -/ solo danno in appartamenti altrui/ le porte laterali del cavedio” (p. 46).
L’uomo prono è sia colui che ascolta l’enigma dei contatori, sia colui che n’è sopraffatto, schiacciato. Il libro Con fatica dire fame può essere letto anche come una serie impietosa di ritratti di questa nuova umanità. La si osserva nelle “putrefatte radici” di un “limone cimato” che “sfoglia lento per l’inverno”; esso, raccolto in un angolo della casa, è tutt’altro dallo splendore con cui si levava nella bella stagione, tutt’altra appare la sua voce: “e come ne indovini ora/ la vita silente, ov’è più buio,/ putrefatte radici,/ bollicine e melma quando beve.// Voce che parli senza voce/ e ci ammonisci docilmente.” (p. 26). La si osserva in Martina che “voleva del sapone, poi s’accorse/ che le mancava tutto” (p. 42), così come nell’alunno, “adulto cinese in terza fila”, che “non vede, non sente/ niente” (p. 59); ma è soprattutto nell’autoritratto crudele di Sedici anni (p. 69) che emerge con più forza quella prossimità fra l’umano e l’insetto, ovvero l’osceno connubio di cui è composto l’uomo prono. “L’io che ero io a sedici anni/ io dico: era, è stato/ E vide, crebbe, disse./ E tutto è dentro me” (vv. 1-2): dentro ognuno di noi c’è la verità di ciò che siamo, coagulata come una ciste, come un meningioma del tempo trapassato che lì preme e vive alla stregua di un “Cigliato protozoo/ millepiedi incapsulato” (vv. 11-12) (si noti, di sfuggita, la significativa moltiplicazione del pronome di I persona). Allorquando l’uomo è abbastanza prono a se stesso (ed è questa la postura poetica che Turra non smette di indicarci, sulla scorta di Baudelaire), questo essere scabroso ci tocca orribilmente e mostra il proprio messaggio: “Ben leggibile mi tocca/ e durevole nell’ambra/ il cartiglio con su scritto/ hai tradito.” (vv. 13-16).
La fatica, il godimento
Giunge come un colpo sulla schiena, di dolore e di verità, la poesia che porta il titolo del libro. La lettura è, ancora una volta, spaesante e struggente insieme: solo dopo alcuni versi si scopre che la voce del poeta è mischiata alla voce di un quadrupede da soma, un cavallo o un asino, che ha tratti umani almeno quanto l’umano ha tratti animali: “Issata sopra molle è la mia testa/ e balla a ogni alzata di spalle/ e crolla giù. E se faccio no col capo,/ mi si rovescia l’occhio nell’occhiaia./ Non ho equilibrio come vedi/ né sostegno alcuno” (p. 82, vv. 1-6). Torna l’animale, torna l’uomo e torna qualcosa di meccanico: osceno è questo confondere i confini, deterritorializzare l’umano nella macchina e nell’animale (ma si veda anche la poesia Depero, p. 84). Tutti e tre sono confusi nella percezione estrema dell’istintualità della violenza, del bisogno, della fatica: “E quando con fatica dico fame,/ mi accennano con gridi dalla strada/ non mi lasciano frinire.” (vv. 11-13). L’uomo prono giunge qui a vedere chiaramente la vita senza privilegio alcuno: millenni di cultura, milioni di anni contati sull’orologio della storia, approdano alla nebulosa visione che l’essere vivente, dovunque sia e fintanto che non sprofondi nel nulla donde sorge, è un “è” singolare e inspiegabile, violabile e violento poiché desidera. I 15 anni di ricerca poetica giungono alla dichiarata scoperta che dell’essere non si può fare logica, ma solo constatazione locale, sbalordita, inerme: “Un è/ distinto dal mio/ è, nel bosco,/ in silenzio.” (p. 85, vv. 1-4). Il ritmo si spezza, ogni verso indugia e cautamente misura il proprio passo, come avvicinandosi silenziosamente a colui che è il vivente senza nome: “Zampe./ Un occhio che rotea./ Una pezzatura/ lucida che fuma.” (vv- 5-8) … “nodello anca spalla testa./ L’occipite dei nervi./ Eppure nulla.” (vv. 17-19).
C’è nella poesia di Giovanni Turra una dicotomia fortissima, un sistema di duplicità che terrorizza ed esalta il lettore attento. Da un lato c’è il tempo passato e il tempo presente, dall’altro lo spazio minimo del proprio corpo e della propria casa che si confronta con il continuo sospetto della vastità aperte dagli altri spazi e dagli altri corpi (a questo riguardo esemplare la poesia a p. 75); e poi il maschile e il femminile (anche spaventosamente confusi: come in Superfici, p. 14, in Tre madri, p. 43, oppure in Toeletta #1, p. 66), ma anche l’umano e l’animale, la cultura e la forza bieca della natura. Ma, più in profondità, questa polarità si ripresenta sull’asse stilistico e qui davvero si snuda il cuore di questo poeta. La poesia di Turra è in bilico, continuamente in equilibrio tra forze. È solcata da un principio d’ordine fortissimo: esso sorregge la sintassi, potente, precisa, estesa spesso su più versi, architettonica e volumetrica (si vedano, come esempi, l’ultima stanza di Lo sgombero, p. 30; oppure la potente poesia di una frase sola, a p. 35). Sul piano contenutistico, esso guida la percezione della vita come dover essere, fatica da sopportare, peso inarginabile. Tutto ciò però è contraddetto sul piano lessicale e metrico, dove invece vige il regime più opposto: qui è il godimento a fare da padrone. Raramente si può incontrare un poeta contemporaneo la cui dizione è così sensuale, così labiale: i versi di Turra impongono un movimento orale che resuscita una specie di infanzia nel lettore, una perdizione negli stadi più regressivi. La ragione di questa forza sta tutta nel mistero del metro: è esso che trattiene sul filo del crollo le due forze opposte che sempre sono in pericolo di essere frantumate da quella “forza anonima ed ubiqua/ che ci atterra” (p. 35) . Da un lato il metro trattiene e dà ordine, dall’altro spinge affinché ogni sillaba sia articolata e perciò avvertita, goduta. In nome di questo ordine di piacere, compaiono lemmi desueti e rari, come, fra i molti, “butti”, “vera” (per la fede al dito), “pesticciano”, “addiaccio”, “cippi”, “rezzo”; essi non compaiono per una sorta di snobismo poetico o stanco manierismo, ma proprio in quanto, eslegi dall’impianto medio standard della lingua d’uso, impongono una dizione particolarmente numerosa, specificatamente orale: Turra ci invita a goderne con sapiente perversione, additandoci una delle più profonde gioie che la poesia possa concedere. Si prenda a mo’ di esempio il caso eclatante dell’incipit del testo Toeletta #2: “L’implume che dal nido alza l’ala/ e non s’attenta, e subito la cala/ son io” (p. 74, vv. 1-3). Si noti come la dialefe nel primo endecasillabo imponga un rallentato godere; si provi a pronunciare il gioco di monosillabi e bisallabi quasi in eco e l’alternarsi di nasali, labiali e di laterali; e la rima poi che arriva, dopo l’accelerazione della proparossitona “subito”, al culmine di un piacere che si arresta, infine, sull’accento ribattuto di “son io”. Qui il poeta sta – guarda caso – descrivendo un’immagine di sé da bambino e l’enfasi sul piacere articolatorio si fonde a quello semantico a darci un’immagine stereofonica.
Questa tensione al godimento sillabico percorre come un tremito tutto il libro, controbilanciando il tema della fatica e del dolore che lo impregnano, invece, a livello semantico. Il libro così obbliga il lettore ad un atletismo tutto particolare: sostare e immedesimarsi nel movimento sofferto e claustrofobico dell’uomo contemporaneo e, al contempo, imparare a goderne al massimo la tensione e lo spasmo muscolare. Nella poesia di Turra, la jouissance, il desiderio e la forza selvaggia di vivere trasudano dai pori costretti sulla superficie rigida delle nostre giornate. Il cammino è chiaro; l’orologio iniziale, con il suo portato di cultura, si specchia e si contraddice nella vita nuda e anonima dell’essere che semplicemente “è” dell’ultima poesia. Fra questi due estremi, il verso di Turra scorre; e ci fa sentire, con tutta l’intensità fisica possibile, la forza dell’uomo che continuamente mette alla prova l’enigma della vita: “sfondare con il pugno il muro/ di gesso/ del tempo” (p. 47).
Una selezione di poesie da Con fatica dire fame di Giovanni Turra qui
Immagine: Miles Aldridge, Red Marks, 2003. Cigarette stubbed in egg yolk.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).