Pubblichiamo una scelta di dieci poesie di Gabriele Zani, a cura di Dario Bertini.
Da “I rimanenti” (peQuod, Ancona 2001)
A FRANCA
I
…
e soprattutto le attese. Quelle attese.
A ore della notte
sempre più spoglie e silenziose.
Quando nel buio dietro la ringhiera
all’altro lato del viale (è un viale
di platani un tunnel di foglie)
dove lo sguardo sempre più si fissa
ti sembra di vedere la sua ombra
prendere forma, pulsare…
Ma non c’è attesa che valga un amore
– e anche se non lo fosse
non c’è tormento che valga una distanza.
II
L’ora non dirmi ma
questa azzurrissima alba; spettrale.
Dimmi il colore
che si fa ossessione, sordo
rimorso un poco prima dell’alba.
Dimmi la tesa la raggelante
sfinita luce della notte. E, ancora
che solo noi camminiamo, tu e io
all’altezza del Grand Hotel
con la fontana muta delle donne
dai seni che non mandano zampilli.
Dimmi che è tardi, troppo tardi
perché ci sfiori un addio.
IN INCOGNITO
Non sussurrarlo neanche agli amici.
Costringerlo dentro un bacio segreto
tra la gente che esce dai cinema
entra nei ristoranti, cammina.
Nasconderlo in uno sguardo di lontano.
Nasconderlo in una stretta di mano.
Poterlo dire solo tra me e me e
quasi neppure a me stesso il tuo nome.
È stata la mia pena di questi anni.
Adesso è la mia forza. Posso dirlo.
Con un sorriso lo dico a chi crede d’amare.
Da “Finestre di via Paradiso” (peQuod, Ancona 2008)
RUBRICA
Alla fine faceva solo rabbia ancora lì
tra tutti gli altri ancora quel suo numero.
Tanto valeva tirarci una riga sopra.
Tanto non te lo scordi neanche se vuoi
che hai avuto un amico
che un amico non si cancella mai
che non c’è nero che basti
non c’è inchiostro.
L’OFFICINA DEI GIORNI
E mentre ancora guardo il giorno lentissimamente svanire
quante volte in un giorno nel tran tran delle ore
quante volte in un giorno che come torna sembra sempre passato
quante volte – sospiro– a poco a poco
anche il tuo volto s’oscura
ed è sempre una sera
mentre fuori c’era il sole o pioveva
chiederti in una vita quanti giorni
arrossendo ancora alla vista del direttore
che ti ha squadrato bene
su per le scale, fermo, ai vetri
con un foglietto in mano mentre
non producevi non facevi niente.
ALTRO BAR
Fosse per gli occhi limpidi
e dagli abiti neri attillati
soprattutto quel bianco che trapela
di gioventù
ci sarebbe di che sentirsi satiri.
Ma più che ninfe sembrano megere
quelle del tavolo accanto
sbircianti il tuo origliare
di tra le alte foglie
i verdi gambi di questo bar cittadino.
MILONGHE
Mai che ne vada dritta una. Ballare si balla sì
ma una volta c’è troppa gente un’altra troppo poca
una volta la pista è un fazzoletto o il pavimento
(sui pavimenti potrei scrivere un libro) o le suole
o la dama che ha la gonna stretta. E poi
mai una volta che mettano Piazzolla (difficile
dicono) oppure fa troppo caldo o troppo freddo
o è un caldo-freddo che non si capisce
e c’è un odore d’arrosto o di frittura
e c’è un’acustica che è meglio non parlare.
E soprattutto lei, lei quando
se lo ricorda o no che t’ha promesso un tango?
Da “Case finali” (Interlinea, 2016)
Lungo la strada che costeggiava il fosso
di tanto in tanto si fermava a leggere
nomi d’alberi o piante
incisi su pannelli di legno
in latino, italiano e dialetto locale
– Arundo donax – canna comune – cana –
– Sambucus nigra – sambuco – sambugh –
e fra una sosta e l’altra
meditava sul cosiddetto progresso
in nome del quale neppure una parola
a ricordare i tanti che non c’erano più
e targhe dove invece si sprecavano
per indicare i superstiti
esemplari botanici quasi fossero eroi,
risparmiati solo dal caso
d’essere nati di là, sull’opposta riva del fosso.
Dalla raccolta inedita “Magazzino ulteriore”
*
Il custode del campetto da calcio
che sempre più lento e piegato
ciao rispondeva ai tuoi ciao
mentre faceva la spola da casa sua
al circolo ricreativo degli anziani
e continuava a spingere sui pedali
della sua sgangherata bicicletta da donna
tra ondeggiamenti e surplace
più volte al giorno ogni giorno dell’anno
lui che non era un vecchio pistard
ma solo e sempre uno come te
che salutava fintanto che si può.
*
A sessant’anni suonati
siccome l’italiano lo sapeva o non lo sapeva,
si era messo a studiare l’inglese.
Some fish fly. Alcuni pesci volano.
Vedi qualche pesce? Do you see any fish?
Cosa vedi? What do you see?
Un pesce salta fuori dall’acqua.
A fish jumps out of the water.
Di certo l’inglese suonava meglio, il difficile
era la pronuncia, le S da strisciare
le H da aspirare, e tutte quelle K
che non servivano a niente!
Ma ormai era troppo tardi
e l’italiano bene o male lo sapeva.
*
Inverno a Tenerife
in un mare di efelidi
era dietro gli occhiali da sole
l’azzurro se non verde
vichingo dei suoi occhi.
Gabriele Zani è nato nel 1959 a Cesena. Attualmente risiede nella città di Los Cristianos, a Tenerife. Ha esordito in versi nel 1984 con la plaquette "Monolocale" (presentazione di Renato Turci, Maggioli, Rimini). Le varie pubblicazioni successive, in riviste e opuscoli fuori commercio, che hanno scandito per anni un’attività costante e appartata, sono confluite in "I rimanenti" (con una nota di Giovanni Raboni, peQuod, Ancona 2001), cui ha fatto seguito, per le stesse edizioni, "Finestre di via Paradiso" (presentazione di Giampiero Neri, 2008). Nel 2006 e nel 2011 compaiono gli scritti critici e le interviste di "Sereni e dintorni" (Joker, Novi Ligure), e di "Sereni e altri dintorni" (Bohumil, Bologna). Del 2012 è "Riunione di famiglia" (1982-2012, Interlinea, Novara), con una nota di Jean Robaey e un’antologia critica, che ripropone, insieme a una sezione di testi inediti, le precedenti opere in versi e prosa poetica. Del 2016, sempre per Interlinea, è "Case finali" (nota introduttiva di Giampiero Neri).