Terminata la lettura di Bianco l’istante di Angelo Lumelli (edizioni del verri, Milano, 2015), è facile trovarsi con la sensazione di chi non sappia che pesci pigliare. Come se il corpo di questa prosa nitida, a tratti affabile, sgusciasse via come un’anguilla. Sarà che nella mia infanzia non ho mai veramente imparato a ‘manare’, a pescare con le mani, immergendole nell’acqua fredda dei torrenti, vicino ai sassi muschiosi, afferrando con una stretta decisa barbi e cavedani. Ci vorrebbe un gesto altrettanto fulmineo, e perentorio, per poter fissare l’istante di Lumelli, soppesarne il corpo vivo, far brillare la sua superficie squamosa e multicolore.
Lumelli conosce invece l’arte della pesca. Ed è anche, sospetto, un dissimulatore. E con il suo tono fintamente svagato, nel suo “viaggio contromano” ci depista e tende trappole. Questo già nella forma macrostestuale del libro, che si presenta all’apparenza come un “trattatello” sistematico, alla maniera spinoziana e poi wittgensteiniana, scandito da proposizioni e sottoproposizioni numerate. Ma la cornice sistematica dissimula appena una verità antisistematica, e la recinzione si rivela essere infine uno spago se non un filo di refe (p. 88). E la stessa forma logica delle singole proposizioni, intessute da un filo riflessivo e discorsivo, si apre a una dimensione precategoriale e preriflessiva, tende a un sentire “soprappensiero” (p. 10) in cui le cose si manifestino in una loro intimità nuda. Qui, come altrove, Lumelli pratica qualcosa di simile al contraccolpo dialettico, al rovesciamento nell’opposto, salvo poi svuotarne dall’interno la struttura antilogica, per cercare di addivenire a una forma di pensiero che, almeno nelle intenzioni, dialettico non vorrebbe essere, o perlomeno si risolve in una dialettica svagata e multipolare.
Nel prendere le misure di Lumelli, è bene forse non mettersi all’inseguimento dell’immagine del tutto, ma soffermarsi in modo magari sonnacchioso su qualche dettaglio, praticando una lettura sinedocchica, muovendo da una parte molto circoscritta e dettagliata. Un punto conveniente d’attacco per tentare di prendere all’amo l’istante di Lumelli è costituito qui dal motivo della discontinuità che emerge proprio laddove l’autore celebra la figura retorica della sineddoche – pars pro toto:
“Sia gloria alla sineddoche, all’occhio che prende di mira un piccolo particolare, strano movimento al lato delle labbra, inizio di un sorriso inconfondibile.
Questa gloria del particolare esplosivo, un colpo al cuore, contrasta con l’inerzia del continuo, che si rimargina su di noi” (p. 62).
Che cos’è questo colpo al cuore, che contrasta “l’inerzia del continuo”? Prendiamo di mira quest’ultima espressione, che userò un po’ come chiave di lettura, sperando che possa far scattare qualcosa nel meccanismo verbale di Bianco è l’istante. L’immagine della soluzione di continuità, della rottura del continuum inerte, compare infatti più volte e su diversi livelli. Nel brano appena letto è associata alla sineddoche, la figura retorica che, come nota anche Paolo Giovannetti (il verri, n. 62, 2016, p. 98), è prevalente in Bianco è l’istante.
La soluzione di continuità non è però solo una tecnica compositiva, ma riguarda lo stesso meccanismo di generazione del significato. Altrove Lumelli scrive:
“I vuoti rappresentano la portata di un significato, come se il significato si generasse attraverso il discontinuo e, nel discontinuo, prendesse forza, caricandosi di energia in prossimità della cosa” (p. 51).
E questa semantica del discontinuo non è meramente interlinguistica, ma rimanda già qui direttamente alla portata conoscitiva del pensiero, alla sua pretesa di avvicinarsi alla cosa, come possiamo avvertire in quest’altro brano:
“Il pensiero è arrivato tardi, quando il più era fatto.
Il pensiero è arrivato a scombinare, altri dicono a risolvere il tutto pieno del percepire: è piombato su quella continuità senza scampo e ha generato il primo vero vuoto” (p. 72).
L’urto del pensiero, che fa saltare la continuità senza scampo, generando un vuoto nell’inerte serie omogenea, apre per così dire un varco, in cui le cose possono individuarsi e così essere avvicinate (“il vuoto preserva le cose nella loro forma individuale”, p. 55).
E altrove, in modo ancor più lampante, la soluzione di continuità diventa l’immagine stessa dell’esperienza, nella sua portata conoscitiva e esistenziale:
“Per questo, lungo il viaggio, a volte la coscienza smette di ronfare il suo continuo, scatta come un chiavistello e appare, per l’unica volta, una cosa” (p. 41).
Siamo allora su questa soglia, dove la coscienza “smette di ronfare il suo continuo”, dove appunto la soluzione di continuità fa scattare un chiavistello che apre un varco verso l’esperienza della cosa.
Molto si potrebbe dire sulle evidenti tracce fenomenologiche di queste figure – zur Sache Selbst – e pure sulla curvatura ontologica che il motivo del discontinuo assume – echi di Lucrezio e del vuoto Buddista sono stati ritracciati da Giulia Niccolai in questo scritto di Lumelli (il verri, n. 62, 2016, pp. 92-3. Ma quel che mi preme in questa sede è provare ad estrarre da questo carotaggio qualcosa che ci porti nella prossimità di quell’istante che dà il titolo al libro.
Per questo occorre intraprendere un detour, che ci allontana dal trattatello di Lumelli e si trasporta sino al libro quarto della Fisica di Aristotele. Qui Aristotele tratta del tempo, e muove anzitutto dai paradossi che dobbiamo affrontare quando vogliamo afferrarlo concettualmente. Questi paradossi nascono quando concepiamo il tempo come una somma di parti. Infatti, poiché le parti del tempo sono costituite da realtà che non sono – il passato è un non più, il futuro un non ancora, e il presente si vanifica non appena cerchiamo di fissarlo – se il tempo fosse una somma di parti, non riusciremmo a dare conto della sua realtà, che svanirebbe. I paradossi della concezione del tempo hanno crucialmente a che fare con il modo in cui concepiamo l’ora, vale a dire l’istante. Secondo Aristotele, infatti, i paradossi del tempo nascono fondamentalmente quanto lo concepiamo come una serie di istanti discontinui, di per sé sussistenti. Se così facendo, finiamo per concepire l’istante come una parte del tempo, alla fine non saremo in grado di dar conto del fatto che il tempo è una realtà nella successione. La proposta di Aristotele è invece di considerare il tempo come un continuum, e quindi l’istante non come parte ma come un limite del continuum, una sorta di sosta virtuale che non interrompe l’omogeneità del flusso.
E’ importante sottolineare come in questa concezione del tempo come tempo omogeneo, serie continua, la nozione di “istante” viene definita attraverso la negazione. L’istante è allo kai allo per Aristotele: l’istante è insieme identico e diverso, in quanto trapassa continuamente nel non esser più e nel non esser ancora. Questa relazione negativa definisce l’istante, che appunto non ha una realtà di per sé sussistente, ma esiste soltanto entro questa relazione. Non è un caso se proprio alla concezione Aristotelica della temporalità un pensatore come Hegel si richiamerà per dare conto della concezione dialettica dell’identità nell’esser altro e del ruolo che in essa gioca la negazione.
Qui possiamo ritornare al paesaggio di Bianco è l’istante e leggere il seguente passo:
“Oltrepassare la negazione sembra l’unico modo per cavarsela va a dire non praticarla in alcun modo, tenersi alla larga dal verbo essere soprattutto nella sua forma negativa, entrare in quei territori sconosciuti e vuoti, dove l’io rimbomba, paurosamente, nel vero universo senza porte, direttamente nel cielo stellato d’inverno, un entusiasmo impensato, lasciando ogni conversazione alle spalle” (p. 87).
“Il sì e il no potrebbero essere pianeti lontanissimi, addirittura in galassie diverse, che mai si sono visti in faccia.
Affermazioni indipendenti dalla negazione danno origine a mondi fiabeschi, in altri casi altamente drammatici, senza scuse e rimandi” (p. 16).
Tenersi alla larga dalla negazione, sperimentare una forma del dire non risolvibile nella forma negativa, sembra essere un compito che Lumelli collega alla propria concezione della forma poetica e della sua verità. E questo oltrepassamento, mai veramente esaudibile, è direttamente connesso con il pensiero della discontinuità, vale a dire con il paradosso dell’istante. Qui incontriamo quello che chiamerò il chiasmo Hölderlin/Hegel.
Molti echi filosofici potrebbero essere rintracciati indirettamente in Bianco è l’istante, dal vuoto di Lucrezio, Buddha, Schopenhauer, al motivo fenomenologico del ritorno alle cose stesse; sino allo Schritt Züruck di Heidegger a proposito dell’immagine retrograda della verità (e della poesia) che Lumelli disegna (“non fa progressi, la sua natura è di arretrare”, p. 67; “la poesia è sempre sulla strada del ritorno”, p. 98). Tuttavia, a ben guardare, solo due le figure compaiono direttamente, Hölderlin e Hegel, i due amici che si erano conosciuti nello Stift di Tubinga, il poeta filosofo e il filosofo dialettico il cui destino di pensiero è strettamente intrecciato su tracce che convergono e divergono allo stesso tempo.
Brod un Wein di Hölderlin fornisce la citazione incipitaria, che dà il titolo dal libro:
Lunga e grave è la parola di questo avvento ma
Bianco è l’istante. Servi dei celesti
Sono però esperti della terra, il loro passo è verso l’abisso
Giovane più umano, ma l’elemento nella profondità è antico.
Lang und schwer ist das Wort von dieser Ankunft aber
Weiß ist der Augenblik. Diener der Himmlischen sind
Aber, kundig der Erd, ihr Schritt ist gegen den Abgrund
Jugendlich menschlicher, doch das in den Tiefen ist alt.
Di Hegel invece viene citato un passo della Filosofia della Natura nell’Enciclopedia, dove si dice che la terra “è presupposta dalla vita come suo terreno” (§ 338). Occorre tralasciare qui un motivo, che non sarà sfuggito a Lumelli, di dialogo a distanza tra due testi così differenti, ma entrambi incentrati sul motivo della terra/Erde come presupposto infondato della vita, abisso geologico su cui si innalza il pensiero e in cui sprofonda. Tanto più che il passo di Hegel, nelle righe immediatamente precedenti, richiama anche il motivo hölderliniano del “giudizio /Urtheil” come Urtheilung, su cui i due amici avevano discusso e scritto nel periodo di Francoforte.
Il chiasmo Hölderlin/Hegel entro cui si muove Bianco l’istante riguarda proprio la questione dell’oltrepassamento della negazione di cui dicevamo poco sopra. Se c’è un tema sui cui i sodali di un tempo si sono confrontati, e sfidati a distanza, questo è proprio quello della armonia discorde, di come cioè si possa pensare e vivere quella concordia discors di cui parlava Eraclito, e che nell’Iperione si ritrova nel motivo dell’hèn diaphérōn heautô, di una concordanza che si produce attraverso la dissonanza. Nella stilizzazione anche un po’ schematica che ne è stata fatta, Hegel metterebbe in gioco il linguaggio della contraddizione logica, pensando la relazione tra i discordi come identità di opposti istituita attraverso la negazione. Mentre Hölderlin sarebbe alla ricerca di un linguaggio che possa accogliere l’armonia discorde come concordanza di elementi differenti, per usare le parole di Eichendorff citate da Adorno nella Dialettica negativa, come una bella estraneità, ove la relazione non è più fondata sul rapporto negativo tra opposti ma esperita come una convivenza del diverso. Per quanto schematica, e a mio avviso anche ingiustificata sia la lettura del chiasmo Hölderlin/Hegel che soprattutto la storiografia heideggeriana ci ha consegnato, penso che tale indicazione sia utile per mettere un po’ alle strette Lumelli. Perché qui, l’incrocio tra il motivo della soluzione di continuità e quello dell’oltrepassamento della negazione, fa segno verso un pensiero che fa leva sul paradosso piuttosto che sulla contraddizione, e che può esaudire il compito inesauribile di affrancarsi dalla negazione solo attraverso uno svagamento multipolare.
Scriveva Hölderlin: “Lunga e grave è la parola di questo avvento ma / Bianco è l’istante”. Contro il basso continuo della serie omogenea del discorso – la parola lunga e grave – come sistema di differenze (il modello di Jakobson) basato sulla negazione nel modello dialettico, si staglia qui l’istante bianco.
Ma l’istante è, come avevamo visto accostandoci ad Aristotele, il nodo stesso della paradossalità del tempo. E al cuore del paradosso sta proprio l’atto di parola che sospende l’istante, lo arresta, pretende di afferrarlo di per sé, sciogliendolo dalla serie continua del tempo. L’espressione poetica che si affaccia su questo istante, e lo dice nel suo biancore, sta proprio al cuore di tale paradosso, avanzando la pretesa di operare un taglio nell’essere in successione del tempo e dell’esperienza, e quindi di pensare ed esperire l’istante al di là della negazione.
Occorre fare un ultimo detour per approssimarsi ancor più al nodo vivo del libro di Lumelli. Nelle sue Tesi di Filosofia della Storia, Walter Benjamin formulava il modello di una “dialettica in sospensione”. Si trattava per Benjamin di ripensare a fondo la storia, oltrepassando il modello storicistico del tempo come serie omogenea e continua – in definitiva il modello che troviamo formulato nella Fisica di Aristotele e che per Benjamin culmina nella concezione dialettica della storia universale di Hegel. Per Benjamin occorre invece “far saltare il continuum della storia”. Ma per far questo, occorre poter pensare l’istante come arresto dell’accadere, “cristallizzazione in una monade”. Al di là delle formule, quando Benjamin parla del “presente che non è passaggio, ma in bilico nel presente e immobile” (tesi 16), pone proprio il problema di un pensiero della discontinuità, che possa cogliere l’istante come tempo ora, non semplicemente come passaggio tra passato e futuro, limite di una serie, ma come momento carico di attualità. Anche qui, si tratta di pensare l’istante al di là della negazione, come qualcosa di sciolto dalla serie negativa del continuum temporale: non come ciò che semplicemente trapassa nel non più e nel non ancora, ma come qualcosa di per sé sussistente – la monade – che può essere esperito in quanto tale.
Ora possiamo vedere meglio ciò che lega il motivo della discontinuità, o della soluzione di continuità, che in modo così sintomatico attraversa il testo di Lumelli, con la figura dell’istante bianco. Il “colpo al cuore” del “particolare esplosivo” che contrasta con “l’inerzia del continuo”, sarebbe appunto quello in grado di liberare l’istante, di arrestarlo nel suo biancore, e così di far scattare il chiavistello che apre l’accesso alla cosa.
Ma se l’immagine del chiavistello che scatta e del particolare esplosivo sembrano rimandare alla metaforica del pensiero per costellazioni delle tesi di Benjamin, per altro verso l’istante bianco di Lumelli pare alieno dal materialismo storico e dall’afflato messianico di Benjamin: dall’idea che l’attualità di cui è carico l’istante sia quella in cui riemerge e viene riscattata la sofferenza del passato – il “balzo di tigre nel passato” che si realizza nella rivoluzione francese come Roma ritornata – o anche la piccola porta da cui in ogni secondo può entrare il Messia. Sebbene i quadri del trattatello di Lumelli siano anche vividamente colorati da fatti ed eventi storici, tuttavia non è la questione della storia e del suo riscatto a costituirne il segreto meccanismo. Non a caso in Bianco è l’istante vi è soprattutto un pensiero spaziale del luogo e del posto piuttosto che un pensiero temporale della storia. Certo non dello spazio omogeneo e vuoto, ma del luogo qualitativo, quel luogo che “sembra venirci incontro” (p. 9) come un invito, e richiede il nostro sguardo per essere portato a compimento.
L’istante bianco raffigura qui l’incontro tra il tempo e l’eterno, inteso non come successione infinita del tempo ma come sua sospensione subitanea in un ordine spaziale, quel “gong nell’azzurro intoccabile” che “risuona perennemente nella grande volta” (p. 92) e celebra la “gloria del particolare” (p. 62). E d’altra parte, la discontinuità non è solo una figura del significare, del pensiero, dell’esperienza e della conoscenza, ma, con ironia garbata, è indicata da Lumelli come struttura ontologica, quale manifestazione dell’essere.
“Io penso che il vuoto, occultato dietro il paravento della negazione, sia in realtà culo e camicia con l’essere stesso” (p. 55).
Certo, se interpretiamo l’oltrepassamento della negazione come un compito da svolgere nel tempo, in una serie finita di atti, quel paravento non potrà mai essere tolto, perché finiremo sempre per ritrovarlo al di là dell’ultimo gesto. Ma per chi voglia seguire il pensiero di Lumelli, che in fondo è un pensiero della necessità, è nel tempo-ora, nell’istante che noi siamo già da sempre al di là della negazione. “La luce ci stana dal nostro polo che assicura forme misurabili e ci chiama verso le forme della gioia, improvvise come il primo sguardo” (p. 50). Bianco è l’istante.
Immagine: Roy Colmer, Untitled, 1969.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).