Di Giulia Rusconi, già autrice di I padri (Ladolfi 2012) e di Suite per una notte (Lietocolle 2014), esce ora da Amos, collana A27poesia, Linoleum, dedicato a un’ignota “Terri la terribile” che altro non è che una ricoverata nell’ospedale milanese dove Giulia compie la sua formazione d’infermiera e la sua discesa agli inferi, nelle sofferenze della gente più comune. Ma dov’è il confine fra il sano e il malato, “dov’è l’atroce luogo sconosciuto/ che abbiamo da sempre creduto/ vita?”, qui dove sono “fiumi e fiumi di xanax/ a darci l’idea di un riposo” e “danza/ solo nel monitor la luce del conforto”?
Così parla la giovane letterata che pare essersi rifugiata qui per sottrarsi a quello che lei è in realtà, “un segno fugace, /un sonno, una lacrima” e trovare un po’ di pace. Pace da un’esistenza normale, quella di noi tutti, fra amicizie, amori, viaggi, TV, letture e presentazioni di libri, che tuttavia non smentisce la “maledetta sorte degli umani” e le loro “azioni/ un po’ matte/ di cui i ride soli” e “l’occhio strabico/ e languido delle idee indecenti”.
Il ritmo è vario, versi corti, non versi, accenni d’endecasillabi, endecasillabi improvvisamente interi e rime sparse che sembrano avviare un canto subito soffocato, poiché la raccolta ha carattere narrativo, anzi teatrale, e qui mi richiamo a quel fulmineo “Atto unico” che l’autrice non ha mai pubblicato e che metteva allo scoperto ma non senza ironia il proprio male, l’unico di cui la giovane e bella poetessa soffre, ossia il proprio sconquasso psichico. Qui lei invocava fra dialoghi diretti e indicazioni di scena la presenza costante dello psichiatra curante auspicando che non fosse così inefficiente come erano stati i “padri”della prima raccolta.
Ma nel frattempo è cresciuta e cambiata: ha acquistato la capacità di prescindere da sé, di vedere gli altri, con pietà e tenerezza, e non cerca più protezione. E questo è il presupposto di un’importante svolta della sua scrittura, che potremmo chiamare dal soggettivo all’oggettivo, svolta fondamentale per chiunque scriva: mentre scivola su e giù sullo squallido linoleum degli anditi ospedalieri a soccorrere i casi urgenti con una pillola o con un’iniezione, si domanda: “o Vita, vita, come farò/ a tenerti per sempre vicino?”. E non allude certo alla vita come infermità né alla sua personale bensì a quella da cui trae materia la poesia, quella che in lei sa scendere alla povera frase della figlia di una malata “fai la brava/ mamma fammi fare bella figura” e salire al piccolo inno “benedetta la tua salute che ti porta lontano/ da me, vuoto di bisogni pieno ancora/ di voglie che voglio ricambiare”.
La poesia va verso la prosa, lo sappiamo e da tempo, e conosciamo le sue fragilità, ma com’è vitale quest’apparente contraddizione fra l’assenza di bisogni e le dichiarate “voglie” di ricambiare. E’ come un piccolo nuovo manifesto di poetica.
Immagine: Daniel Buren, Lavori Luminosi, 2014.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).