Ecco di nuovo in Francia un romanzo – almeno così recita la copertina – che può dirsi “poetico”, anzi (ed è cosa anche più rara) insieme storico e lirico. Un libro esile, elegante, sorprendente nel paesaggio letterario francese – non parigino, si badi: come fu, due anni or sono, quello di Edouard Louis sulla propria passata negata identità di Eddy Bellegueule (vedi sul sito di Nuovi Argomenti, in data del 15-04-2014)[1], seppure in modo diverso –; e un libro pure di esordiente. Ma nessun compiacimento egocentrico qui nell’appena meno giovane autore, un tale Joseph Andras (forse nom de plume anagrammato di Darsan?) di cui si conosce solo una foto di tre quarti posteriore, e un supposto anno di nascita, il 1984. Egli ha rifiutato per motivi etici, secondo il suo editore, il prestigioso premio Goncourt “premier roman”; vive per lo più in Normandia, e viaggia molto all’estero (retro di copertina); il suo libro è stato contemporaneamente edito in Algeria, paese che fa da sfondo e da protagonista alla storia narrata. Questo De nos frères blessés, frutto romanzato e poetico di un’accurata indagine storica (ne vengono citate del resto correttamente le fonti, archivistiche e bibliografiche, tra le altre un libro raro di Jean-Luc Einaudi, Pour l’exemple, l’affaire Fernand Iveton, Paris, L’Harmattan, 1986), è ambientato infatti nell’Algeria degli anni ’50, agli albori della lotta aperta per l’indipendenza del paese, e arricchito da un singolare effet de réel fatto di frasi riportate tali e quali, senza né translitterazione né traduzione[2], in lingua araba (ad es. il formulare “w’Allah el’eazîm”, per Dio onnipotente, p. 12[3], ma anche più in là vere e proprie battute di dialoghi in stile diretto – e ci si può chiedere l’effetto prodotto sul lettore del tutto ignaro, oltre appunto all’impressione di “realtà”). Oppure, come in molta poesia pluristilistica – dai calligrammi di Apollinaire agli inserti di ideogrammi cinesi in Ezra Pound, alle parole straniere non tradotte di Patrizia Vicinelli –, tali brani di scrittura diversa valgono in sé, stigma dell’altro lirico, il “tu” d’ogni parola poetica, l’étranger en soi, e come puro segnale di fraterno omaggio ai non pochi arabofoni presenti in terra di Francia e d’Europa: quei “fratelli feriti” del titolo, per l’appunto. S’intende, oggi (oggi nostro e dell’autore), poiché a parte subjecti l’espressione si riferisce ovviamente ai colonizzati degli anni ’50, nel cronotopo qui narrato dell’Algérie française. Ancora “francese” cioè.
Una caratteristica dell’opera è proprio l’intreccio estremamente serrato e sottile tra sequenze, opinioni e visuali dei vari personaggi, epoche diverse della breve vita del protagonista, francese nato in Algeria (un pied-noir insomma, seppure il termine, apparso intorno al 1955, e piuttosto spregiativo ora, non venga mai usato). Il primo capitolo, convulso racconto del mancato attentato – bomba messa in un luogo deserto della fabbrica dove lavora Iveton, proprio per evitare che ci fossero vittime umane – tra ricordi della preparazione dell’ordigno, dei compagni complici (Jacqueline in primo luogo), azione in fabbrica, arresto prima che sia successo alcunché, tortura, reazioni degli altri resistenti, perquisizione in casa e interrogatorio della moglie Hélène, di nuovo tortura, ecc., rappresenta in qualche modo l’architettura d’insieme del libro, in 19 pagine (uno dei più lunghi), compresi gli inserti in lingua araba (ce ne sono là già tre, tutti formulari). Raffinata corrispondenza, come in molta poesia, fra micro- e macro-testo. Frasi come versi (e diciamolo pure: sticomitia):
«Paris croule sous les linges lourds du ciel.
Le soleil crachote ses écailles blanches.»
(p. 58, e tra l’altro due endecasillabi)[4]…
«Au sol, ses cheveux comme un pigeon écrasé» (dodecasillabo, p. 64)[5].
«Brûle la capitale par coupes franches» (p. 72)
«Je ne suis pas le seul condamné à mort» (Lettera al figlio di Hélène), ecc.
Immagini che ricordano quelle di molti poeti mediterranei. Procedimenti che, al di là di ogni gretto banale intertesto, possono evocare una retorica lirica raffinata di ogni tempo. Così, quel lontano e vago « là-bas le ciel et la mer c’est comme un seul grand corps » (p. 88), forse ricordo di Valéry, ma per noi il pensiero corre a Vittorio Sereni, « la solita endiadi di cielo e mare » (in un contesto ugualmente luttuoso: Niccolò [1971], v. 26). Anzi, risalendo a comuni radici romanze, forse a monte in entrambi i casi l’ombra leggera del modello petrarchesco (seconda parte del Canzoniere, “In morte di madonna Laura”), con la tradizione trobadorica (quindi anche arabo-andalusa) dietro nascosta, chissà…
Formule abituali delle lettere di “non letterati”, nello scambio o carteggio con la moglie Hélène, comprese le solite riprese e ripetizioni propiziatorie che conosciamo bene nelle corrispondenze di emigranti: «Comme tu le vois, le moral est bon et je pense qu’il en est de même pour toute la famille» (p. 84); «Tu vois, mon moral est bon et il faut que tu fasses comme moi» (p. 94), pagine evidenziate dal corsivo (nel testo). Lunga onomatopea, segno di estrema tensione, del rumore che fa la bomba preparata che lui dovrà trasportare: sei righe di tic-tac, tic-tac, p.15, sei righe di ansia. E pure, a volte, qualche leggera goffaggine: quasi commovente, da autore principiante, come la comparazione dei pomelli sporgenti della giovane franco-polacca Hélène, la sua futura moglie, con due zolle di terra su larghe guance: «deux mottes de terre sur des joues larges» (p. 30). Ma il lessico usato è sempre preciso, senza fronzoli, e contribuisce non poco all’impressione di un’opera pensata come un “monumento” a riscatto – se così possiamo dire – delle molte ingiustizie aggiunte alla violenza della colonizzazione in sé. Perciò, la frequenza delle dichiarazioni di stima, affetto, convinzioni condivise con i compagni arabi di lavoro e di lotta (ed ecco si spiega meglio l’inserto “secco” di frasi in caratteri arabi), insomma la speranza di un paese di adozione suo a tutti gli effetti – l’emigrato Ungaretti diceva «un pays innocent» nel primo dopoguerra – doveva, da un punto di vista etico politico poetico, venire iscritto nel particolare “realismo”, serietà dell’informazione, nitidezza del narrare e del lirismo, semplicità del dettato di questo libro. Dove il contesto – ad es. la lunga digressione sul terremoto di Orléansville (il 9 settembre 1954), e l’impegno, anzi la partecipazione attiva del protagonista e di Hélène, p. 108-09 – risulta necessario quanto la proprietà linguistica e di stile, ancora una volta in un realismo del materiale medesimo. La citazione liminare, dal libro di due storici su François Mitterrand et la guerre d’Algérie, è di una crudeltà pari all’esecuzione finale, evocata in modo asciutto e sotto forma di ellissi o metalessi (gli avvocati si voltano e piangono per non vedere – e, rispetto al narratore-autore, non descrivere), e per finire lasciata in sospeso: il libro, prima di un breve poscritto storico, finisce infatti senza punteggiatura finale. Così:
«Il est cinq heures dix lorsque la tête de Fernand Iveton, numéro d’écrou 6101, trente ans,» (p. 135, explicit)…
Quell’11 febbraio 1957, la ragion di stato francese firmò un’ennesima ingiustizia, e questa volta contro l’unico europeo “giustiziato” da un tribunale ufficiale durante la guerra d’Algeria. Anche uno degli avvocati, comunista come Iveton, sarebbe stato poi arrestato e deportato per più di un anno; Jean-Paul Sartre, sui Temps Modernes, avrebbe pubblicato nel frattempo (accanto a un articolo di Italo Calvino sull’entrata in guerra dell’Italia, guarda il caso) il famoso “Nous sommes tous des assassins” (marzo 1958). Lirismo e denuncia politica e informazione storica – qui nel poscritto, p. 139-40 –, si vede, già allora come oggi potevano procedere di pari passo. Contro lo schivare prudente del presidente René Coty, contro il silenzio di François Mitterrand ministro guardasigilli e futuro leader socialista, contro l’ignavia della stampa e la viltà di troppi contemporanei, forse una certa letteratura può ancora, ma quanto tempo dopo (ahinoi)! proporre un risarcimento?
[1] Art. Farla finita con la propria storia: scrivendo? www.nuoviargomenti.net/poesie/farla-finita-con-la-propria-storia-scrivendo/ .
[2] Un’unica eccezione, a p. 132 “Tahia el Jazaïr”, viva l’Algeria! [l’iscrizione araba, invece, qui manca].
[3] Oppure Dio ti benedica “bârk Allah fîk” بارك الله فيك (p. 81, translitterazione e traduzione mie).
[4] Ossia: “Parigi crolla sotto i panni pesanti del cielo. / Il sole sputacchia le sue squame bianche”.
[5] “A terra, i suoi capelli come un piccione schiacciato” (primo giorno in carcere).
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).