«Le Madri le Madri…» e “Madre d’inverno” di Vivian Lamarque

da | Apr 29, 2016

Il regno delle Madri è inconoscibile, fuori dal tempo e dallo spazio, puro principio. Le Madri, usato al plurale, è il nome dell’ignoto: “Die Mütter sind es” (“le Madri sono ciò”). Le dee madri più antiche, le grandi madri mediterranee erano grotte, caverne, colombe, rappresentate da statuine steatopigiche o da quelle a forma di violino delle isole Cicladi. Le grandi madri della Sardegna anche in alabastro hanno il naso pronunciato, i seni, e le braccia che allontanandosi dal busto formano una croce, ma potrebbero essere ali. Un naso si piega a formare il becco della madre uccello, vacche sacre danno eternamente latte, l’utero sempre generante è della Madre Terra, Gaia. Meandri, zig zag, triangoli, chevron, coppelle, fonti sacre, sono simboli della madre. Madri di vita la Potnia, la Signora degli animali e delle piante, la Vergine Madre, madre del figlio e figlia del figlio. Madri di morte Giocasta, madre e sposa del figlio, e Medea. Madri del mondo. Ma la madre dove è? “wo ist sie?”

Mettiamo che sia in un letto d’ospedale dove sta vivendo i suoi ultimi giorni di vita e che un’altra madre, la figlia, si trovi ad accudirla, a nutrirla con cucchiaini. E se la situazione fosse più complicata? Se la madre fosse ultranovantenne e la figlia già nonna, non avesse più intorno né api né amanti, si fosse lasciata alle spalle il periodo della fecondità delle dee demetriche, delle dee del Labirinto che tutto generano da sottoterra,  fosse entrata anch’essa nella vecchiaia? Ma mettiamo che questo non sia ancora tutto, mettiamo che la madre non sia la madre biologica, non abbia mai portato nel suo grembo un figlio, sia invece la madre adottiva, vedova per giunta.

Le poesie di Madre d’inverno di Vivian Lamarque ci fanno circumnavigare intorno alle madri, all’oceano madre, ma ci fanno continuamente andare anche oltre,  a guardare verso terra, a domandarci della donna che ha portato in grembo il figlio e lo ha abbandonato o è stata costretta ad abbandonarlo, e della donna che non ha mai potuto partorire e che è più madre di tutte, come diceva in una   poesia della precedente raccolta o  come in questo libro: “La A112 era il tuo mai da feto abitato/ grembo, guidavi con dentro l’auto / me già grande accanto a te seduta dondolata”.  Quella materna è una condizione doppia, anzi una condizione che si moltiplica a specchio: c’è una doppia madre, una doppia morte e una doppia vita che si sbriciola nella mente, c’è il senso d’orfanità per essere stata abbandonata e consegnata a un’altra storia, intrecciata a un altro destino, nodi da sbrogliare. Eppure la bocca che allora è stata chiusa e ha avuto difficoltà a usare la parola “mamma”, ha bisogno ora con disperazione e speranza di pronunciarne il nome, la figlia vuole sentirsi completamente figlia mentre fa da madre a sua madre e viceversa.

Brevi dialoghi, spezzoni di parlato, sentimenti trattenuti rivelano la necessità di inseguire i giorni che restano alla vita mantenendosi sul limite e tentando di gettare uno sguardo al di là. Dolori, lutti, sprazzi di vita si vedono passare ai bordi del letto in cui le lenzuola formano colline, paesaggi maestosi. Addii timidi sono quelli pronunciati dai nipotini che allontanandosi salutano “un poco”, mentre una dimensione molto più vasta sta sospesa davanti al termometro, alla bottiglia dell’acqua sul comodino, alle poche parole legate a gesti solo apparentemente ripetitivi.

E mentre la morte e la notte avanzano, l’ombra e il buio improvviso intravvisti anche in quello brevissimo delle decorazioni natalizie che si accendono e si spengono a intermittenza svelano una dimensione che si trovano a vivere tutti, qui complicata dalla condizione doppia, dalla doppia famiglia, una che accetta e si fa carico, l’altra che abbandona, la condizione naturale si capovolge nel suo contrario se si aggiunge la parola figlia o figlio.

E da qui il libro apre i suoi rami e diventa albero (albero madre?) che abbraccia vari mondi, si inoltra nella dimensione della vecchiaia e vi porta dentro anche i bambini, affronta il terreno sdrucciolevole della dimenticanza compiendo varie ipotesi sul dimenticare, sul  tempo che passa, la paura, le poesie dedicate che recuperano le figure dei fratelli. In Errori di persecuzione la lettura delle lapidi sulle tombe permette di ritrovare le stragi che hanno colpito gli avi valdesi che giacevano “dissanguati e quieti”, e nella poesia dedicata ai figli di N.N., la targa stradale  intitolata al padre naturale amante del pino mugo in cui c’è scritto “naturalista” contiene forse una svista.

La poesia rovescia continuamente la prospettiva secondo repentini mutamenti che avvengono davanti allo spazio fisico in cui si racchiudono il tempo della malattia, dell’agonia, del trapasso, le diverse posizioni del dolore di chi sta morendo e di chi vive. E i giorni tutti uguali diventano giorni tutti diversi, il piccolo si trasforma in grande, grande e piccolo si sfiorano, si capovolgono e camminano insieme: presente e mancanza di presente, passato e futuro,  aldiqua e  aldilà, morte e vita, lacrime insieme a  una straordinaria capacità d’ironia.

Le partenze, le perdite, gli addii avvengono tra brevi confini, sono incorniciati dal quadrato del finestrino, sono trattenuti dentro i quadri dell’esposizione privata appesa alle pareti di casa e rispecchiano il cielo, confondono il viso, il momento presente si riflette nel ritratto fermo, nella fotografia, nel dipinto creando una nuova forma e figura: cornici racchiudono e trattengono frammenti di storie e le immagini si sfrangiano nel tempo e nella memoria. Ora che i loro abitanti se ne sono andati via per sempre, gli interni delle case si rivelano ancora più disadorni, ma nello stesso tempo appaiono come i reami delle due madri dove tutto è animato, le poltrone parlano e i tramonti che entrano in casa attraverso la finestra sono ancora assoggettati alla loro volontà come a re e regine i protagonisti  delle fiabe.

Pur se i gesti sono ridotti al minimo i movimenti e i pensieri dimostrano una grande libertà che chiama in causa Wislawa Szymborska per dire una cosa e rovesciarla nel suo contrario (“preferisco i cani ai gatti e  i gatti ai cani /(d’inverno i gatti e d’estate i cani)/”) e manifestare il grande amore che  spinge  a nutrire gli ultimi giorni  di vita. Con ironia Vivian percorre in lungo e in largo il labirinto in cui vita e morte si toccano tenendo in mano il filo della poesia, un segno spesso cancellato e disegnato “in precaria/punta di matita”. Ma interrogandosi sullo scrivere (“Allora non è facile fare una poesia?/Non basta prendere un pezzo di carta/ e una matita? Non è come per la terra//fare un filo d’erba, una margherita? ”) la poesia inaspettatamente rivela di essere in concorrenza con la Madre Terra.

Immagini: Pino Pascali, Maternità, 1964.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).