Molti sono ormai gli scrittori, soprattutto poeti, che usano due o più lingue per motivi non solo decorativi, e si muovono a loro agio nel vasto oceano ipertestuale della rete (www). Pochi padroneggiano naturalmente più lingue, sì da poter creare opere originali plurilingui o addirittura usare lo spazio “tra le lingue” per esprimere quel di più che proprio tale nebulosa del senso consente. Pensiamo a Ungaretti, Amelia Rosselli, Nabokov, Agota Kristof. Ora, Michael Edwards – primo inglese a far parte dell’Académie Française – è sicuramente uno di questi, pienamente consapevole del rapporto ambiguo, conflittuale, paradossale tra le lingue (il suo Dialogues singuliers sur la langue française – PUF 2018 – ne è fin dal titolo una precisa dimostrazione): “Il linguaggio è un viaggio. Ogni lingua dà accesso al vissuto e a un mondo rinnovato, rinnovabile” (ivi, p. 208).
Professore emerito al Collège de France, Fellow onorario del Christ’s College (Cambridge), Michael Edwards è da tempo impegnato senza sciovinismo nella difesa delle sue due lingue e loro dialogo culturale, di là dalle semplificazioni e impoverimenti mediatici. Citiamo ad esempio l’efficacia di “Woodwind // peuplé d’ailes l’air / chante sans raison” (popolata d’ali l’aria / canta senza una ragione): L’infiniment proche, Corlevour 2016).
La breve scelta che segue è tratta dalla raccolta precedente, Paris aubaine (Parigi una manna, Parigi cuccagna), Nunc-Corlevour 2012, 170 p. – sorta di dichiarazione d’amore e di humour per la città d’accoglienza, gioco verbale su aubaine (anche un’eredità acquisita per diritto d’albinaggio), aubade (o serenata), Paris Paris e Paris demeure, l’accasarsi ungarettiano o quasi: “Tutti quelli che io sono si cercano a volte. Nel mobile del tempo” (p. 33). Sotto il segno del movimento, infatti.
Jean-Charles Vegliante
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L’arcobaleno del Champ-de-Mars
… nach dem Sturm, le acque del cielo
si radunano, preziose, negli irreali
colori scintillanti dell’invisibile,
per rivelare, frammento dell’anello,
la buona luce dell’origine.
*
Ricordo di viaggio
Talpa sotto il soffitto di foglie, la macchina
scendeva lungo il dolce baratro dei secoli
verso la chiesa di tronchi, tozza, attraente
seduta nel vivo del bosco sassone:
casa venuta dagli alberi ove riporre la speranza.
Non lo sguardo insostenibile d’un gufo,
ma il quadrato di pelle di un gelido Vichingo
inchiodato all’uscio, riassorbiva le nostre domande
sulla soglia di legno. Sprofondavo, al di là,
nei turbini, nel torbido dell’antica parlata.
Passo dopo passo, l’orecchio dell’anima
sentiva le parole mormorate dalle cose
nella lingua carnale della strana tribù.
“Floor”, “roof”, “opening”, “rightness”, “depth”,
fanno riemergere Greensted e i suoi nomi di riserva.
Smuovo, nel focolare freddo, grigie ceneri
(qui, nel chiarore champagne di Parigi),
e trovo le braci rosse, vive ancora.
*
Verbo
La poesia, verbo al futuro presente, ascolta, sotto l’occhio vitale, il contrappunto delle ombre, delle lumeggiature, tocca il verde dei platani, le finezze della scorza, e popola la Senna di luci che guizzano.
*
Pensiero
Dimenticata, la buona novella.
Gesù appeso ai suoi chiodi.
Il tuo corpo, la vita, tu li flagelli.
Sant’Ilario, rida per noi.
*
Dal lungosenna Montebello
Credo di sentire la campana
Delle cinque nella torre.
La luce dell’inizio
Di novembre non è scura
Ma grigio perla. Sul rosone,
Paillette di chiarori
Scintillano, sulle vetrate
Della grande opera dell’Isola,
Astri pomeridiani
Che attirano sotto la volta
Del luogo strano, d’altrove.
Mi par di vedere la notte
Dei confini del mondo
Laggiù, nell’immensa navata
Di stelle piena in pieno giorno.
(trad. it. di Jean-Charles Vegliante)