La tesa fune rossa dell’amore

da | Apr 23, 2016

Quattro poesie da La tesa fune rossa dell’amore. Madri e figlie nella poesia contemporanea di lingua inglese, a cura di Loredana Magazzeni, Fiorenza Mormile, Brenda Porster, Anna Maria Robustelli, Milano, La vita felice, 2015.

Elizabeth Bishop, Sestina
(traduzione di Margherita Guidacci)

Cade la pioggia settembrina sulla casa.
Nella fievole luce, la vecchia nonna
siede in cucina con la bambina
presso la Piccola Mirabile Stufa,
e legge le storielle dell’almanacco,
ridendo e parlando per celare le lacrime.

Pensa che queste equinoziali lacrime
e la pioggia che batte sul tetto della casa
siano state predette, tutte, dall’almanacco,
ma solo comprensibili a una nonna.
La teiera di ferro canta sulla stufa.
La nonna affetta del pane e dice alla bambina:

Adesso è l’ora del tè; ma la bambina
guarda uscire dalla teiera le piccole dure lacrime
che danzano come pazze sulla nera rovente stufa,
come deve danzare la pioggia sulla casa.
Riordinando la cucina, la vecchia nonna
appende lo spiritoso almanacco

allo spago. Come un uccello, l’almanacco
si libra semiaperto sulla bambina,
si libra sulla vecchia nonna
e la sua tazza di tè piena di scure lacrime.
Ella rabbrividisce e dice che la casa
le sembra fredda, e aggiunge legna alla stufa.

Doveva essere, dice la Mirabile Stufa.
So quello che so, dice l’almanacco.
Coi pastelli la bambina fa una rigida casa
e un sentiero a zig-zag. Poi la bambina
ci mette un uomo con bottoni come lacrime
e mostra orgogliosa il disegno alla nonna.

Ma in segreto, mentre la nonna
si muove affaccendata intorno alla stufa,
piccole lune cadono come lacrime
di tra le pagine dell’almanacco
giù nell’aiola che la bambina
con cura ha messo davanti alla casa.

Tempo di piantare lacrime, dice l’almanacco.
La nonna canta alla mirabile stufa,
e la bambina traccia un’altra imperscrutabile casa.

*

Sharon Olds, Il suono
(traduzione di Loredana Magazzeni)

La mattina in cui nostra figlia è tornata a casa, io sento
un suono sopra la testa – come d’angeli,
o un tintinnio nelle orecchie, a volte,
nel letto, o il rumore di un anello planetario,
il vorticare di pulviscolo secco tutt’intorno.
Viene e va, un cosmico ronzare,
alla fine capisco che è un cantare di donna,
a dire il vero, un canticchiare di donna
nella stanza di sopra – è nostra figlia, che disfa i bagagli –
le assi del pavimento scricchiolano, lo sento e non lo sento,
come se un vento lo trasportasse a sbalzi,
un canticchiare distinto, alto, casuale, liquido.
Risuona come una banda estiva in lontananza,
o musica creata nel fondo della mente,
gratuito, pula melodiosa di una
donna che riordina, il suo dire da soprano
non c’è pericolo qui, improvvisiamo
al confine fra latte e sonno. Ed è
così intimo, senza testimoni,
come se sentissi il lavorio dei muscoli
mentre lei solleva e spiega, ogni indumento raddoppia,
quadruplica come lo zigote. Non ho udito mai, prima,
una donna adulta cantare sola –
mia madre per lo più lanciava richiami a un Dio
maschio, invocando pomposamente il suo aiuto –
Ora, sotto il canterellare di nostra figlia,
io mi protendo, qui, come un neonato appena
arrivato in una casa, o un embrione
nella pancia di una donna che il ritorno ha reso
musicale, l’armonia del corpo
udibile, come se la materia stessa avesse compassione.

*

Arundhathi Subramaniam, Mezzadria
(traduzione di Brenda Porster)

Porto il sari di mia madre,
il suo gruppo sanguigno,
il suo ginocchio osteo-artritico.

Abbiamo votato
uomini diversi, stessi governi.

Nei sogni gioca
tra alberi di gomma e palme di betel,
davanti a una casa in Myanmar
mentre io scendo di corsa
le buie scale di servizio
dei palazzi di Bombay, acri
per l’odore di urina
e del kesar agarbatti
che fuma dal taschino
del matto del settimo piano.

Lei concupiva Dev Anand,
io Imran Khan.
Visti in televisione
tutti e due sfoggiano ancora
teste piene di capelli neri.

Lei si muove agilmente attraverso le lingue.
Io ogni tanto articolo vocali
ridotte a inerzie polverose.

Mi faccio squagliare
da una musica di sottofondo
o da un complimento.
Mia madre è fatta
di una stoffa più salda.

Seminando lo stesso sogno
in un diverso sé –
la logica testarda
che tutte e due conosciamo
dietro l’essere per secoli genitori.

Parliamo di Buddismo,
di Lata Mangeshkar, tramiamo pedicure,
fino a notte fonda,

e lei mi osserva
vecchia contadina
raccoglitrice accorta,
occhi lucenti
di sconfitta
mentre il mio corpo di nascosto
diventa il suo.

Eccolo qui allora –
il tradimento
della mezza età,
dell’amore.

Più vicino di così non c’è, mamma.

*

Carol Ann Duffy, La parlata di mia madre
(traduzione di Fiorenza Mormile)

Mi dico le sue parole
nella testa
o sotto i fondali del respiro
quiete forme in movimento.
Il giorno e per sempre. Il giorno e per sempre.

Il treno in questa sera lenta
percorre l’Inghilterra
frugando in cerca del cielo giusto,
il troppo azzurro in cambio di un fresco grigio
per miglia mi vado ripetendo
Che come è
il modo in cui dico le cose quando penso.
Niente sta zitto. Niente non sta zitto.
Che come è

Solo stasera
sono triste e felice
come una bimba
che in piedi alla fine dell’estate
immerse una rete
in uno stagno verde, erotico. Il giorno
e per sempre. Il giorno e per sempre
.
Sono piena di nostalgia, libera, innamorata
della parlata di mia madre.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).