La divina interferenza

da | Feb 29, 2016

Poesia e critica, affini al punto di essere considerate sorelle da Lukács e Adorno, si guardano oggi da territori lontani, quasi che l’una e l’altra non siano più in grado di avventurarsi oltre le rispettive cortine di ferro. Analogamente a quanto è avvenuto nel romanzo, sempre meno affetto da quell’«infarto moralistico o saggistico» di cui parlava Gadda, un infarto indispensabile a renderlo vivo non in una regione astratta dello spirito, ma nella storia degli uomini, anche nei domini della poesia qualcosa è cambiato rispetto alla convinzione, tipica del secolo scorso, che legava verso e forma saggistica in un rapporto saldo e insolubile. Da un panorama letterario dominato da poeti riconoscibili anche per il loro impegno critico, svolto dalle pagine di giornali e riviste non meno che tra i versi delle loro poesie, si è lentamente transitati verso una separazione dei ruoli e delle figure: il poeta e il critico sono persone ben distinte, che svolgono attività per lo più percepite come non-reciproche, concentrate nella definizione della propria identità ma dimentiche dell’insegnamento adorniano secondo cui l’«illusione mitica del puro sé» potrà essere evitata solo riconoscendo nella distanza non «una zona di sicurezza, bensì un campo di tensione» (Adorno 1994, 181). Questo campo di tensione è propriamente la zona di intersezione tra la critica e la poesia, un’area di interrelazione ove gli scritti dei poeti sulla poesia assumono rilievo non solo perché sono la prospettiva attraverso cui leggere i loro versi, ma anche perché in questa sollecitazione reciproca si sviluppano nuove potenzialità di conoscenza, sia nei confronti del passato, sia nei confronti dell’attuale stato del mondo. È ancora la lezione di De Sanctis a echeggiare fin dentro il Novecento, a ricordarci che per aprire il presente a nuovi orizzonti sarà necessario rintracciare le fondamenta della nostra tradizione, e che la vera poesia viaggia con un bagaglio pesante e dunque, un orizzonte di senso che la supera e ne integra il valore. D’altro canto già Baudelaire aveva riconosciuto che «tous les grands poétes deviennent naturellement, fatalement, critiques» e addirittura che il poeta è «le meilleur de tous les critiques». Analogamente, Leopardi nutriva forti dubbi rispetto al mito di una immediata disponibilità del poetico, di un suo fondamento naturale e irriflesso, ritenendo anzi necessario un alto apporto intellettuale alla poesia moderna, poiché per «imitare poetando la natura» è necessario lo studio «lungo e profondo de’ poeti antichi». È cioè necessario essere ottimo e preparato critico di poesia. Leopardi ci avverte che la poesia non è pura immediatezza e ingenuità, che l’essenza critica le è connaturata (soprattutto da quando la Natura ci fa difetto) e che dissiparne l’eredità condurrà forse a una poesia apparentemente godibile e chiara, ma certamente meno utile ad esercitare quella funzione morale che egli attribuisce alla letteratura quando afferma, nel Dialogo di Timandro e di Eleandro, di far «poca stima di quella poesia che, letta e meditata, non lascia al lettore nell’animo un tal sentimento nobile, che per mezz’ora, gl’impedisca di ammettere un pensier vile, e di fare un’azione indegna».

Dunque creatività e pausa meditativa, poesia e presa di distanza sono nei loro rapporti reciproci non solo assai più interessanti di qualsiasi ingenua o illogica gioia di scrivere o di leggere, ma innegabilmente fondativi della modernità europea – una modernità poi perfettamente riassunta da Eliot, che nel 1961 (in un intervento dall’emblematico titolo To criticize the critic) si interrogava sul senso e sull’utilità della critica letteraria e, pur sapendo che non avrebbe facilmente trovato «answer satisfactory», provava a distinguere tre tipi diversi di critico. Accanto al Super-Reviewer, al Critic with Gusto e all’Accademic, egli poneva una figura più marginale, e forse più interessante: «the critic whose criticism may be said to be a by-product of his creative activity. Particularly, the critic who is also a poet». Questa quarta tipologia è tanto più interessante quanto più essa non venga confusa con il mero auto commento, quanto più non sia letta «merely for any light it may throw upon its author’s verse»: se si realizzano queste condizioni potremmo essere di fronte a una pagina che certamente correrà il rischio di invecchiare (essere out of fashion), ma che conserverà a lungo la sua natura più propria – quella di essere «an instinctive activity of the civilized mind».

Il centro radiante della modernità occidentale è in fin dei conti una vocazione critica, una domanda posta sulle condizioni di plausibilità dell’opera, un tentativo di auto-anamnesi e all’occorrenza anche di diagnosi di una vocazione (e di un destino) che appare niente affatto scontata: autocoscienza pare essere il mot-clé di un intellettuale che mirava (ed era, in effetti) polo di attrazione di qualche rilievo nel campo di forze non solo letterarie ma socioculturali e talora anche politiche. Un’autocoscienza che, di conseguenza, non poteva non assumere le fattezze di un propedeutico superamento dell’autoreferenzialità: esercitare insieme poesia e critica significava appunto uscire da questa impasse, ri-appropriarsi del mondo (delle sue tensioni contrapposte) non in direzione auto centrica o estetica, ma in senso morale, responsabile e coinvolto. Significava, e ancora significa, farsi custodi dei valori della civiltà, preservare e officiare, quasi in articulo mortis, una tradizione resa più fragile dal confronto con la storia. Il Novecento è davvero stato il secolo della saggistica, una saggistica tanto più acuta se a condurla erano figure di poeti: tra questi, Montale è certamente colui che in modo più compiuto si è interrogato sul rapporto poesia-critica, ponendo come pietra fondante del suo ragionamento una ineliminabile riluttanza a trovare formule definitive e invitandoci a un propedeutico esercizio di perplessità. Dubbio, prudenza e ipotesi provvisorie sono i reagenti chimici indispensabili per un’indagine che si ispiri ai principi dell’empiria settecentesca e che ambisca ad essere atto poetico di secondo grado, proprio come la poesia è critica di se stessa: Montale, in effetti, è forse il primo in Italia a ricordare che «un’arte senza una critica parallela muore», idea grazie alla quale inesorabilmente muta la sostanza tanto del fare poetico quanto del ruolo del critico salvaguardante, del clerc che pur apparentemente isolato sarà in grado di infondere nuovo senso alla sua stanca epoca. Tuttavia se la poesia potrà sopravvivere anche nel mondo delle comunicazioni telematiche (proprio differenziandosi da esse), molto più incerto rimane il destino della critica, che rischia di appiattirsi ad affiche pubblicitaria, o a maldicenza privata, rivolta all’autore piuttosto che al testo. Ad arginare questo rischio Montale invita il lettore-preservante a proteggere i versi altrui, a rischio di perdita nella fanghiglia del mondo:

Sii preveggente per lui, tu galantuomo che passi:
col tuo bastone raggiungi la delicata flottiglia,
che non si perda; guidala a un porticello di sassi.

(Epigramma)

Solo per suo mezzo avremo una letteratura che possa diventare baluardo di una intera civiltà e non solo privato esercizio dilettantesco, dove la critica sia arrière-pays della poesia, suo orizzonte interiore. Si tratta di un principio che avrà larga eco nei poeti-critici della seconda metà del Novecento, per i quali questa sororanza di poesia e critica assumerà lineamenti inaspettatamente proteiformi: dalla geologia del pensiero zanzottiano alla radianza eterea della riflessione luziana; dai toni della nostalgia per un passato ideologico ormai perduto declinati da Pasolini nelle forme dalla protesta metafisica e dell’invettiva apocalittica contro la tragedia del presente, alla tensione religiosa che Fortini attribuisce ai suoi testi, protesi verso un avvenire che muti il corso pervertito della storia; dalla lezione diminuita e perplessa di Sereni, dove la mortificazione del presente induce a trovare un punto di equilibrio tra emozione, comunicazione e razionalità, alla Hiroshima dell’informazione paventata da Giudici. L’indagine paleografica e geopsichica messa in opera da Zanzotto, il suo oscillare tra una tensione all’oltranza ultra-moderna e un principio pre-storico annidato nel linguaggio e nel paesaggio, segnano un frattura (un oltraggio) di cui si dovrà tener conto per poter recuperare quella tradizione che ha disseminato le sue tracce in un bosco fisico e linguistico intricatissimo: un oltraggio, ma declinato in direzione storico-sociologica, denunciato prima di Zanzotto anche da Pasolini, che ne individuava (seguendo un’intuizione di Charles Péguy) la vittima non solo nel mondo pre-capitalico della periferia italiana, ma anche nell’idea romantica della poesia intesa come fatto naturale. La mutazione antropologica è dunque anche una mutazione poetica, che impone la sua trasformazione in saggio in versi. Analogo senso di frattura lo troveremo in Vittorio Sereni, nei cui versi forse meglio si compendia la condizione mortificata del poeta moderno, vinto, ma non arreso, consapevole che la tradizione non sia obliabile ma vada riscattata nei rapporti umani, per mezzo di strumenti umani atti a lavorare sul margine. Una cesura denunciata anche da Giudici, vittima di un sistema economico in cui la funzione dell’intellettuale si è degradata a banale ruolo, e tuttavia convinto assertore della necessità di ritrovare, nel linguaggio degradato della quotidianità, una poesia-dama e di dar voce a quel male sacro senza il quale ogni indagine della catastrofe sarà velleitaria: la poesia sarà ancora l’unico strumento capace di opporsi alla prossima Hiroshima dell’informazione. Ma certamente il poeta che maggiormente ha coniugato saggismo civile ed esercizio poetico è stato Fortini, con la sua idea di verifica indefessa di ogni dato del reale (politico, economico, linguistico, letterario), poiché la poesia non solo ingloba in sé ogni attività umana, ma addirittura è l’unico strumento plausibilmente in grado di mutare la realtà, di sconfiggere (quantomeno sul piano profetico) il serpente che la corrompe. Analoga fiducia, ma declinata in direzione metafisica anziché materialista, anima la poesia di Luzi, la certezza che la sua natura carismatica sconfiggerà l’inerte e deleteria potenza del mondo, riscattandola nella pienezza dei tempi, in una dimensione pentecostale in cui poesia e critica agiscono insieme per rinvenire il fuoco nella materia, per attribuire pieno significato a una realtà che privata del velo ontologico perderebbe ogni possibilità di realizzazione, poetica e storica.

Tuttavia, il secolo che vedeva ancora nella parola letteraria un mezzo efficace per rendere conto en poète di dinamiche extra-letterarie si è chiuso con la fine degli anni Settanta, in concomitanza con la crisi del fervore civico che aveva caratterizzato il secondo dopoguerra e di un principio di autorevolezza che di lì in poi sempre più è stato sottratto al dominio del poetico e del letterario in genere: ciò che più Pasolini temeva, ossia la riduzione dell’intellettuale a inconsapevole megafono del potere, si è forse realizzato proprio nel prevalere di un modello di poeta del tutto disinteressato a quell’esercizio critico-saggistico che è stato la cifra caratterizzante del Novecento letterario non solo italiano. Con la morte di Pasolini e in particolare con i mutamenti storico-sociali degli anni Ottanta, dopotutto, la situazione è radicalmente mutata: già Caproni, a tutti gli effetti ancora maestro di una pratica poetica strettamente connessa con la riflessione critica, misura sulle sue pagine un’intervenuta impossibilità. Il poeta si riconosce alla fine di un percorso, dichiara la sua posizione conclusiva, “quasi al limite di una salita”, diffida del suo ruolo, lo vive come una costrizione, si definisce recensore – non più critico né tanto meno intellettuale, rifiuta insomma ogni responsabilità o coinvolgimento. Questa naturalmente è ancora una posizione critica, coincidente con il venir meno della tradizionale fede nella poesia, con la sua incapacità di esercitare una qualche presa di possesso sul mondo, a cui il poeta risponde con una sorta di pari in negativo: un gioco d’azzardo volto a discutere il “senso della fine”, l’imminente nullificazione dell’io, di Dio e del mondo. Si direbbe che questa marginalizzazione e questa diminutio del poetico e della fiducia che in esso veniva riposta discenda dal progressivo abbattimento del valore trascendentale della poesia: la perdita di rispondenza tra verso e riflessione sul verso, la perdita della dimensione per così dire meta-poetica, di ricaduta esterna ha prodotto come inevitabile conseguenza la chiusura del circuito poetico su se stesso, l’esaurirsi di ogni intersezione tra universi distinti che era stata la cifra caratteristica della poesia novecentesca. Lo notava già nel ’75 Berardinelli quando, denunciando una “deriva” rispetto al festboden della tradizione, rilevava che gli autori sono disgregati e centrifugati, percepiscono il fallimento e la marginalità letteraria: giudizio interamente ribadito a quarant’anni di distanza, in occasione della terza edizione de Il pubblico della poesia, in un momento in cui è impossibile non constatare la diminuzione dell’autocoscienza storica, la riduzione di ogni forma di impegno critico, in corrispondenza a una nuova pretesa innocenza della parola, addirittura a un fenomeno di auto ghettizzazione dei poeti, che scelgono di rivolgersi a micro comunità di lettori ove la discussione critica non è più così determinante ed è anzi sostanzialmente immobile.

Più di recente, Milo De Angelis si è interrogato su questa condizione di confusione dei paradigmi poetici, dove il poeta stesso è ridotto a monade, incapace di stabilire delle linee di interazione con la società e con i suoi compagni di viaggio: l’esaurirsi dell’abitudine al dibattito e di una koinè letteraria condivisa ha lasciato libero campo al predominio di quell’«inverno della cultura» descritto da Jean Clair, un inverno a cui pare pressoché impossibile opporsi, nella generale incapacità di mettere in atto una strategia di reazione, una contromossa. De Angelis mette a paradigma questo smarrimento, traducendolo dal piano individuale a quello collettivo:

Abbiamo scritto per un mandato
certo come il nostro smarrimento,
eravamo lì, in un fervore di ceneri,
murati vivi, mentre una foiba scendeva
nella bocca, sigillava tutte le parole date,
la corsa dei momenti, la morte vista in giro…
…così giunse la notte umana, nel tempo
delle sillabe tronche, così il vero
inizio di ogni cosa.

(Abbiamo scritto per un mandato…)

Pur lontano dalla voga neo-orfica con cui era stato confuso ai suoi esordi, si avverte in De Angelis la coscienza di un naufragio da cui i frammenti di un passato glorioso emergono come fantasmi per poi subito re-inabissarsi. Lo sfacelo quotidiano emerge dai suoi versi, dalle foibe e dalle ceneri di una storia che pare aver prodotto solo morte civile: la sua poesia non ha nulla di estetizzante – eppure non riesce più a coagularsi in un impianto critico strutturato ed evidente, prevalgono le prospettive sfocate, la difficoltà di confrontarsi da un lato con una realtà esterna alla scrittura, dall’altro con un passato letterario sempre più inattingibile, resistente e chiuso ai domini poetici, e inversamente percepito come indefinitamente disponibile, stilisticamente privo di traumi. Eppure il trauma in poesia c’è stato, un trauma, avrebbe scritto Zanzotto, «di cui si ignora la natura», ma che ne ha cambiato il volto.

Dunque che cosa succede quando il poeta non è più un intellettuale? Come può emergere il tessuto connettivo di una umanità possibile se il poeta stesso afferma con sempre maggior forza “io”, costretto in tal senso da una società che ha obliterato le forme del “noi”? Secondo le estreme letture di Eric Hobsbawm, convinto che la rivoluzione industriale abbia avuto luogo anche a livello delle produzioni della mente, il poeta oggi non è dissimile da un tessitore a mano che opera dopo l’invenzione del telaio: per questo il suo ruolo tradizionale appare svuotato, afasico, incapace di operare come «nucleo spirituale della società borghese». La progressiva democratizzazione della fruizione estetica ha trasformato l’arte in un oggetto di consumo e di svago: una sorta di tsunami culturale ha travolto la cosiddetta «epoca delle mobilitazioni», sostituendo al concetto di opera quello ben più ambiguo e sterile di brand (Hobsbawm 2013, 163-166). Una qualche influenza su questo processo l’avrà inoltre avuta anche la spinta al riflusso degli anni ’80, il predominio di una cultura sempre più televisivamente orientata a silenziare il nucleo culturalmente più vivo della società, la sostituzione dell’affiche pubblicitaria o dello slogan all’interpretazione, della teoria letteraria al giudizio critico. Come sarà possibile tornare a esercitare un controllo critico sul mondo se (quasi) nessuno crede più in quella funzione di servizio e di orientamento che la critica ha a lungo svolto, fino almeno a Garboli? Il poeta fiducioso e disinvolto, il poeta che sta potenzialmente in ciascuno di noi, dunque il poeta che non sente drammaticamente il rischio di vanificazione a cui va incontro il suo gesto letterario (che non manifesta alcuna forma di perplessità e alcun imbarazzo di fronte al suo tempo e al suo ipotetico ruolo) in che posizione si colloca rispetto alla tradizione e rispetto al contesto presente? Posto che non abbia più un ruolo riconoscibile, potrà ancora esercitare una funzione? Il problema era già pienamente avvertito da Vittorio Sereni, quando richiamava alla necessità che il poeta «ci dica ciò che a noi veramente importa, venga incontro a domande essenziali, torni a offrirci, dietro la fuggitiva apparenza, il fondo stesso delle cose»: in effetti, solo nella consapevolezza che in ogni verso «de re mea agitur» sarà possibile per la poesia «ancora esercitare la sua presa di possesso del mondo» (Sereni 1998, 53).

Ma oggi la poesia è poco incline ai discorsi universali: naturalmente è vero che l’impegno intellettuale è più dell’impegno meramente politico, e che la forza dell’intellettuale-poeta è nella singolarità, non nell’appartenenza a ceti o corporazioni, e tuttavia proprio quella azione dentro la società e contro la prassi convenzionale è ciò di cui più si avverte la mancanza. Nella solitudine e nella non appartenenza, in un certo disagio connaturato, e in una riluttanza a rivestire un ruolo pubblico, il poeta-critico era solitaire e solidaire, alla maniera di Albert Camus: il suo compito primario era quello di ripensare il mondo attraverso una messa in discussione del linguaggio, rompendo la solitudine per mezzo di un gesto linguistico («la façon de dire que ferai / qu’on ne serait plus seul dans le langage», potremmo ripetere con Yves Bonnefoy in Le tout et le rien). Il poeta nel Novecento è stato soprattutto un appartato, mai un disimpegnato: quando anche abbia scelto l’isolamento (come nel caso di Montale, strenuo difensore della sua poltrona e della “campana di vetro”, o in misura diversa di Zanzotto, pervicacemente fedele al suo bosco e alle sue colline, come a livello europeo Char che dopo la scelta del maquis si ritira in silenzio nel Luberon, lontano dalle mode intellettuali parigine), nella solitudine e nel disinteresse verso la sfera più esplicitamente politica, la critica della parola poetica ha rappresentato il più alto livello di indagine critica sulla società borghese e capitalistica: essi hanno dunque dimostrato che la verità della parola (se di verità è legittimo parlare) risiede non in se stessa, ma nel suo articolarsi in relazione al discorso letterario generale, in relazione cioè a una tradizione che si è accumulata nel corso della storia. È in questo trascendere del linguaggio poetico che poesia e critica si incontrano, producendo risultati di eccezionale altezza. È nel campo magnetico generato dall’incontro tra critica e poesia che l’intellettuale può ancora contraddire la generale falsificazione cui vanno soggette le parole nella pratica quotidiana e comunicativa, esercitare una forma di perplessità e di intransigenza verso le idée reçues che consente alla poesia di tramutarsi in critica delle ideologie e della società: è nell’interferenza tra queste due dimensioni, nel loro brouillage, che si creano quelle lacune e quegli scivolamenti di senso reciproci, quelle esitazioni che aprono la strada alla moltiplicazione del messaggio poetico. Se dunque la letteratura può ancora essere un elemento di identità nazionale e un punto di osservazione privilegiato su di essa, occorrerà volgersi nuovamente a chi ci invita a seguire le indicazioni derivate dal nostro passato non con ansia di consunzione, ma con rinnovata lena emulativa e soprattutto con quello spirito critico che è via alla rappresentazione del mondo e dunque è radice fondante, attività misteriosa ma «cruciale e originaria quanto la stessa opera d’arte» (Ficara 2007, 240).

 

Bibliografia

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Immagine: Opera di Carmen Herrera

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).