Da “[la casa è nera]” di Nadia Agustoni (Vydia 2021), opera vincitrice del 40° Premio di Poesia “Città di Legnano – Giuseppe Tirinnanzi”, pubblichiamo un estratto dalla prefazione di Giovanna Frene e una scelta di poesie. La selezione è a cura di Giovanna Frene.
dalla prefazione DISABITARE. PER UNA NUOVA ABITABILITÀ POETICA
[…]
Al di là del suo esplicito referente artistico diretto – ossia il film di denuncia “La casa è nera”, della regista e poeta iraniana Forough Farrokhzad, di cui si trova spiegazione nella nota finale –, il libro di Nadia Agustoni propone metaforicamente una topologia poetica dove alla denuncia
dell’inabitabilità di certe “soluzioni abitative” dettate dal potere e della guerra, si contrappone
invece l’apertura ecologica di una struttura abitata dalle vittime del potere, unico luogo di possibile pace e resistenza non-violenta.
In realtà, questo tragitto di denuncia percorre tutta l’ormai vasta opera poetica di Nadia Agustoni, ma raggiunge una messa a fuoco nitida ed esiti artistici altissimi nei suoi ultimi tre libri – tra i quali appunto “[la casa è nera]” rappresenta il momento di perfetta sintesi stilistica. Di “Racconto” (Aragno 2016), Maria Grazia Calandrone sottolineava tre elementi: una dimensione di pace raggiunta mediante l’attraversamento del dolore; una dimensione di cura per le parole; una riflessione sulla scrittura, intesa come dimensione concreta, cosicché le parole sono le cose e «vivono se le ascolti».
Il mondo viene a porsi, quindi, nello stesso momento del racconto («i racconti costruiscono la voce / e il tempo»), tanto quanto l’altro «esiste nello sguardo»; questo fa sì che il poeta stesso sia scritto dal segno che scrive, e scrivere è un gesto delle mani.
L’esistenza, dunque, è un fatto linguistico («siamo le parole che sappiamo»); ma questo, ovviamente, vale per tutti, non solo per il poeta, perché tutti sono, appunto, la storia. Al fare delle mani, che produce poesia, cioè l’armonia che salva (non a caso il referente metaforico è
esclusivamente afferente a elementi della natura), si contrappone crudamente l’opera successiva (e si contrappone anche per il cambio di passo formale, con brevi prose caratterizzate da un andamento asindetico): “I Necrologi” (La Camera Verde 2017). Qui il fare delle mani è quello del comune lavoro in fabbrica, dove il gesto è coatto («siamo cani chiusi nelle gabbie»), e insieme impotente e senza via di fuga («gli animali portano altre storie nella carne. storie di sangue e caccia. per questo noi non siamo animali. ci allevano polli in batteria. i polli non imparano a volare. stanno lì da soli. la violenza più della morte»), perché anche «se scappasse tutto il mondo è uguale».
Il potere prende le forme del padrone e dei suoi guardiani, in una situazione di perenne incombere della violenza – come in un Far West («passa la direzione. dietro c’è la guardia giurata con la mano sulla pistola») –, e della sopraffazione, implicita («capisci quello che pensano del lavoro») ed esplicita («i molti tempi della fabbrica sono veloci. li creano con la voce grossa»), che prevede la punizione della bontà («se uno è buono la paga per gli altri tutti assieme»). Questa inabitabilità del luogo-fabbrica, metafora del mondo, spiega perché alla fine il poeta asserisce che «la vita nelle parole è un male raggiunto»: dire questo male è dunque il compito della poesia. In qualche modo, la pars destruens, di denuncia, de “I Necrologi” e quella construens, letteralmente di piccola (auto)rifondazione, di “Racconto”, trovano in “[la casa è nera]” una sua perfetta sintesi e armonizzazione stilistica. Come in un bozzolo, qui l’istanza construens avvolge quella destruens, che è nella parte centrale nel libro; la secca asindeticità ritorna a tratti, ma mediata da un dire più avvolgente e pacato, a volte prettamente lirico, comunque sempre comunicativo (anche nei modi sintattici), frutto dello sforzo di rendere abitabile (dicibile) anche l’orrore della violenza del potere, che si materializza nelle guerre e nelle migrazioni.
[…]
***
a volte leggono nelle stelle la casa
pensano per un sorriso
con l’ombra dei fiori falciati
guardano il perdono
viene un colore di sere
quel toccare appena del sereno –
bisogna amare il poco
per capire.
*
non portano il prato
ma l’erba di queste notti
cura il piangere e il prato
li raggiunge lontano.
il cielo degli azzurri imprime
un cuore alto
e corrono i conigli allo scoperto
si respirano da soli.
case senza tetto piene di luce
i figli nel fuoco di fotografie
con la loro storia
avranno le domande del viso.
*
nella terra non arata
l’asse di legno a chiudere la casa
ricorda il mancare dei vivi
i lavandini bianchi –
la luce di questi giorni
per conoscere le ossa
scava dove la talpa
è il suo ricordo
e un tempo di polvere
va nel cielo, perché parli
qualunque voce
qualunque io.
*
la paura della luce è il boato. le cose che scoppiano a
palloncini. dopo gli mancano i volti, i quaderni restano
vuoti. sul muro scrivono siamo liberi di piangere liberi
dalla fame per avere più niente. leccano gli insetti.
cullano le larve per nutrirsi. in certi posti sono ciechi
appena nati. gridano alfabeto a rovescio. sono bambini
mai stati.
*
vediamo la morte ma siamo fedeli ai volti
*
“i nomi sono la nostra parola
nel vuoto ritornano
sono i torrenti alle voci
la vita da dire”
“insegna a essere leggeri
l’aria, prende l’erba il sorriso
sa cosa era neve
e cosa inverno”.
*
uno
una pioggia leggera un cammino di fiori rossi
alberi com’erano alti un volto
com’era il bambino la rosa a farsi pensiero
il mondo nudo se tutto tremava
le parole per piangere per vederci vivere
per chiedere poco
essere insieme un nome
così nella luce com’era inverno
lo stesso dei rami degli uccelli
così dell’acqua non avere tempo
solo fiato di alfabeti o riva
vedere qualcuno senza niente
senza segni
per l’aprile che manca
per ogni parola
così la luce fa ossa
gioca la nostra solitudine
per fami di cancelli e pianure
a due a due – lì il volto
sopra ogni cosa
manda via la cenere
e posarsi copre la morte
va nel cielo degli altri
per una realtà
contro cui il viso
non parla –
:l’oscurarsi di nubi
in un vuoto che alza questi anni
in un modo più vero
a stare insieme
sul tavolo sono tanti
messi a coperte
finire con le mosche
i pesci
a gente triste fare le zucche
i pomodori pannocchie
un po’ di cortile
mezzo cane:
legano al mare la bocca
migrano maglietta partire
e latitudine
è contarsi
muti e lavati
soli come terra
:i roghi lunghi di sterpo
a cominciare il campo, all’alba
c’è rovina di cinghiali
una crepa di passeri
la terra cresce il piatto
cresce la schiena
ma in basso
e nei cappotti l’odore
qualcosa dove sei
dove vestirti:
stanno pieni d’acqua
o l’erba dei campi nella pelle
credevano i giardini la cena i libri a vivere
guardare alberi farfalle
[la casa è nera].
*
sette
tirano giù i boschi un paese di ossi
negli ossi orfani di figli, stanno lì
coi fazzoletti, il volto,
la neve caduta prima:
“perché il bianco non ci entrava dentro
faceva solo un freddo di fuori
il gelo era sugli alberi
ma un’altra cosa,
ora sta coi pensieri”
si slacciano le scarpe
cantano la festa se c’è
un po’ di azzurro e fiorire
nel fuoco dei rami –
(per un basso di foglie sono)
*
vivere nei propri occhi ma per toccare ogni luogo
*
qui l’eternità sanguina sull’erba
*
rispondi città dei morti là nei trifogli è un giorno
*
i piccoli col dolore nei fiori e nell’ultimo petalo la rosa
senza la rosa. scalzi come comete si ricordano le stelle.
il bianco li lascia per una dolcezza di case. viene sulle
terre un più alto cielo. un’erta senza segreto. senza
morte.
*
volano gli occhi colline convolvoli