Pubblichiamo un’anticipazione del libro di Ilaria Palomba Città metafisiche, da poco uscito per Edizioni Ensemble, con una nota introduttiva di Gabriele Galloni.
Third time’s a charm, dicono gli inglesi. La terza volta è quella giusta, la migliore. E così è anche per la scrittrice Ilaria Palomba, che con Città metafisiche è giunta alla sua terza prova poetica. Il libro porta a compimento le premesse dei due libri precedenti e ne è, in qualche modo, la pietra tombale. Intendo dire che dopo Città metafisiche la poesia di Palomba non potrà che essere altra, tanto è dirompente quest’opera. Inutile cercarvi influenze esterne: è una poesia che vive di e per sé stessa. Un nome che potrebbe far capolino è quello di Alejandra Pizarnik, ma sarebbe un riferimento ozioso e vacuo; un riflesso distante. Il dolore e il sacrificio, punti cardine della poetica dell’autrice, sono qui trattati lucidamente e senza cadere nel dolorismo facile di certa poesia confessionale. La parola della Palomba è un bisturi che squarcia il velo di Maya. Se Mancanza (Alter Ego-Augh edizioni, 2017) esplorava la Perdita e Deserto (Fusibilia, 2019) raccontava le sue conseguenze, Città metafisiche è una cartolina dall’Abisso. Tutto è già accaduto: non c’è presente né passato, solo un futuro in potenza, ipotetico, un grumo nerissimo. Ilaria Palomba dimostra con questo libro che è ancora possibile, a dispetto di chi dice che tutto è già stato detto, raccontare la sofferenza di appartenere al mondo.
Gabriele Galloni
I fiori hanno dieci stanze
la prima è un giardino
la seconda una galleria
la terza è verdastra,
piena di banchi e carte
geografiche. Nella bocca
dei fiori la silenziosa memoria
del mondo. In loro ogni
uomo nasce e muore.
Morire è attraversare un
corridoio bianco e svegliarsi.
*
Questa volta la falesia mi ha respinta.
Il castello di Otranto senza trame gotiche
è una fotografia. Ero piccola e appariva
una torre esoterica, poi sono cresciuta
ho visto la città sbaragliata dalle turbe,
solo a settembre ricomincia a brillare.
Quando siamo qui attraversiamo memorie.
Mio padre esce alle sei del mattino
e cammina a lungo nella pineta,
è un bosco, la luce incide con l’acutezza
di uno spillo. Ho consumato uomini e
misteri dietro i tronchi di questi pini.
Mi è rimasto il ricordo delle mani
e dei morsi. Ho consegnato al mare
le cose non dette. L’acqua conosce
tutte le cose. Solo il mare ha memoria.
Penso che arriverò alla torre e
m’inginocchierò per sorgere con l’alba.
*
Si aprono fiori nella luce,
una luce senza fondo
rovina sulle nostre ombre,
una luce oscena
devia il gioco del mondo
in una sfilata di addii.
*
Penso che la bambina
ferita oltre la grata
sia volontà minima.
Suo Padre l’abbandonò,
fuligginoso fiume,
nel fondo dell’abisso.
*
Attraversa il silenzio,
il lungomare fino al faro,
voltati a guardare il sole
nelle increspature del mare,
nuvole vermiglie e sabbia
sporca di bottiglie, l’inverno.
*
Le condizioni della carne stanno
all’umano come al lupo le ossa.
I falchi hanno beccato la nostra
pelle, nessuno escluso, hanno
sbrindellato i formicai, la lotta
per la vita ha il volto della morte.
Nuotiamo in un mare senza
terra, muliniamo le braccia fino
a perdere la rotta.
*
Ricordo la strada e la spiaggia,
la grana rossa e la notte gonfia di
stelle che sognavamo di unire con
le dita. Mi parlavi di un Padre
sconosciuto, nascondevi il viso
in una maschera di cera.
La notte in cui sparisti, sentii
la sabbia fredda con le tue orme
sulla battigia. Un Padre ti aspetta
in un luogo senza tempo.
*
La mia terra è piena di sguardi,
ho dovuto cavare tutti gli occhi
e perdermi tra i ciechi. Ogni volta
che torno mi stendo nel bianco.
Immagine: Tony Oursler.