Riproponiamo otto testi di Louise Glück, Premio Nobel per la Letteratura 2020, nella versione inedita di Damiano Abeni che avevamo pubblicato nel numero 75 di «Nuovi Argomenti».
FIOR D’ANGELO
Non è la luna, ti assicuro.
Sono questi fiori
che accendono il giardino.
Li odio.
Li odio come odio il sesso,
la bocca d’uomo
che mi sigilla la bocca, il corpo
paralizzante d’uomo —
e il grido che sfugge sempre,
la bassa, umiliante
premessa dell’unione —
Nella mia testa stasera
sento la domanda e la risposta che ne segue
fuse in un solo suono
che monta e monta e poi
si fende negli antichi sé,
gli spossati antagonismi. Vedi?
Si sono fatti burla di noi.
E il profumo del fior d’angelo
entra dalla finestra.
Come posso riposare?
Come posso essere contenta
quando c’è ancora
quell’odore nel mondo?
*
FIGURA ASSISA
Era come se tu fossi un uomo su una sedia a rotelle,
gambe amputate al ginocchio.
Ma io volevo che camminassi.
Volevo che camminassimo come amanti,
sottobraccio nella sera estiva,
e credetti tanto intensamente in quella proiezione
che dovetti parlare, dovetti incitarti ad alzarti.
Perché mi hai lasciato parlare?
Presi il tuo silenzio come presi l’angoscia sul tuo volto,
come parte del tuo tentativo di muoverti —
Parve che restassi lì in piedi un’eternità, la mano protesa.
E per tutto quel tempo, tu non potesti guarire te stesso
più di quanto io potei accettare quello che vedevo.
*
IL TRIONFO DI ACHILLE
Nella storia di Patroclo
nessuno sopravvive, neppure Achille
il semidio.
Patroclo gli assomigliava; portavano
la stessa armatura.
In queste amicizie c’è sempre
uno che serve l’altro, che è meno dell’altro:
la gerarchia
è sempre palese, benché delle leggende
non ci si possa fidare —
la fonte è il sopravvissuto,
colui che è stato abbandonato.
Cos’erano le navi greche in fiamme
rispetto al suo lutto?
Nella tenda, Achille
piangeva con tutto il suo essere
e gli dèi videro
che era un uomo già morto, vittima
della parte che amava,
la parte mortale.
*
LIBERAZIONE
Ho la mente obnubilata,
non posso più cacciare.
Poso il fucile sulle tracce della lepre.
Era come fossi divenuta la creatura
che non sa decidere
se fuggire o stare immobile
e così restassi presa nello sguardo dell’inseguitore —
E per la prima volta seppi
che quegli occhi debbono essere vuoti
perché è impossibile
uccidere e porsi domande allo stesso tempo.
Poi la sicura scattò,
la lepre fuggì libera. Fece fuggire
per la foresta vuota
la parte di me
che era vittima.
Solo le vittime hanno un destino.
E il cacciatore, che credeva
che qualsiasi cosa stia lottando
in realtà implori di essere fatta a pezzi:
quella parte è paralizzata.
*
L’ABBRACCIO
Lei gli insegnò gli dèi. Era insegnare? Lui continuò
a odiarli, ma nelle lunghe sere di discorsi ossessivi,
con lui che ascoltava, essi si fecero reali. Non che [cambiassero.
Non giunsero mai a sembrare innatamente umani.
Alla luce del caminetto, lui le scrutava il volto.
Ma lei non si lasciava toccare; aveva ripudiato
il bisogno originale. Poi nell’oscurità lui la riconduceva a [ritroso —
sopra agli alberi, la città lievitava in una specie di fulgore
come se tutto ciò che è selvaggio affiorasse in superficie.
*
ESTATE
Ricordo i giorni della nostra prima felicità,
quant’eravamo forti, storditi di passione,
sdraiati tutto il giorno, poi tutta notte sul letto stretto,
a dormire, mangiare anche: era estate,
sembrava che tutto fosse maturato
d’un tratto. E così caldo che giacevamo completamente [scoperti.
A volte si alzava il vento; un salice sfiorava la finestra.
Ma, in certo qual modo, eravamo persi, non lo sentivi?
Il letto era una zattera; sentivo che andavamo alla deriva
distanti dalle nostre nature, verso un luogo dove non [avremmo scoperto nulla.
Prima il sole, poi la luna, a frammenti,
rifulgevano nel salice.
Cose che chiunque avrebbe potuto vedere.
Poi i cerchi si chiusero. Piano le notti si fecero fredde;
le foglie pendule del salice
ingiallirono, caddero. E in ciascuno di noi iniziò
un profondo isolamento, anche se non ne parlavamo,
di questa assenza di rimpianto.
Eravamo di nuovo artisti, marito mio.
Potevamo riprendere il cammino.
*
IL RIMPROVERO
Mi hai tradito, Eros.
Mi hai mandato
il vero amore.
Su un alto colle hai fatto
il suo sguardo chiaro;
il mio cuore non era
duro come la tua freccia.
Cos’è un poeta
senza sogni?
Giaccio sveglia; sento
carne vera su di me,
vuole ammutolirmi —
Fuori, nel nero
alto sugli ulivi,
qualche stella.
Penso sia un’offesa amara:
che io preferisca percorrere
i sentieri tortuosi del giardino,
percorrere gli argini del fiume
che risplende di gocce
di mercurio. Mi piace stare sdraiata
sull’erba umida dell’argine del fiume,
fuggendo, Eros,
non sguaiata, con altri uomini,
ma discreta, fredda —
Tutta la vita
ho adorato gli dèi sbagliati.
Quando guardo gli alberi
sull’altra sponda,
la freccia nel cuore
è come uno di loro,
ondeggia e palpita.
*
CAVALLO
Cosa ti dà il cavallo
che io non ti posso dare?
Ti guardo quando sei solo,
quando cavalchi nel campo dietro il caseificio,
le mani sepolte nella criniera scura
della puledra.
Non so cosa ci sia dietro al tuo silenzio:
scherno, odio per me, per il matrimonio. Eppure,
vuoi che ti tocchi; piangi
come piangono le spose, ma quando ti guardo vedo
che non ci sono bambini nel tuo corpo.
E allora che cosa c’è?
Niente, mi sa. Solo la fretta
di morire prima che muoia io.
In sogno ti ho visto cavalcare
sui campi siccitosi e poi
smontare: voi due camminavate insieme;
al buio, non avevate ombre.
Ma io le sentivo venire verso di me
perché di notte esse vanno ovunque,
sono padrone di se stesse.
Guardami. Credi non capisca?
Cos’è l’animale
se non il varco d’uscita da questa vita?
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