Sei poesie dal “Terzo movimento”, intitolato “Il risveglio. Note sulla melodia dell’acqua”, dal lavoro inedito di Alessandro Anil “L’acqua della nostra sete”.
I
L’uomo al risveglio la prima cosa che sente è la sete, poi lentamente il raggio
penetra la cupola del sonno e il corpo torna avvolto dall’abito che altri
toccheranno, guarderanno. La popolazione apre le porte, espirano vapori
trattenuti nella notte. È l’ora questa, quando l’eterna contesa fra luce e ombra
rinnova il ritorno quotidiano dalla morte chiamata sonno
verso il sogno condiviso da cui un giorno, ci sveglieremo. Il paesaggio avanza
e noi ritroviamo le inquietudini. Che sia Firenze e la festa al plurale di archi
incorniciati dallo sguardo, o Roma e i suoi busti, Augusto, Lesbia, Tiberio,
il prezzo per l’eternità è tramutare la carne in pietra, perché la sete è un fiume
ma la sua assenza è quell’altro desiderio che minaccia di non estinguersi
e l’uomo, un affluente a sua volta assetato, che fra i due crepuscoli del giorno
torna a riversarsi nelle strade, a inondare i più intimi recessi di una metropoli,
come acqua che scorre fra le crepe, acqua che sale fino all’orlo
in cerca di un atrio, una porta dove ripararsi, una casa abitata
o il pronto soccorso dove ricevere la dose d’anestesia chiamata
vita. Io, il più mortale fra gli esseri, osservo questa nascita, il lungofiume infinito
che rende il nostro tempo ancora più breve. Non oso scendere nelle acque.
Come può un frammento fissare l’eterno? Forse per questo ai morti
si coprono gli occhi. Eppure, il corpo vorrebbe immergersi, diventare
un bassorilievo sul fondale oscuro di quest’altra massa di convenzioni chiamata
mondo: accettare le leggi dell’uomo o la gloria di una sorte spezzata,
restare in contemplazione o manifestare, innamorarsi o fuggire,
maestri del disincanto o professori di una lotta estinta? All’entrata, resta
della neve sul cappotto, due rive insanguinate del torrente che non siamo riusciti
a trattenere e quella imprecisata sensazione nel corpo ogni volta che si riconosce
l’amore è all’ultimo, sul nervo delle cose perdute e ritrovate
nel suono che hanno lasciato andandosene. Non si placherà con la morte
la nostra sete, sopravvivrà a noi, tornerà nella terra, sarà terra assetata.
II
Non ci sono differenze fra due corpi che dormono. Il sonno è oblio, ritorno
verso l’origine. Le acque scorrono a ritroso, risalgono il fiume, l’amore
risale alla sua fonte e l’infinita moltitudine, l’immensa stagione dell’ieri,
la legione dello straniero che tracciò il deserto con la spada e la stella
inconfondibile del domani dove già si apriva l’ignota geografia del ragazzo,
la nostra quotidiana dimessa storia, ritornano
nel presente del risveglio. Il tempo è differenza, il sonno è assenza di tempo.
Keats, in un giardino del Hampstead, una notte d’aprile, malato di tisi,
compose la sua “Ode a un usignolo”. L’immortale uccello contrapposto
all’umana sofferenza, alla vicinanza con la morte del singolo. L’usignolo
non è quel singolo mortale, ma l’eterno usignolo di Shakespeare, Milton,
di Ovidio, quello che secoli addietro accompagnò Ruth nei campi d’Israele,
la forma di tutti gli usignoli. In questo piccolo errore, fra individuo e specie,
nasce la poesia. Io, il più mortale fra gli esseri, forse sto toccando la follia,
ma più folle, sembra, pensare che l’usignolo volato da questa gabbia sia altro
da quello che conversava con il dolore dell’uomo e che il dolore stesso,
quello che portò Keats a rivolgersi a un usignolo pensandolo eterno, sia diverso
da questo che ritrovo nel mio corpo e questa sete, impenetrabile, così dura
e viva, sia altra da quella che portò il mio antenato ascoltando il rumore
dell’acqua a fantasticare sulle leggi della vita e dell’universo e dicendo questo,
vorrei restare sospeso, ora, che tutto deve accadere e non c’è nulla
a cui aspirare, anche le ombre iniziano a ritrarsi e io non posso darti
che una parentesi, un’illusione fugace quanto lo è una parola indiscreta
che continua a tormentarci anche nel sonno. Gli ultimi locali aperti nella notte
sono una ferita che si rimargina, in quest’ora esatta la città è una stamperia
pronta a moltiplicare le grandi copie del novecento, con la luce
ogni uomo torna ad essere una parola solitaria, ogni profeta, un tipografo.
III
(Traducendo W.B Yeats)
Non lontano, un pianoforte copre l’ossatura dei vicoli e l’ombra
lascia le retrovie di questa parte dell’emisfero. Altrove, il sonno continua
ad alleviare le nostre sofferenze, ma qui, dove il click della tua molletta
si accorda misteriosamente alla sirena che inizia il suo canto, la notte si ritrae
dalla tazzina agli angoli della bocca, in ogni forma concava della realtà.
Ora il fiume scorre verso valle. Inizia l’esercitazione umana, l’ansioso
agitarsi del mondo e la sacra differenziazione del suono: sia che si tratti
del disastro di una frizione che qualcuno tormenta nella strada
o delle parole che iniziano a distinguersi dai primi gemiti, consuetudine antica
è scambiare parole nel letto: «è bello dormire con te, ma è più bello
risvegliarsi accanto». Parole gentili, vere, forse le uniche della giornata.
Se noi guardassimo le figure del Rinascimento, quelle di Piero della Francesca
o come ci conduce Rilke fra i santi di Marco Basaiti, se mai si salutassero
non lo farebbero con gesti pomposi, si ritrarrebbero nello sfondo diventando
miniature. Così, il Cristo di Dürer, risorto con le proprie sofferenze,
non avrebbe bisogno di muovere i rami per sentire che il fruscìo sia la forza,
la vita. Io, il più mortale fra gli esseri, sono l’ennesimo scribacchino
alla fine di una lunga generazione di uomini che fra Occidente e Oriente
hanno tirato instancabilmente le fila di questa favola eterna.
Ascolto lo stesso fiume, le sue increspature mutano la transizione dei sogni,
eppure, il dissesto non ha memoria. Tu mi chiedi cosa ne è stato di quell’amore.
L’acqua della spada ha tinto il fiume di rosso e il canto dell’usignolo sulla riva
ha dato vita alle leggende popolari. Secoli oscuri e brutali sono scesi
lungo i nastri bianchi e tiepidi che indietreggiano dalla tua schiena, tra l’età del ferro
e quella del niente in cui ci ritroviamo fra i viventi. Gloria alla tua carne
come sempre, amica mia, ma non chiedermi quell’amore che è stato. Da allora,
un secolo è passato e nessuno ha veramente compreso che è tremendo desiderare
senza possedere, ma più tremendo ancora è possedere senza desiderare.
IV
Il polline si raduna negli angoli del terrazzo, ma noi non sappiamo dei notturni
e del vento che trasporta e feconda, della clessidra sotto cui scorrono le mani.
Raccogliamo all’alba il frutto, ne assaggiamo la sua diaspora senza sapere
delle trasformazioni silenziose. Ogni storia racchiude nei suoi specchi una memoria,
la mia Atlantide che ritrovo nel vasto mare dei tuoi sogni è una terra che risplende
fra il documentario e il mito. Per tutta la notte ti ho cercato perché hai pianto,
so che stai piangendo perché ti vedo, basta guardarmi nello specchio
per comprendere che hai pianto, proprio ora che inizia la mobilitazione
di ragione e forza, giustificare il nuovo ordine, comprenderlo o forse viverlo,
esserne il cambiamento? Ecco la prima domanda. Spingere il mondo
fin sulle vette per lasciarlo rotolare esausti, nel disordine, nell’incertezza,
accettare l’imprevisto come condizione, proteggersi nella marginalità
o ricercare l’applauso, osservare il paesaggio, immergersi, andare alla conquista,
rispondere: essere la chiamata stessa, o meglio scegliere il legame o la separazione?
Il risveglio è contraddizione, affermazioni del mondo che iniziano a bussare
alle porte del sonno. Forse per questo l’uomo preferisce dormire
anche quando è sveglio? Il sonno è dimenticanza, il tuo corpo, i suoi primi
movimenti, il suo distacco dall’oblio, sono una conquista quotidiana,
lontani ancora da quell’essere titubanti fra giudizio e preghiera, eroi dell’impegno
o maestri del ritiro, lontani anche dall’essere insoddisfatti, esitanti e indecisi,
a volte, indifesi, mai felici, eppure, vivi, innumerevoli voci che esultano,
soffocano, balbettano, resistono nell’ombra, dimenticando,
raramente ritrovando il paesaggio che lega i personaggi dentro un quadro,
questa musica eterna che trascina e nulla ferma, dal primo bacio
alle infinite parole che scandiscono un addio, ogni cosa, la mia sicurezza
nel saperti ora vicina, ma distante nei secoli e nella morte, è la vertigine del tempo
che oltrepassa i limiti del tempo, inizio e fine ritornano nella favola.
Io, il più mortale fra gli esseri, riporto i nostri corpi nella realtà del tatto.
Un pensiero così ampio ingombra l’aria della stanza, le circonvoluzioni
della mente non tengono conto della finitezza dell’uomo e chi ci ha destinato
a questa tortura ha un amore particolare per le contraddizioni.
V
Contraddizione è bellezza. Bellezza è il suono di ciò che sta precipitando.
Se Baudelaire scrive nei suoi diari intimistici che un poeta ha il diritto
di contraddirsi, allora la bellezza sono i sandali di Empedocle lasciati
sulla linea vertiginosa dell’Etna, l’immagine del busto di mia nonna sorretto
da papaveri con dietro il mare, quello che il mio antenato in un gesto d’amore
volle trattenere nella foto. Che la metrica dell’arabo e il sognatore degli inferi
siano le nostre parole, che il fuoco sia già la cenere del domani e il fiume
l’immagine più fedele della vita, mentre lo slip viola, delicato, che porti
amica mia lunghegambe è l’istante in cui il desiderio si confonde con la vita,
che il nostro consumato repertorio di tutti giorni abbia bisogno di includere
l’illusione e che la realtà si possa riflettere su un’altra superficie non meno reale,
fa pensare a quanto il sogno sia lo specchio della vita e l’attimo di commozione
per una nuova esperienza sia già il disperato tentativo di resistere
al tremendo e meraviglioso scorrere delle acque. Io il più mortale fra gli esseri,
conservo ogni tuo ricordo, queste nostre dolcezze, riservate l’uno all’altro
al mattino, sono le dimenticanze di un dio distratto e fuggitivo.
Torneranno vedrai, anche noi torneremo a condividere i nostri corpi
nei modi di due anonimi amanti del futuro, chissà in quale altra forma?
Forse, due civette che alla fine dell’era tecnologica si rotolano nel prato, o forse
nel dialogo fra l’ultimo sole in cima ai palazzi e quest’acqua. Dicono
che il tramonto sul mare sia sinonimo di bellezza, diffido dei giudizi dell’uomo,
eppure, vorrei essere quest’acqua, così chiara, limpida, insensibile
ai grandi mutamenti, alla metamorfosi. Se la misteriosa forma del tempo
è la musica, siamo il tentativo della materia di trasformarsi in vibrazione,
una melodia, un suono che bussa sulla soglia del niente: un nome pronunciato
in una generica conversazione in una tavolata del futuro, forse
qualche verso declamato, forse. Intanto, nello specchio d’acqua
continuano a ripetersi le nostre immagini eterne, i desideri sopravvivono,
anche le volontà si spargono come informazione, finiranno per riscrivere
sé stesse e sembra assurdo, impossibile concepire che la nostra carne
abbia la gloria dei piaceri e che il sangue non sia ancora acqua. Eppure, siamo già
i morti, la memoria del domani, quel che un giorno sarà chiamato bellezza.
VI
A breve, la membrana di luce coprirà le nostre parole con altre banalità.
Tornerà l’indifferenza dell’abito. Scompariranno le frasi che avremmo dovuto
dimenticare e che abbiamo legato alla notte, quelle che, invece, abbiamo atteso
e non sono mai arrivate, quelle pronunciate nel letto dell’amore appena varcata
la parete: «Ciao, com’è andata la giornata? Cosa hai fatto oggi?»
o quelle più stupide «ho voglia di sporcarmi». Ogni cosa verrà sostituita
da qualche slogan alla ricerca di applauso o la scritta nel bagno di un treno
diretto a Padova. Esistono vicoli, scalinate, marmo su cui ti sei seduto,
dove hai baciato altre labbra e più sotto, in penombra, movimenti tellurici
hanno trovato il pane su cui appoggiare la guancia. Esistono città
dove non potrai fare ritorno, nostra povera vita, esiliata dai luoghi
che ci hanno visti felici. Io il più mortale fra gli esseri, seduto sulla riva,
vorrei continuare a osservare questa trasparenza, l’azzurro, il verde, l’orizzonte,
il paesaggio: quell’appagamento quando per un’istante sono riuscito
a proteggere qualcuno, è bellissimo, voglio continuare a osservare quest’acqua
che tutto trasporta e nulla ferma, mio padre insieme alle grandi masse
che scendono con un rumore di ossa spezzate e gli amici, i miei amici,
gli insegnanti, i maestri, ciascuno aggrappato a una piccola verità, nell’esultanza
di una piccola lotta, restare a galla, restare… arginare per quel poco che si può
la corrente, il nostro personale dizionario costruito giorno dopo giorno,
migliaia di parole con cui abbiamo nominato, chiamato sentimenti, cose, volti
e azioni, tutto è già memoria che discende, commistione di morti con i vivi,
e fra tutti, sostenuto a un frammento di navigazione distrutta, ritrovo
anche me. Io chi sono? Il ragazzo vissuto nell’idillio orientale, una casa,
sei anime nascoste da una piccola foresta, quello a cui, anni dopo,
è stato tolto un figlio per eccesso di religione e sangue, o quell’altro
che si trascina nella gabbia del silenzio, fra l’ironia e il disincanto di un salotto
in quest’altro emisfero del mondo? Io chi sono? Tu chi sei?
Se solo noi dedicassimo un istante alle oscure prove dell’errare umano.
Se udissimo per un solo istante nell’immaginazione la profonda testimonianza
che ciascuno lascia andandosene, delle voci dei morti che nessun’arroganza
può azzittire, dove finirebbero il male e la sofferenza, l’inimicizia
nelle strade dell’uomo e l’ingiustizia… se solo noi comprendessimo che dietro un volto
c’è sempre un altro, che dietro un atrio c’è una casa abitata, delle voci amiche,
della musica e l’odore del cibo appena sfornato, ma ogni volta che provi
ad entrare dietro una porta ce ne sempre un’altra e poi non c’è niente, dio mio,
niente se non un altro cancello, un’altra porta e ogni volta la stessa scritta: «Morirai
nell’attesa di una risposta mancata, l’ultima cosa che sentirai sarà la sete.»