Non capita spesso di leggere un’opera pregevole per profondità di pensiero e sapienza compositiva come Il numero completo dei giorni di Giovanna Rosadini, un testo capace di coniugare la vocazione estremamente dotta della sua ispirazione ai toni familiari in cui essa viene declinata. Il libro ripercorre l’elenco delle parashot, ovvero lo schema annuale di letture pubbliche della Torah compiute settimanalmente dagli ebrei durante la celebrazione dello shabbat. A ciascuna parashah corrispondono uno o più testi, in cui l’autrice reinterpreta in maniera personale l’esperienza biblica del popolo eletto.
Così come la Sacra Scrittura, il testo della Rosadini è un libro di storia e di geografia, una sorta di diario di viaggio, il cui il Lech-Lechà – l’invito alla partenza rivolto ad Abramo dall’Onnipotente («Il Signore disse ad Abramo: «Va’ via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va’ nel paese che io ti mostrerò») – si configura come fato ineludibile, arcana necessità per chi ha compreso che conoscere significa in primo luogo ri-conoscere, gustare la dolcezza di una seconda possibilità che può essere ottenuta solamente accettando di abbandonare le proprie certezze: «Non sappiamo / quanto lungo il tempo dell’abbandono, quale / precisamente sarà l’arrivo, se mai ad uno / giungeremo. Conosciamo solo la necessità. // Saremo noi, se ci sapremo riconoscere, / la terra promessa».
Ma più che un libro di partenze, quello di Rosadini è un libro che ha cari i ritorni, che ama gli approdi, gli atterraggi, l’attimo in cui le indistinte nebulose delle altezze riacquistano i contorni e la fisionomia delle cose reali, e l’esperienza speculativa della conoscenza torna a incardinarsi in una dimensione domestica, legata agli affetti, alla quotidianità: «Sentiamo la discesa / nella gola, a onde, totalmente affidati / a un istinto di riconoscimento: ed ecco, / questa nebbia, è casa, questo fluttuare / prefigurando l’arrivo, ricolmi di tutto ciò / che abbiamo lasciato, partendo, vivo».
È il percorso paradigmatico della parola (indagato con accuratezza nella sezione Toledòth), che nasce come astrazione, ma che – per non rimanere pura forma, fragile simulacro destinato alla corruzione e alla vacuità – è destinata a prendere corpo e sostanza nell’esperienza: «Nulla sono le parole disincarnate, / ombre rigirate nella mente, volubili / spire di fumo sopra le ceneri dei sensi / inerti, le sagome pietrificate dei legni / combusti che si sbricioleranno al primo / tocco. Farne linfa e sangue, vividi / spessori, benedizioni / per i propri cari».
I versi di Giovanna Rosadini non corrono certamente questo rischio. In Nòach, la potente allegoria del diluvio abbandona il simbolismo cosmico del testo sacro e si connota di una mestizia tutta privata, che conserva i colori cupi dell’originale, ma li rinnova calandoli in una dimensione familiare, intima, riservata: «Sono stati giorni stranieri e scuri sotto / un cielo basso e compatto, imbarcati nei primi / abiti pesanti, a strati, argini controvento / sferzati da gocce pesanti più di lacrime / ancora non versate».
Il racconto della fine delle intemperie e del ritorno della quiete perde l’enfatica asciuttezza del Genesi («e la colomba tornò a lui sul far della sera; ecco, essa aveva nel becco un ramoscello di ulivo. Noè comprese che le acque si erano ritirate dalla terra») e acquista dinamismo nella colloquialità della toponomastica, mentre il simbolo solenne della colomba acquista le fattezze aggraziate di una cameriera: «Poi un diner anonimo, in cima / alla Madison – prima terraferma su cui posiamo, / il grigiore pesante che va dissipandosi verso / una nuova luce affacciata intorno all’orizzonte – / e questa bianca, alata cameriera porta il dolce / che hai ordinato, ramoscello riaffiorato…».
L’ispirazione dotta della raccolta, al limite dell’erudizione, non pregiudica la fruibilità del testo: Rosadini non si accontenta di esporre un pensiero complesso, ma tenta sempre di farlo restituendo al lettore l’immediatezza della sensazione che ha innescato il processo razionale. E lo fa dimostrando una padronanza rara degli strumenti poetici, una versificazione dinamica, mai banale, che spiazza continuamente le attese del lettore, uno schema accentuativo che evoca e rinnega i metri tradizionali, con rime quasi sempre interne, una sintassi rigorosa il cui ritmo corre spesso parallelo rispetto a quello dei versi, in modo da sottolinearlo e impreziosirlo. Un libro molto bello. Consigliato.
(da Giovanna Rosadini, Il numero completo dei giorni, Nino Aragno Editore, 2014)
Tabernacolo
Fiordo aperto al silenzio,
terminazione nervosa dell’intero
continente. Ascolta il profondo
delle acque, distese alla luce,
al gravido mistero inabissato
e nero. Qui si incontrano
mondi, e la lingua gelata dei ghiacciai
conserva alfabeti scintillanti,
e calchi di parole pronti a sciogliersi
a un nuovo sole.
*
Nell’anno bisestile
La neve sgocciola giù dai tetti, cade
a piccoli tocchi dai rami, gli alberi
sgravati rialzano la testa, si rimettono
in piedi. Le strade ritrovano i colori
spenti dell’inverno, i rumori si allargano
di nuovo fra le case. Si scioglie l’assedio
del freddo, un’aria più tenue passa
sulla pelle, gonfia il torace. Poter dire
la luce del mezzogiorno, nordica e tersa
sopra la città riaperta al cielo, ovunque
nel palpito diffuso e senza ombre, senza
nubi. Potersi muovere sincroni a questo
disgelo, nei passi slacciati.
…………………Potersi affidare.
*
Figura
Relitti abbandonati alla risacca, fossili sputati dall’abisso
stiamo su questa spiaggia come dentro l’eternità
culla di venti, cortina di sale che ci fa
invisibili
calcificati sui sassi tiepidi, offerti all’azzurro semicerchio
graffiato da segni che non interpretiamo
occhi negli occhi col chiarore più sfocato e fondo
vetrini colorati sgranano il bagnasciuga, collane
scivolate nelle vene, rianimate
la lingua instancabile del mare ci riempie le orecchie
con la sua trasparenza.
Immagine: Opera di Riccardo Varini.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).