«Il guindolo del Tempo». Montale, Clizia e il pegno

da | Giu 30, 2017

Il brano che segue è il capitolo conclusivo del saggio di Marco Sonzogni «Il guindolo del Tempo». Montale, Clizia e il pegno (Milano, Archinto, 2017).

e nuovi anelli
la seguono, più mobili di quelli
delle tue dita.
Nuove stanze

Tornai col gruppo visitando tombe
di Lucumoni
Dopo una fuga

All’interno della scatola di cartone, custodita in un «mini-sarcofago» (un porta gioielli, verosimilmente) di finto-marmo rosa, scheggiato in più punti, riposa una «statuetta» di colore scuro, verde-grigio, e di piccole dimensioni (3 cm di lunghezza; 2 cm di larghezza). Su un pezzettino di carta, scritte a penna nell’inconfondibile grafia di «I.B.», queste poche parole di spiegazione:

Etruscan
Amulet
from E.M.
to I.B.
il pegno

Montale ha dunque scelto un amuleto etrusco come pegno per Clizia. Per quanto danneggiata – le braccia, aperte come ad impugnare qualcosa (egida e lancia?), e le gambe, leggermente divaricate e poi fuse insieme, sono monche; sulla testa sembra esserci qualcosa (elmo?) – rivela fattezze femminili: si intravedono i seni. Un bronzetto di Menrva, denominazione della dea della saggezza, della guerra, dell’arte nella mitologia etrusca?
Le indagini – intense, interdisciplinari, iconografiche – illudono ma non portano conferma alcuna. Le analisi di laboratorio una conferma la danno. In una lingua di monosillabi – Cu (rame), Fe (ferro), Ca (calcio), Sn (stagno), K (potassio), Cl (cloro), Mg (magnesio), Al (alluminio), Si (silicio) – comunicano che l’oggetto in questione, coperto dalle metastasi dell’ossidazione, è di bronzo.
Quando la speranza di chiarire l’identità, la provenienza e la funzione di questo piccolo oggetto montaliano sembra essersi definitivamente esaurita, l’ennesimo sforzo conduce a un altro progetto di ricerca archeologica dedicato al recupero della «musica perduta degli etruschi». Questa nota letteraria deve a quelle note musicali la propria intonazione: a giro di email e di verifiche bibliografiche il cerchio si chiude. A volte è proprio vero che «tutto comincia quando tutto pare incarbonirsi».
L’oggetto in questione è un pendaglio in bronzo a forma di figura umana stilizzata che veniva utilizzato come strumento da toeletta: un cosiddetto «nettaunghie». Un esemplare «esumato» dalla necropoli di Novilara, nei pressi di Pesaro, e pertinente a una popolazione vissuta tra Etruschi e Piceni, ne dà puntuale riscontro. Il volume La civiltà picena nelle Marche. Studi in onore di Gio­vanni Annibaldi (1992) contiene un contributo firmato da Gino Vinicio Gentili e intitolato «Verucchio e Novi­lara: scambi culturali» (pp. 49-59). La figura n. 3 (p. 53) riproduce una serie di nettaunghie: il terzo da sinistra è praticamente identico all’oggetto inviato da Montale a Clizia, come dimostra anche la sovrapposizione. La bibliografia del saggio di Gentili, con un salto all’indietro di quasi un secolo, rimanda allo studio dove per la prima volta si dà conto di questo tipo di artefatto. Nel quinto volume di Monumenti Antichi – pubblicato sotto l’egida della Real Casa e della Real Accademia dei Lincei e impreziosito da 14 illustrazioni e 136 incisioni (1895) – c’è, a cura di Edoardo Brizio, una lunga e dettagliata sezione dedicata a questa necropoli: «Necropoli di Novi­lara» (pp. 85-438). La figura 69 (p. 276), nella colonna di destra della pagina, riproduce in scala 1:1 un nettaunghie, ed è accompagnata da questa spiegazione:

Ma i più numerosi fra questi pendagli sono sempre i nettaunghie, di cui le antiche donne facevano un vero sfoggio, trovandosi talvolta in numero di tre e quattro assieme nella medesima tomba.
Anzi la tomba 100 ne conteneva otto, ognuno sospeso a una propria catenella.
Questi nettaunghie, la cui punta è sempre bipartita, sono sormontati ora da semplice anello, ora da capocchia sferica (tipo tavola X, 22), talvolta da quattro pallottoline sferiche appaiate (tavola XIV, 22), ma più spesso da una figura femminile nuda, con braccia aperte, ed avente in ciascuna mano un oggetto sferico, forse un pomo (tav. XI, 3).
L’esemplare più insigne di questo ultimo tipo viene fornito dalla tomba 58. In esso la figurina femminile non soltanto tiene in ciascuna mano l’oggetto sferico, ma è circondata presso le cosce da due colombe, una per parte, mentre altre due libransi al di sopra della testa presso l’anello (fig. 69). Non vi è dubbio che in questa figura femminile dobbiamo riconoscere Venere, secondo una concezione fenicia, perché involontariamente ci ricordiamo delle immagini nude di Afrodite su foglia d’oro trovate dallo Schliemann a Micene. In esse la dea è rappresentata similmente nuda, con ambo le mani al seno e sormontate la testa e le spalle ora da una ora da tre colombe.

Questo tipo di pendaglio appartiene alla facies orientalizzante d’Etruria: in termini di cronologia assoluta, dunque, va riportato con tutta probabilità alla prima metà del VII secolo a.C.
La nudità della figura femminile – una presenza che lo decora e lo caratterizza – richiama la deposizione nella tomba: questi oggetti, infatti, facevano parte dei corredi funebri che accompagnavano la sepoltura del defunto. Trattandosi di uno strumento d’uso, non può essere considerato un amuleto. Le intenzioni di Montale, tuttavia, non sono prive di giustificazione: la sfera semantica evocata dalla forma di questo oggetto è quella della riproduzione e della fertilità femminile, correlate a quella della rinascita e della continuità della vita oltre la morte. L’alto e femmineo gradiente simbolico di questo nettaunghie è evidente. Non è motivo di sorpresa che Montale – venuto al corrente, in un modo o in un altro, di tali valori e valenze – abbia scelto questo oggetto come pegno per Clizia: da subito («I can’t help thinking of you everywhere», 2 agosto 1933) e fino alla fine («you are still my Goddess, | my divinity», giugno 1981) divina e salvifica messaggera.
Alcuni aspetti, tuttavia, restano irrisolti. Come è arrivato questo oggetto, e in quale stato di conservazione, nelle mani di Montale?
Sulla base delle lettere a Clizia («if the seller outlive these times»; «ho dimenticato l’indirizzo del venditore»; «esiste ancora un venditore di amuleti»), sembra plausibile che Montale lo abbia acquistato da un venditore fiorentino: in città, in quegli anni, non mancavano certo negozi di oggettistica varia («si sono chiuse le vetrine, povere | e inoffensive benché armate anch’esse | di cannoni e giocattoli di guerra»), tra cui reperti archeologici provenienti da scavi non lontani. Nella settima sezione di una poesia di Satura, Dopo una fuga – alcuni senhal richiamano Clizia: «Hovercraft e Hydrofoil», «un buon topo d’acqua»; Shakespeare («re Lear e Cordelia») – Montale ricorda una visita a non lontane necropoli etrusche («Tornai col gruppo visitando tombe | di Lucu­moni»). E tra le poesie di Altri versi, una, intitolata Luni e altro e datata 1938, si apre con una sosta «all’ombra di alcune rovine» durante un giro in macchina nella valle tra Liguria e Toscana che prende il nome dall’antica città romana di Luni, alla foce del fiume Magra, ricordata anche da Dante («se novella vera | di Val di Magra o di parte vicina, | sai, dillo a me, che già grande là era», Purg. VIII 115-117).
Inoltre, dal momento che Brandeis definisce esplicitamente l’oggetto come amuleto etrusco, è legittimo desumere che sia stato Montale, inviandoglielo, a chiamarlo così. E allora, in questo caso, è così che lo ha chiamato anche chi a Montale lo ha venduto o procurato – facendo magari credere al poeta, per qualche soldo in più, che si trattasse di un amuleto anziché di un nettaunghie? O invece Montale, messo al corrente della funzione dell’oggetto, e pensando alle dita di Clizia («e nuovi anelli | la seguono, più mobili di quelli | delle tue dita», Nuove stanze), lo sceglie sua sponte, facendone un amuleto?
Tenendo, come estremi per l’arrivo oltreoceano di quest’oggetto, il 19 febbraio 1934 («Mi hanno detto che esiste ancora un venditore di amuleti e ne farò ricerca subito, sperando di trovarne uno che metta in fuga il gangster») e il 29 luglio 1935 («I hope my amuleto will not drop in the Hudson»), sia la stesura di Dora Markus (dove il poeta parla di «lima» per le unghie) sia quella di Nuove Stanze (dove sono nominate le dita di Clizia) sono posteriori all’invio dell’amuleto etrusco. Lo stesso vale, come ricordato, per Palio: oltre alle «insegne di Lio­corno» Montale allude a un «sigillo imperioso» che credeva «smarrito», ma nell’indice delle Occasioni questa poesia è datata 1939.
Per quanto riguarda le unghie, nella poesia di Mon­tale ce ne sono poche ma la prima occorrenza si trova in un mottetto, quello che nelle Occasioni apre la serie: Lo sai: debbo riperderti e non posso. La prospettiva certa e imminente di un’altra separazione («l’inferno è certo») «strazia» Montale «com’unghia i vetri». Strazio acuito dal «ronzìo lungo» che «viene dall’aperto»: si tratta di una premonizione della guerra oppure si può cogliere un riferimento alla Mosca, alla sua interferenza nel rapporto tra Clizia e Montale («Lei, dal momento in cui seppe di me e della nostra intenzione di sposarci, fu implacabile» scrive Brandeis nell’agosto del 1979)? In una celebre poesia della Bufera e altro, intitolata Gli orecchini e pubblicata nel 1940, si trova un verso molto simile: «Ronzano èlitre fuori, ronza il folle | mortorio e sa che due vite non contano». Nella lettera a Guarnieri del 29 novembre 1965, Montale spiega che le èlitre «sono gli aerei di guerra visti come funesti insetti» e che «due vite» significa «la tua e la mia ma anche in generale»: nel frattempo, infatti, la piega antisemita del governo fascista è diventata realtà, Clizia è tornata negli Stati Uniti a tempo indeterminato («Il personaggio è tanto assente da sembrar quasi morto»), la possibilità di un futuro con lei è definitivamente tramontata, Montale è andato a vivere con la Mosca, ed è scoppiata la seconda guerra mondiale. Non si può dire che l’amuleto etrusco abbia funzionato… In ogni caso, tornando al mottetto in questione, Montale dice di essere alla ricerca del «segno smarrito», del «pegno solo» avuto «in grazia» dalla donna – con l’intento, forse, di reciprocare? L’indice delle Occasioni reca una data per una volta favorevole: 1934, anno in cui il mottetto è pubblicato in rivista (con altri due) sul numero della «Gazzetta del Popolo» di Torino del 5 dicembre.
In una poesia scritta nel 1972, intitolata Tra chiaro e oscuro e inclusa nel libro che esce l’anno seguente (Diario del ’71 e del ’72), Montale riflette sul «velo sottile» che separa chiarità e oscurità («tendono alla chiarità le cose oscure», aveva scritto mezzo secolo prima in Portami il girasole), su come la mente umana faccia «corporeo anche il nulla», sulla «furiosa passione per il tangibile»: che non risiede in ciò che è grande («elefantiaco, mostruoso») ma nel piccolo («minugia»). La «prova che siamo polvere | e torneremo polvere» si trova in «quello che ci resta sotto le unghie | anche se usciamo appena dalla manicure»: «polvere di vita, il meglio e il tutto». Una spiegazione fisica e insieme metafisica che avrebbe nel nettaunghie etrusco un correlativo oggettivo assolutamente perfetto. Ma tant’è. E poi, forse, non è così indispensabile trovare una spiegazione o una risposta a tutto: bastino le intenzioni di Montale e la verità della sua poesia.
Una risposta, tuttavia, mi pare necessario darla. Sul «Domenicale» del «Sole 24 Ore» del 22 aprile 2012, Vincenzo Campo firma un pezzo intitolato E sulla scrivania amori e lavori in cui si parla degli oggetti finiti per una ragione o per l’altra sulla scrivania di scrittori. Sfi­lano il sasso rotondo di Ardengo Soffici e il piccolo elefante di Giovanni Papini; la testa in gesso (ricoperta da un velo) di Eleonora Duse in casa di Gabriele D’An­nunzio e le riproduzioni in bronzo, a uso fermacarte, della mano della duchessa Dina di Sordevolo in quella di Giovanni Verga; e poi ancora il pacco di licheni di Camillo Sarbaro e il pezzo di filo spinato conservato da Primo Levi. Toccando anche la questione dell’oggetto che Montale dice di volere inviare a Clizia («Mon­tale aveva promesso a Irma Brandeis un amuleto che la donna avrebbe dovuto portare sempre con sé, un oggetto simbolo che in forme diverse ritorna più volte nelle descrizioni delle scrivanie»), Campo conclude che «la sola Brandeis non ha l’amuleto più volte promesso: “L’amu­leto non l’ho potuto per ora trovare; il venditore è fallito” le scrive Montale il 27 dicembre 1933, mercoledì. Neanche il più efficace dei talismani salva dalla confusione». A un lustro di distanza si può dire con certezza che Eugenio ha mantenuto la parola e ha mandato a Irma qualcosa di più di un amuleto: «il pegno» – after all.

Giusto era il segno: chi l’ha ravvisato
non può fallire nel ritrovarti
Piccolo testamento

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).