“Il cielo era già in noi” raccoglie alcuni tra gli ultimi lavori di Franco Ferrara (1935-2014), autore poliedrico attivo soprattutto tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, ma ai margini del campo della letteratura, di cui questa edizione, appena uscita per Argolibri, intende riscoprire il valore. A cura di Gianluca Armaroli, Domenico Brancale e Giorgiomaria Cornelio, e con uno scritto di Rubina Giorgi, il volume presenta tre raccolte: “La trasgressione del silenzio” (1984), “Imzad” (1987-1988) e “Questo intendevo dire” (1988-1990). Pubblichiamo in anteprima due estratti. Non è stato possibile rispettare sempre la grafia dell’originale, ci scusiamo e rimandiamo all’edizione cartacea.
DA “IMŻAD” (1987-1988)
Chi eravamo, amore
prima di scendere nel tempo dei nostri corpi?
Chi ha detto che il tempo abbraccia qualcosa d’inferiore
a ciò che siamo in grado di sognare
e di essere?
Quale il segreto di questo nostro universo
che appare, scompare
e ritorna nel cielo esterno delle stagioni?
Di questo sogno in me antichissimo e tuttora nascente,
domato
al morso della discrezione,
confuso come rose di sabbia nella duna
della mia fronte
e come il vento del deserto, caparbio, ritornante
rinnovato?
Cosa trattiene le sartìe del tempo
che appena ieri salpava i mulini del mezzogiorno
e apriva le labbra a un dio sorpreso di riconoscere
i suoi flauti nel fogliame del mio canto?
Questa spola di silenzio che come onda
all’ordìto la trama conduce,
e ciò che era, annoda a ciò che diviene,
e tornerà ad essere?
E questa falla del tempo che si smaglia in esilio
ma non ci estranea;
questo silenzio che preme e fende
di là dallo specchio del tempo
per ciò che in sé non è silenzio?
Perché il silenzio è l’altrove del tempo;
perché silenzio è ovunque tu sia fuori del tempo;
perché ciò che guardi e sogni o calpesti
non è abitato dal silenzio;
ciò che non dici è senza voce
ma è sottratto al silenzio.
Perché l’invisibile fiume che è dentro il silenzio
riconcilia il tuo al mio tempo
e imperla l’attimo errante di questo vento
in un identico tempo.
Perché ora, puoi attraversarmi, amore
con la parola del tuo silenzio
e chiedermi il senso reale della mia trasgressione
e il portolano della mia fronte;
puoi chiedermi l’espansione delle cose non dette
e di quelle che possono essere dette
solo al di fuori della parola.
Puoi chiedermi di chiudere le labbra in un oceano di silenzio
in devozione del tuo silenzio.
Puoi chiedermi della presenza nell’impermanenza
del moto nella stasi
della grazia nel danno;
del tempo della fine e della curvatura del tempo
che riconduce alle acque di ogni inizio;
del tempo necessario affinché il tempo della spina
sia ricongiunto al tempo della rosa.
Puoi interrogarmi sull’erba cresciuta nelle macerie
della mia mano
e sulle gèsta che il tempo ha segnato
coi suoi codici di bronzo
negli incunaboli della mia anima.
Puoi interrogarmi, amore
sulle liane marcite ai confini del sole,
sugli aromi stellari della Gran Croce del Sud
che le mie unghie ancora trattengono,
sulla mia foglia caduta
che era un dio;
sul linguaggio del tuono e degli uccelli.
Puoi interrogarmi sull’allodola, la rosa, il tasso, il delfino
la betulla;
su storie d’orzo e di fiele,
cànoni, sentenze, medaglieri di vento,
rògiti d’anima, labirinti di salamandre, forche,
cormorani, mangiatori di farfalle
e di fango,
città di sèsamo, di sabbia
e di perle.
Puoi chiedermi
del suono che è oltre la radice di ogni suono;
del ramo all’interno di ogni ramo
e che nutrendosi del proprio verde
si trasforma in sangue;
della carne morsa dal lampo
che si fa rugiada;
dell’attimo immobile sulla scacchiera del tempo.
Puoi interrogarmi, amore
su quanta sabbia
e massi, ghiaie, naufragi, diserzioni
detrìti
ha sospinto il fiume di questa fronte.
Puoi rovesciare, se vuoi, queste bisacce dove conservo
stemmi, calici, vetrate
pellami d’antiche cacce, maschere
lance di narvalo, meduse, scorpioni, sfingi
stivali incrostati d’alba
banconote fuoricorso.
Se non ti devasta il tempo che non è il tempo
squarcia la creta che lega a questo volto
il cinabro della mia anima;
moltiplica gli anelli che ne incoronano il tronco
al profilo nomade di queste sabbie,
e il tempo
tornerà a ricacciarsi in bocca la coda
rigenerandomi;
perché non c’è tempo
dove c’è coscienza infinita del tempo.
Se vuoi, amore
puoi interrogare i rami della mia mano
e potrò mostrarti la polvere che era il mio braccio,
il gabbiano, la rosa, la betulla
— e in queste sabbie —
indicarti il mio vento attraversato
dai tuoi pollini
e la mia polvere confusa
alla tua polvere.
Perché tu eri la rosa, il melograno, l’allodola, la felce
il giunco, il quadrifoglio azzurro
al largo del sogno di Dio;
io il sogno della duna
tu l’onda
che profuma di ombra in ombra
l’arsa ricaduta delle sabbie;
tu la farfalla
io la betulla dove posavi il tuo volo;
tu il cuore della palma
io il tronco che proteggeva il tuo cuore;
tu il fuoco che accendeva le mie ali
ridonandomi il volo
prima che le mie pupille guardassero attraverso
il cigno della tua fronte
e la tua anima occupasse ogni spazio
della mia anima.
Potrei mostrarti la sabbia sospinta dai fiumi
di questa fronte
e la somma di tanta vita
accumulata solo per rendere riconoscibile
la vita a se stessa
e ritrovarti.
*
DA “QUESTO INTENDEVO DIRE” (1989-1990)
Le nostre stagioni hanno moto diverso dalle stagioni del cielo
Seminano fuoco sulle acque
Raccolgono gelo nel disgelo
Consumano nel respiro di un lampo
Rigenerano nella memoria insonne della deriva
come una danza che sui propri passi
ritorna.
Le nostre stagioni conoscono l’ombra devastata dall’ombra
La fame saccheggiata dalla fame
La cenere dispersa nella cenere
Il sale che sbianca il labbro della ferita
e la pelle degli astri che in noi
la disputa incarna.
Le nostre stagioni furono il principio delle stagioni
E il segno, il cardine, il modello
Il nome fecondato nel suo guscio di luce
e dischiuso fra le palme del tempo
La trama probabilmente esatta che il perpetuarsi dell’erranza
trasforma in legge
e in consumazione di ogni legge
Il brivido che scorre sulle bilance di ogni assise
e secondo misura
il fiume delle cause compone
e cancella
nell’alterna discordia che il tallone del cielo
impone alla natura del fuoco
e delle acque.
Questa parte dei mondi è un luogo difficile da definire
e anche quello che a volte tentiamo di definire
è solo un modo di intendere
il luogo ove più volte ci siamo incontrati
e più volte riconosciuti
nel ricordo di quando più volte ci siamo perduti
un luogo ove il tempo riversa il fuoco dei suoi bivacchi
e il gusto di cose lontane morde l’aspide
legato al garrese dell’universo
un luogo che la pietà impersonale della morte
nutre con le sue maree fino alla gola del sogno
e l’obolo sempre rinnovato dalle grandi euforbie del sangue
sulla lingua nomade delle nostre stagioni
distende.
A volte quando la campana rintocca
si è tentati di chiudere gli occhi
e pensare che si tratti d’altro.
A volte si crede di trovare nell’attaccamento a qualcosa
una vela che il sospiro di un mare antichissimo
ha lasciato dentro di noi
un porto che al momento ci appare la vera destinazione
un sostegno indelebile
un quieto legame nell’invisibile vino
di parole che crediamo ben pronunciate
e poi ci si accorge di tracciare ombre sui muri
o rincorrere ratti in canneto
e ci si trova nella rete di un bracconiere e al margine
di parole che non parlano
di parole che non hanno direzione
di parole che pongono confini
e quel momento è solo un momento mai cominciato
un modo per assolvere la nostra insicurezza
nella docile distrazione di una pausa irreale
e masticare la vita senza ingoiarla.
[…]