Inizia oggi la nostra serie di omaggi a Patrizia Cavalli, con una lettura di una delle sue prime raccolte “Il cielo” (1981)[1] a cura di Damiano Sinfonico.
È noto che nella poesia di Patrizia Cavalli è preponderante una componente teatrale: la poesia scelta per la copertina di Poesie (1974-1992) termina dicendo: «sarebbe un pezzo / di teatro di successo»; il volume successivo si intitola Sempre aperto teatro (Einaudi, 1999) e porta in epigrafe un verso del dramma shakespeariano Troilo e Cressida; inoltre Cavalli ha tradotto Sogno di una notte d’estate di Shakespeare e Anfitrione di Molière. Oltre a una citazione dal libretto di Da Ponte Le nozze di Figaro[2], in Il cielo si riscontra un lessico che denota una posa teatrale: «recitare» e «simulare» (p. 5); «prove» (p. 14); «trucco» (p. 37); «abbellimenti» (p. 41); «fingere» (pp. 11, 23, 29, 42). Inoltre alcune poesie di due o tre versi – legate da rime baciate e rivolte a un tu, con un ritmo da canzonetta – sembrano scritte per essere recitate sulla scena: «Ti ho appena toccato e ti ho già tradito. / Non incolpare me, incolpa il mio vestito» (p. 13); «Che tu ci sia o non ci sia / ormai è la stessa cosa, / comunque sia io ho la nostalgia» (p. 20); «Quanti saluti prima di partire! / Come faccio a morire!» (p. 55); «Due ore fa mi sono innamorata. / Tremo d’amore e seguito a tremare, / ma non so bene a chi mi devo dichiarare» (p. 71).
Anche altri testi potrebbero essere destinati ad un uso teatrale: all’interno di ampie costruzioni paratattiche, alcune pause e riprese ritmano il discorso facilitando la fruizione di un potenziale monologo. Se analizziamo la poesia forse più celebre della raccolta, Adesso che il tempo sembra tutto mio, si riscontrerà un solo periodo disteso sui quindici versi, con frase principale in chiusura e sequenza di subordinate temporali introdotte dalla locuzione “Adesso che”: la lunghezza del testo è alleggerita da una costruzione modulare, per cui la serialità dei segmenti da una parte non affatica la lettura o l’ascolto, dall’altra alimenta la curiosità e l’attesa per lo scioglimento finale del testo. Che cosa accadrà dopo i tanti “adesso che”? Naturalmente, una inaspettata condizione ossimorica: alla linearità sintattica non corrisponde una consequenzialità logica, bensì un’incoerenza di fondo. L’antitesi finale, specchio delle contraddizioni dell’io, smentisce le premesse e porta luce solo sull’attimo presente.
Adesso che il tempo sembra tutto mio
e nessuno mi chiama per il pranzo e per la cena,
adesso che posso rimanere a guardare
come si scioglie una nuvola e come si scolora,
come cammina un gatto per il tetto
nel lusso immenso di una esplorazione, adesso
che ogni giorno mi aspetta
la sconfinata lunghezza di una notte
dove non c’è richiamo e non c’è più ragione
di spogliarsi in fretta per riposare dentro
l’accecante dolcezza di un corpo che mi aspetta,
adesso che il mattino non ha mai principio
e silenzioso mi lascia ai miei progetti
a tutte le cadenze della voce, adesso
vorrei improvvisamente la prigione.[3]
Oltre a quelle già evidenziate, la poesia mostra alcune altre regolarità: le dittologie sdoppiano le frasi e i complementi; un lessico ora allusivamente ora chiaramente sensuale («tutto mio», «si scioglie», «esplorazione», «spogliarsi», «dentro / l’accecante dolcezza di un corpo»); alcune trame foniche si compattano attorno ad alcune parole-chiave (la frequenza dei complementi e possessivi di prima persona; la rima «esplorazione» : «ragione» : «prigione», significativa sul piano semantico e paradigmatico; il suono /pr/ come clausola: «principio», «progetti», «prigione», disseminato anche in altre parti del testo). Tutti questi elementi legano il testo in un continuum armonico che potrebbe giovare a un’eventuale esecuzione teatrale.
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Naturalmente una funzione fondamentale è svolta dalla rima, frequente – ma con molta libertà – sia baciata sia alternata. Questo uso intensifica la misura dell’artificio e della teatralità: i testi sono sì espressione di un soggetto ripiegato su di sé, ma intenzionalmente dispiegato di fronte a un uditorio che deve saperne cogliere anche le pose e l’innaturalezza. A questo proposito appare non casuale la riflessione sulla rima che Patrizia Cavalli ha sviluppato nella sua Nota del traduttore al Sogno di una notte d’estate: la poetessa prima si domanda: «Infatti chi è che parla in rima?»[4], poi si risponde:
A parlare in rima – sempre – sono le creature del bosco (Puck e le Fate), perché spiriti fantastici, e quasi sempre gli innamorati, perché recitano le due forme estreme dell’irrealtà amorosa […]. Gli innamorati entrano ed escono dalla rima come se entrassero e uscissero da una parte. La rima li tiene nel teatrino d’amore […] La presenza della rima, quando più grande è l’esaltazione o la disperazione, rafforza l’artificio, anzi lo ratifica, producendo in chi ascolta la certezza della commedia: indica l’eccesso e allo stesso tempo lo contiene.[5]
Non meno centrale dell’artificio, prosegue Cavalli, è la funzione rassicurante svolta dalla rima:
Con la rima baciata […] il discorso, con le sue eventuali complessità, viene regolarmente e a breve termine riacciuffato e messo al sicuro dalla comune desinenza sonora di parole di significato diverso. Queste rassicuranti stazioni, proprio quando il cuore dovrebbe smarrirsi, permettono al pensiero, anche il più tortuoso e terribile, di non perdersi mai. Finita la notte, fuori dal bosco, la rima non serve più.[6]
Dunque la rima impone una regolarità e un ordine al mutevole mondo dei sentimenti e delle emozioni, ma è anche segnale di uno spazio chiuso e limitato in cui questo uso ha possibilità di esistenza e viene socialmente accettato. Solo una cornice adeguata (nella commedia shakespeariana, il bosco e la notte) consente a chi parla di esprimersi in rima: al di fuori, rischia il ridicolo. Estendendo queste considerazioni a Il cielo, diventa più facile vedere nel libro lo spazio finzionale o artificiale in cui il soggetto può parlare in rima e chiudere nell’omofonia anche traiettorie zigzaganti. Forse non è un caso che la rima si trova anche nella prima e nell’ultima poesia del libro, a segnalare meglio l’ingresso e l’uscita da uno spazio in cui questo gioco formale deve essere accettato; al di fuori è il regno della prosa e della linearità, mentre il libro di poesia può ancora concedersi il lusso della circolarità, dell’incoerenza e della finzione.
[1] Patrizia Cavalli, Il cielo, Torino, Einaudi, 1981 (d’ora in poi C nelle note). Questa lettura è apparsa in forma estesa in La poesia degli anni Ottanta. Esordi e conferme, a cura di Sabrina Stroppa, Pensa Multimedia, Lecce, 2016.
[2] «E Susanna non vien!» (Lorenzo Da Ponte, Le nozze di Figaro, III, 8) chiude il testo La polvere a mezzo maggio… (C 19).
[3] C 45.
[4] Patrizia Cavalli, Nota del traduttore, in William Shakespeare, A Midsummer Night’s Dream. Sogno di una notte d’estate, a cura di Paolo Bertinetti, traduzione di Patrizia Cavalli, Torino, Einaudi, 2002, pp. 251-255: 252.
[5] Ivi, p. 253.
[6] Ibidem.