“Hotel Aster” è una narrazione per frammenti in prosa poetica, da poco uscito nella collana A27 di Amos edizioni. Pubblichiamo alcuni estratti dai primi capitoli.
Eppure non mi sembrava grave. Avevo disturbato?
Non lo credevo quando entrai in quel luogo e ancora oggi non lo credo, sebbene sia trascorso molto tempo, sebbene io abbia seguito il programma e gran parte delle persone incontrate all’epoca siano scomparse. In seguito al grande terremoto, l’asse terrestre si spostò di alcuni centimetri e molte cose cambiarono. L’Hotel Aster crollò sul lato occidentale.
Ci furono ore di stasi dopo quel grande rumore, poi tutti uscirono, lentamente, abbacinati dalla luce, e si persero nella macchia.
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Sulle strade, alla mia destra, vedevo sempre macchie di sporcizia. Tornando a casa di notte le vedevo nella direzione laterale del mio sguardo: questo mi ricordavo più tardi, muovendomi per le poche stanze per molto tempo, nel lungo tempo impossibile da narrare che intercorreva tra il mio essere coperta da vestiti e la svestizione. Guardavo il mio corpo e le espressioni in ogni superficie specchiante che li ritraesse a un mio passaggio casuale e in seguito ragionavo. Sono sola, registrata pedissequamente da un occhio esterno, estraneo, non so se di telecamera, di uomo o di padre. Ho accumulato storie, le ho sgranate: una contentezza repentina e convulsa mi coglie al pensiero del numero: non le racconterò, ma sono in grado di enumerarle.
Da qualche tempo vado raccogliendo una selezione di meraviglie: gocce di vetro soffiato turco, una fibula proveniente da una necropoli del VI secolo a.C., una gabbia per uccelli di legno, due piume, fotografie in bianco e nero di gente morta, portasigarette con iniziali incise, la zampa tagliata di un collo di volpe, caratteri tipografici in piombo, carbon fossile. Ho raccolto tutto nella mia stanza: saltuariamente la attraverso fingendo di essere un’estranea e una buona osservatrice e passo in rassegna gli oggetti per procurarmi stupore.
Tuttora ogni pomeriggio mi stendo sul letto o sul divano per traverso e con le mani mi aggrappo alla stoffa dei pantaloni o delle calze vicina all’inguine, il tessuto si tende e preme nel punto che conosco da vent’anni, quello che inizialmente faceva nascere e crescere un verme che fuggendo fuori mi dava una scossa elettrica e che adesso fa nascere un’onda calda e breve che mi conserva calma e senza testa per alcuni minuti.
Lo ripeto più di una volta.
La ripetizione è un concetto che genera sentimenti di superiorità in chi ascolta, che riterrà di aver colto l’oratore in fallo o distrazione: debolezza oppure incertezza, poca conoscenza della retorica, troppa indulgenza verso se stessi, povertà.
Io avevo sposato la ripetizione, certa che, presa in considerazione scientemente, conteggiata, avrebbe fatto affiorare le intenzioni inconsce.
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Un uomo possedeva un bel fucile con cui uccideva begli animali.
Io amavo il fucile e gli animali.
Disdegnavo l’atto che mette in relazione il primo con i secondi, ma era la natura sporca di quell’atto che mi componeva.
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Didascalie, e figurarsi sentimenti alti, avvenimenti eccelsi, cercare. Cerco come un cercatore d’oro, setaccio, ma l’esaltazione mi abbandona presto. Visualizzo una topografia costituita da paesi intermedi di colline e terrapieni e una popolazione che si dirada.