La lingua persiana è materia duttile e grammaticalmente umilissima, come l’argilla e l’acqua dell’uomo così plasmato dal Dio coranico appena prima di chiedere agli angeli — creature di luce e fuoco — di prostrarsi ai piedi di Adamo e venerare quella lordura di fango in virtù della magnifica antropologi erotica di cui si sarebbe fatto carico il punto più elevato della creazione dell’universo.
E le cinquecento canzoni di Hāfez (morto a Sciraz nel 1390) sono la perfezione architettonica della lingua persiana fatta spazio antropologico che si eleva al grado di sacralità estetica capace di rubare all’arabo il dominio coranico della inimitabilità linguistica divinamente ispirata.
La scrittura di Hāfez (da molti chiamata lisān al-ghayb, la “lingua del mistero”) racchiude in sé il miracolo linguistico delle opere umane che piegano la perfezione delle forme di natura al sublime dell’artificio, “rubando luce alle stelle con un arco di fango”. Il mistero del sublime che gravita intorno a questa perfezione non emerge mai come disegno organizzato di un tutto —Hāfez, infatti, non solo non organizzò le sue canzoni secondo uno schema progettuale organico, ma non ebbe mai neanche il tempo di raccoglierle in una forma finale compiuta—: è questa una folgorazione che si ramifica da ogni singolo verso, strutturato secondo lo schema di un frattale che ripete le forme del cosmo in ogni sua minima parte. E così come il Tutto fuori dal tempo precipita nei versi hafeziani, allo stesso modo i tempi della storia poetica, della speculazione filosofica, e quelli degli amori per i giovani ragazzi dal petto d’argento filtrano in trasparenza da ogni pagina e ripercorrono per via in parte mimetica e in parte figurata il patto che unisce i sudditi al carisma sacro dei sovrani, tramite la venerazione della bellezza umana in carne ed ossa goduta nella forma di un simulacro del Divino.
Proprio come gli antichi sovrani achemenidi nominavano le regioni dell’impero persiano come per imporre attraverso la lingua i confini del proprio dominio, Hāfez, in tutto il suo canzoniere, nomina spazi, regioni, città —il Bengala, il Golfo Persico, l’Asia centrale, l’Iraq, l’Anatolia e l’Azerbaijan—come fossero scale musicali tenute insieme dallo stesso tessuto linguistico: la lingua persiana, che in mancanza di una stabilità imperiale ha forgiato sin dal decimo secolo un universo simbolico amministrato dai poeti dei tre quarti dell’ecumene islamico.
Tradurre queste configurazioni poetiche perfette (che “ruotano come il firmamento”, come confessò estasiato Goethe nello sforzo di imitare e portare oltre se stesso il suo “gemello persiano”) implica una costante capitolazione dei propri intenti filologici e poetici: la traduzione diventa un atto di consunzione dell’originale (“le maschie parole che penetrano le vergini spose del pensiero”, secondo un trattato erotologico persiano) in cui il corpo a corpo con il testo produce materia linguistica che è costantemente altro da sé. Al traduttore esperto, infine, non interesserà tanto il pallido risultato dell’opera compiuta, quanto la vibrazione che deriva dalla contemplazione di un fulgido disegno riflesso nello specchio imperfetto di un mondo di carne invaso dall’Essere.
I.
Ieri notte ho visto gli angeli bussare alla porta della taverna
e modellavano in forma di coppa il patto umano, l’argilla [di Adamo.
Loro che puri risiedono nel santuario dell’occulto
sono scesi su questo sgraziato, per scolare con me il vino [che inebria.
Come poteva il cielo sostenere il peso della divina consegna?
Fu sulla mia follia che la scelta ricadde, per giro di sorte.
Pietà per il sangue versato dalle settantadue fedi rivelate:
non conoscono il Vero, e per questo si persero cantando le [favole.
Grazie a Dio è discesa la pace tra me e l’amore mio
e adesso i mistici danzano scambiandosi di grazia le [coppe.
Non è fuoco la fiamma che leggera aleggia sulle candele:
vero fuoco è la vampa che intera consuma la vita di falena.
Da quando del calamo fecero pettine per adornare la poesia [come chiome di sposa
come Hāfez nessuno mai seppe sciogliere il velo dal volto [del pensiero.
*
II.
1. Per un gitano bello e turbolento s’appassiona il cuore [mio:
pelle bruna, d’assassino le mani, in volto il colore degli [incanti.
2. Che vadano in offerta alla veste strappata dei volti di [luna
le mille tuniche della castità, il saio nero dell’astinenza.
3. Porterò con me nella terra il ricordo del tuo neo
perché con il tuo neo profumato d’ambra si faccia il mio [terreno.
4. Sono servo di quelle parole che attizzano dovunque il [fuoco,
non sfavilla la fiamma viva in poesia con l’acqua gelida.
5. L’Angelo non sa cosa sia l’amore, e allora tu coppiere
innalza la coppa e versa sul fango di Adamo il roseo vino.
6. Povero e distrutto sono giunto alla tua soglia per [chiedere la grazia,
perché se non il tuo affetto per me altro soccorso non [esiste.
7. Nella casa del vino ieri notte la voce occulta mi [sussurrava:
resta lì, nella stazione dell’attesa, e non fuggire dal destino.
8. Posa adesso la coppa sul mio sudario, ché all’alba del [Giudizio
io porti via dal cuore, con il vino, il terrore per la Fine dei [Tempi.
9. Non esistono cortine che separino l’amante dall’amato:
svèlati da questo sentiero, sei tu, Hāfez, il tuo stesso velo.
*
III.
Nel tempo prima dei giorni la tua bellezza irradiò gloriosa
apparve Amore all’Essere, e nell’universo il fuoco si [diffuse.
Il tuo volto scintillò quando l’angelo non sapeva cosa è [dentro amore
si fece fuoco e, per l’invidia, di fiamme investì l’uomo.
L’intelletto con quelle fiamme voleva accendere una [fiaccola
ma sfavillò il lampo di gelosia, e disordine nel mondo si [diffuse.
Il negatore anelava al luogo da cui il segreto si contempla
ma la mano dell’occulto colpì il petto di chi non ne fa [parte.
L’anima celestiale in me desiderava toccare la mela del tuo [volto
ma finì prigioniera tra i boccoli neri dei tuoi capelli.
A tutti nella ruota del destino toccò in sorte il segno della [gioia
ma fu solo il nostro cuore che vide anche l’abbraccio del [doloroso male.
Fu solo quando scolorirono per sempre le scritture del [cuore felice
che Hāfez poté scrivere il Libro esultante dell’amarti.
*
IV.
Sfavillò un astro e si volse nella luna del nostro convivio,
si volse amica e compagna del nostro cuore atterrito.
Non conosce il senso della scrittura il corpo bello che [guardo,
eppure si volse maestro di mille finezze, con un solo [sguardo.
Come la brezza, nel desiderio del suo odore il cuore [spaccato degli amanti
si volse in sacrificio del volto di gelsomino e degli occhi [come narciso.
Lascia adesso che io accolga sul trono della perdizione il [mio amico,
e guarda come si volse Principe del convivio il mendicante [del quartiere!
Volge eterno adesso il Palazzo di Gioia dell’affetto,
che si volse suo architetto l’arco degli occhi di chi amo.
Per Dio, ripulisci le labbra dallo sgocciolare del vino,
ché si volse il mio animo sedotto da mille indicibili [peccati!
Gli sguardi tuoi offrirono il rosso vino agli amanti,
e si rivolse disfatta la scienza, e si volse svanito l’intelletto.
Non lasciate che riprendano gli amici il sentiero per la [casa del vino,
ché per questa via si volse Hāfez e andò smarrito.
Sognava il miraggio dell’acqua di Vita e la coppa d’antichi [sovrani,
e si rivolse alla fonte pura del Sultano maestro di cavalli.
Per l’alchimia dei baciati dalla Fortuna, da infimo rame
si volse prezioso come oro, sì, il verso del mio canto.
Immagine: Mosaico – dagli arabeschi geometrici – del soffitto del padiglione della tomba di Hāfez (1315-1390) a Shiraz, in Iran.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).