Guinizzelli

da | Nov 1, 2023

“Guinizzelli” è il settimo capitolo della prima parte de’ “Il Gesuita” di Franco Buffoni, una bio-fiction ambientata negli anni Sessanta e costruita attraverso quadri fotografici narrativi che si sviluppano in un sottile dialogo con molta scrittura in poesia e saggistica dell’autore. Dal libro, appena uscito per FVE Editori, pubblichiamo il capitolo integralmente.

 

La Patrizia è un’altra cosa, figurarsi provare amore per lei. Solo tanta simpatia e un po’ di calore qualche volta. Alla sera nel letto da solo al buio, non esiste più la Patrizia ma nemmeno l’Alberto.
In quei momenti, dopo averlo tanto pensato ed essermi ripetuto il suo nome, va via non c’è più. L’Alberto è il viso da accarezzare e baciare, le sue mani le sue parole le labbra gli occhi. Solo baci e mani strette e amore tanto amore.
Sono le solite cose di atletica, i maschi lo spogliatoio i ragazzi coi quali a scuola neanche scambio una parola che tornano alla sera quando mi masturbo. E loro sì, si spogliano, e con loro faccio le
cose che poi si buttano via subito.
A quell’epoca Guido Guinizelli entrava nella nostra vita durante l’inverno dei sedici anni per consegnarci diciassettenni alla primavera. “Al cor gentil rempaira sempre Amore” veniva letto dopo Già mai non mi conforto di Rinaldo d’Aquino e “Disgusto del mondo di Compiuta Donzella”, e prima di “Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira” di Cavalcanti.
Il Gianni-Balestreri-Pasquali dell’editrice D’Anna (Messina-Firenze) volume I, “Dalle origini alla fine del Quattrocento”, gronda annotazioni a penna e a matita, con una bella parentesi graffa
(noi dicevamo graf) ad abbracciare la differenza tra concezione ontologica e concezione gnoseologica dell’amore, e una tonda a elencare le immagini naturali (sole fuoco selva luce pietra stella calamita) il cui continuo lampeggiare doveva colpirci in Guinizelli.
Certo, l’amore operava sull’animo come Dio per mezzo delle Intelligenze operava sui cieli, e ancor più convincentemente l’amore poneva in esercizio le disposizioni virtuose, allo stesso modo in cui l’intelligenza attiva, o Dio, attuava la potenza conoscitiva dell’uomo rappresentata dall’intelletto possibile. Si doveva ripetere tutto questo e io lo ripetevo, ma l’avrei capito solo l’anno dopo, quando la lettura del Dedalus di Joyce mi permise di cogliere il Bonum est in quod tendit appetitus tomistico nella sua accezione più tremenda e sibillina, più joyciana: appetitus stava per voglia…
Di strofa in strofa splendeva nell’intelligenza del cielo Dio creatore; ma gli attacchi più sottolineati erano quelli del fuoco d’amore che in gentil cor s’aprende e dell’amore che per tale ragione sta in cor gentile. Altri due testi portano sottolineature e spiegazioni: “I’ vo’ del ver la mia donna laudare” e “Vedut’ho la lucente stella diana”. Sonetti che non dovevano avermi particolarmente colpito perché nessun verso mi è rimasto nella memoria. Poi avviene una cosa strana nel mio libro di scuola: il quarto testo guinizelliano antologizzato – “Chi vedesse
a Lucia un var capuzzo” – non reca segni di spiegazioni o di studio; evidentemente “non era stato fatto”: forse non piaceva al professore, o non c’era stato tempo, il resto del programma incalzava, o forse era il giorno della festa degli alberi o della corsa campestre. Un verso del sonetto però è seguito da una piccola freccia che porta alla fine della pagina con il segno I (il soggetto di prima persona singolare in inglese, che allora io scrivevo all’uso antico, ricamando
quasi una chiave di violino). Il verso corrisponde all’attacco della prima terzina, dove la “voglia” è prepotentemente protagonista, il poeta confessando che tanto vorrebbe spingersi “oltra su’ grato”: al di là della possibilità di gradimento, dunque, della persona amata, e baciare la bocca e ’l bel visaggio e li occhi suoi, ch’èn fiamme di foco.
“Ah prender lei a forza” scrive Guinizelli a pagina duecentododici.
In quei mesi solevo mettere in funzione una geometria dei numeri e delle lingue per registrare segretamente ciò che a nessuno credevo di potere dire. Per ricostruirla provo a pagina trecentododici (dove trovo Dante con “A ciascun’alma presa”) e io con la stessa biro avevo scritto un mon, aggettivo possessivo francese. Manca il verbo, però ho capito: la scansione non era di cento ma di cinquanta pagine. So già che cosa troverò a pagina duecentosessantadue, la voce verbale mancante: quiero, indicativo presente prima persona. Il resto non potrà venire che alle pagine trecentosessantadue (dove trovo Liebe) e quattrocentododici dove trovo scritta in piccolo la sillaba iniziale dell’agognato nome AL.