Da poco uscito per gli Oscar Mondadori, a cura di Francesca Bernardini Napoletano, il volume che raccoglie le lettere di Giuseppe Ungaretti, dal 1909 al 1970. Pubblichiamo in anteprima la lettera numero quarantaquattro, a Giuseppe Prezzolini, scritta alle soglie della Prima Guerra Mondiale.
A GIUSEPPE PREZZOLINI
[ante 8 novembre 1914]
Caro Prezzolini,
a proposito della guerra. Da tanto tempo l’ascolto, Prezzolini, la guardo credere e dubitare, illudersi e disilludersi. Posso confidarle qualche cosa di mio. Le dico: “Sono uno smarrito”. A che gente appartengo, di dove sono? Sono senza posto nel mondo, senza prossimo. Mi chino verso qualcuno, e mi faccio male. E come fare a vivere e continuamente rinchiudersi come una tomba? Alessandria d’Egitto, Parigi, Milano, tre tappe, ventisei anni, e il cantuccio di terra per il mio riposo non me lo posso trovare. E chi è che ha vissuto con me per compatirmi? C’è stato nella mia vita Sceab. Ho incontrato Sceab, l’ho accompagnato anni dopo anni. Nulla, non abbiamo saputo mai svelarci nulla. Siamo stati insieme a scuola. C’era un professore, uno svizzero, uno scheletro rivestito d’una decrepita pelle da tamburo, che invece di farci leggere il manuale di Doumic, ci portava il “Mercure de France” che era fresco in quel tempo. C’era un professore d’inglese, invincibile giocatore di foot-ball, Mister Pickles, stretto in un giacchettino a vita, calzoni chiari appiccicati alle cosce, scarponi madornali, due tartarugoni sotto un paio di nodose pertiche.
– Inchlesi chiamare amricani “Uncle Sam”.
– Professore, gli americani chiamano gl’inglesi “John Bull”.
– Impertinente. Uscire classe. Unchretti, non toccare naso.
– Mi prude, professore.
– Impertinente. Itliani anima crande. Come dire inchlese ricattiere, mercante /
vecchio roba? Itliani piccolo azioni. Uscire classe. –
Somigliava, Mister Pickles, di fisionomia a quel Nietsche nelle “Pages choisies” dall’Albert, a quella fotografia sulla quale s’è fermata la nostra attonita adolescenza. Ammoniva Pickles Sceab: “Read Nietsche, smoke a cigarette, and after prepare you to suicide”.
Smarriti laggiù, sbalestrati a Parigi, il curdo e il lucchese nato all’etero, non ci siamo mai detti nulla. Lui discendente d’emiri, di principi di nomadi montanari, di Sceab che comandano anche oggi i curdi; la mia origine da contadini. Diversa civiltà, diversa educazione. Civiltà dei padri, educazione dei padri. E la nostra? Disorientati, noi. Disprezzava gl’indigeni d’Egitto, creduli e ipocriti, servili e brutali, si divertiva a pestare la testa ai lustrascarpe di piazza Moammed Ali.
Quei cinquanta lustrascarpe in fila davanti agli ombrelli attaccati alle poltrone per i clienti. Accoccolati a fianco della processione dei lugubri baldacchini, per ogni passante picchiavano, i lustrascarpe, successivamente, le spazzole sulle cassette. Rullo noioso della piazza Moammed Ali. Negli intervalli acace attorniate dai tavolini dei Caffè degli effendi che giocano a tricchetracche, guzzuti buzzuti, mandan fuori, tra le mosse schioccanti delle pedine, beati, nuvole di fumo di sciscia, il narghilè di cui l’acqua gorgoglia, gaudenti, sdraiati, veri mussulmani, pederasti. Sarà compiuta bene la loro giornata se a corrompere qualche ebreetto riusciranno, stasera. – La maledetta moneta – (1) Dietro ai lustrascarpe – mi lasci rivedere Alessandria d’Egitto – un’enorme vasca colmata di terriccio. Su ci hanno ammannito un giardinetto, un’enorme torta abortita. In mezzo al giardinetto, il sabato sera, la banda militare inglese suona, e vengono a sentire la “massica” gli arabi del popolo in galabia, nel loro sudice camice azzurrastro sbiadito, e portano ora di soprappiù – principio di civiltà – la giubba o il paltò alla “franghi” all’europea. Era d’un’altra razza Sceab. S’era cambiato nome. Moammed Sceab si faceva chiamare Marcel Sceab. A Parigi. Ma la sua patria non era la Francia. Quel giorno della partenza. La prima volta in viaggio verso l’Italia. Osservavamo, partendo, negretti, agili ragazzi nubiani arrampicarsi a poppa d’un incrociatore inglese, sull’aciaio che il vento non sfiorava, invadente nel mare, a distanza, scatti di pulci i nubiancini. Era privo di patria, Sceab. Thackeray, l’abbiamo letto insieme, il refrigerante Thackeray. Soffici ci ha avviato nei dedali dell’arte moderna. A Parigi, insieme. E non abbiamo mai vissuto d’una comune ansietà. Tutte le notti, ore e ore, per le vie di Parigi, sfolgoranti d’orgia d’illuminazioni, tra il fracasso, solitudine nostra, oscurità nostra, che non ci ha accomunato. La disperazione di Sceab non era la mia disperazione. Si fermava, si reggeva la testa: “Pas encore partir”: e si precipitava a tracannare il suo bicchiere d’assenzio. Più tardi: “Pas encore”. Un altro bicchiere. S’è ucciso. Sul comodino aveva posato la sigaretta. L’hanno trovato morto, vestito, steso sul letto, sereno, sorrideva. Hanno trovato la sigaretta spenta sul comodino. Aveva distrutto tutte le sue carte, manoscritti di novelle e di poesia, nel più puro francese, della più schietta invenzione. Un suo biglietto di visita ha lasciato: “Péché, la sottise…”.
Son qui, eccomi qui a Milano. Girottolo avviluppato di nebbia. Torbidità di Milano. Mi ricovero in Galleria.23 Lento viavai di braccia ciondoloni, di ciacoloni. Poi, in un ufficio di collocamento, per insegnanti e cameriere, aspetto il mio turno di registrazione tra una cuoca che puzza d’aglio e una paffuta is[ti]tutrice paonazza tedesca. Ha un cappellino di paglia nera, tese strette, di due dita, con un enorme fiocco rosa spiovente e un mazzo di rose gialle di velluto in salamelecchi. Si alza la gonnella un po’ e si compiace che le vedono i polpacci maturi che sono sugli stinchi una specie d’uova di struzzo, e dimena quel suo culone di cauciù, e rimette a posto la sua mantellina grigia rapata dall’uso che le scappa sempre dietro.
È questa la mia sorte? E chi dovrebbe accorgersi che patisco? Chi potrebbe ascoltarmi? Chi può dividere il mio patimento? Sono strani i miei discorsi. Sono un estraneo. Dappertutto. Mi distruggerò al fuoco della mia desolazione? E se la guerra mi consacrasse italiano? Il medesimo entusiasmo, i medesimi rischi, il medesimo eroismo, la medesima vittoria. Per me, per il mio caso personale, la bontà della guerra. Per tutti gli italiani, finalmente una comune passione, una comune certezza, finalmente l’unità d’Italia.
Le stringo la mano.
Suo
Giuseppe Ungaretti
121 corso Garibaldi
Milano
(1) Ce ne sono di santi, ebrei. Le narrerò un giorno di Simon Beniadà.