È da poco uscito l’Oscar Mondadori Poesie (1983-2015) di Giuseppe Conte, con introduzione di Giorgio Ficara, nota biografica e bibliografia a cura di Giulia Ricca. Di seguito una scelta di poesie e un estratto dall’introduzione. Ricordiamo la serata 1975-2015: Quarantanni di poesia italiana. Il punto che si terrà giovedì 3 dicembre 2015, alle ore 18.30, presso il Palazzo del Lavoro di Milano (Piazza IV Novembre, 5), con Giuseppe Conte, Milo De Angelis, Antonio Riccardi e Francesco Napoli.
da L’Oceano e il Ragazzo, 1983
L’ultimo aprile bianco
A Luciano Anceschi
sentire
noi pur domani tra i profumi e i venti
un riaffluir di sogni, un urger di folle
di voci…
Eugenio Montale
Interminabile era la carovana e interminabile la ricerca. Come in un miraggio le lucenti pepite d’oro erano sempre davanti a loro. Guadarono paludi velenose, perforarono montagne, attraversarono sabbie ardenti, costruirono ponti naturali e artificiali, eressero città nel giro di una notte, compressero il vapore, imbrigliarono cascate, inventarono la luce artificiale, sterminarono microbi invisibili, scoprirono come spostare merci senza toccarle né muoverle, crearono leggi e codici in tal numero che orientarsi in mezzo a loro è più difficile che per un marinaio contare le stelle. A qual fine, a qual fine? Chiedetelo all’indiano che siede e osserva, che aspetta e prega per la nostra distruzione.
Henry Miller
Aprile che ritorna e che consuma nei
giardini di ginestre e di acanti, nei
voli di passeri invisibili e nei calendari
aprile che sgretola che versa dalle tiepide
foci le nuove nuvole – sulle
sue carte antiche ridisegna
le rotte per le mille chiglie dorate – che
si posa in questa piega della cadente
Europa su scalinate bianche palmizi e acquitrini, che
mescola i ricordi e i desideri, fu detto, e dà
il mal di capo. Ma ora flotte muovono
senza aver mai toccato porti, alzano
vele galeoni volanti, non sanno che
bandiera battono: sconosciuti traversano
– non hanno più piedi del vento, degli scirocchi – le
piazze, le automobili in sosta, i palazzi in
fila le porte dei caffè aperte i pomeriggi
i volti degli uomini e cupole
grigie: i cani abbaiano dai cancelli.
Abbiamo scavato le montagne, gettato i ponti, che
cosa sarà domani di noi? Aprile sa
ritornare, ora consuma, imbeve i giorni come
l’acqua fa della sabbia morta spinge i
cespugli di margherite ad affiorare e alzare
fitte ingigantite corone, oggi le ho guardate
io che non posso più crescere, io oggi, io
sguardo, io pietra, non ancora e già pietra, che
dovrò imparare a tornare e non
sarà facile, e dovrò uccidere, forse: dovrò
non saper guardare: fluisce, distrugge e
dona il dio zoppo del sole, i suoi diadochi, i
diademi. Aprile che non è contempo-
raneo, che sulle sue carte antiche ridi-
segna le rotte per le mille chiglie di
fiori «non posso più, c’è fame
di vita, di sorrisi da spendere, di gioia»
che uccide le madri, diventano di sale e
sin dai tempi dei vulcani imperanti ruba al
seme i futuri, sa che brucia, che è lava, che
diventa il mare di meduse, io medusa, quello
prima che il mattino fosse acceso ed era
sempre il mattino, io mattino, prima che
amare fosse amare in due, amare il dio, io
dio, fare seccare gli alberi, spegnere i fischi i
flauti che si dovevano suonare e
distruggere
«E intanto i nostri desideri ci cercano
spietatamente dentro i marciapiedi affollati»
aprile lungo i fuochi del viale Sarca, di via Arbe, aprile
che è aprile, che fende sopra i
volti le labbra e le ciglia, che sgretola
che a folate fa praterie dove erano i palazzi in
fila laghi dove in montagnole si stipavano i
rifiuti, aprile che è il poema, che tradisce,
che ci dona canoe e cavalli veri
mentre si muore: che getta gli occhi sui davan-
zali: crescono improvvisi i fiori dei ciliegi, dove
l’erba è a ciuffi schiacciati e i lunghi ghiacci sono
sciolti il verde vaga come un serpente: le
labbra sono umide ora, ora le ciglia tremano,
volano e cadono gli sguardi, si seppelliscono nelle
crepe dei muri: il piacere è debole
«ora tra sconosciuti ci si potrebbe amare per le
strade, venire insieme» è perdere, è tornare dove non si
può tornare: mettere i diademi: non vo-
ler più avere né essere: è il richiamo
delle conchiglie, dei corni, delle sirene
prima del mondo: il richiamo dei gufi dal
ciuffo «hu hu, e he tha!… da vaste
lontananze tu senti il grido del papavero
selvaggio che vuole sbocciare»: il sangue: mani
tese ad attendere la pioggia sono già piogge, i
piedi alti sugli alluci fradici: non
amare, non sapere, non saper
guardare. È già aprile, ancora un aprile
bianco
I galeoni stranieri veleggiano verso queste
rive affondate dalle profezie, non
parlate: sono le pietre ad avere l’anima, le voci
di pietre d’oro, delle montagne d’oro: un
canto c’è ancora oltre il vento che
rovina tra la barriera delle palme lucide e polve-
rose: un sogno fiorisce ancora in basso dove
non si poteva credere ad altre fioriture, un
pino marittimo piegato da tempeste
arcaiche generò le albe: le albe le
danze: non parlate di questo aprile: aprile che è il
poema, che tradisce, che ci dona
canoe e cavalli veri mentre si muore:
fluisce distrugge e dona il sole, i suoi diadochi, i
diademi: io per imparare a morire: imparare a
ridere occorre ora, a distruggere, e a
tornare
***
da Le stagioni, 1988
Estate
Gli scoiattoli al Central Park
Lo dicono anche le guide turistiche
che ci sono gli scoiattoli al Central Park.
E noi ne avevamo visto uno
solo, uno magro, grigio come
un topo di città e con una piccola
coda bisunta, che restava
ai piedi di un tronco d’albero
nell’ombra, fermo come un malato,
come un sopravvissuto.
C’era sembrato anche lui derelitto
come gli uomini che seggono sui marciapiedi
al fondo di Prince Street
con accanto il sacchetto di carta
tutto pieghe intorno al collo
della bottiglia,
come i piccioni che raspano
l’erba, la fanghiglia del Battery
Park confinante con i pontili.
Non ricordo se l’avevamo festeggiato.
Il dubbio che fosse un topo non era subito
andato via: quella coda
così poco gloriosa
ti aveva insospettito,
quel pelo così poco
folto, quel fare mesto,
quello starsene solo.
Ma quest’estate, invece! Sono in volo
gli scoiattoli, da ramo a ramo, da
cespuglio a cespuglio, sui sentieri
dove qualche foglia è già
caduta, sui prati, intorno
alle panchine, a quella grata
che dà sul cortiletto delle altalene
scoiattoli dappertutto, tanti, come
neppure un bosco ne ospita.
Guardali bene:
non hai perplessità ora: fai festa
anche tu.
Sono fulvi questi, hanno il pelo
alto, crespo, pulito
e la coda, questa è una coda
di scoiattolo!
Ci tagliano la strada, ne scoppiano
certi rami di quercia,
vanno in coppia
per i tronchi, e poi
forse bisticciano, non vedi?
Piovono foglie, ghiande come
grandine al suolo.
Quando sono lassù, sembra che volino
proprio, che inseguano
la vetta di ogni ramo teso contro
l’azzurro del mattino per scomparire
ma verso
dove?
E uno di passaggio a terra
uno solo, lento, che
sentì i nostri piedi si fermò
quasi estatico, le zampe
corte e forti appena un po’
divaricate, arcuato il dorso, il capo
ancora più culminante in un nasino
nero, credo: si fermò
a guardarci: e non ci
capì, non volle
comunicarci nulla,
muto come le zolle della terra
come i raggi del sole sulle foglie.
Quanti erano quel giorno! Le folle
sulla Settima sin giù
dove incontra Broadway, imitavano
quelle?
O i frettolosi che arrivavano al Lincoln Center
in bicicletta con la borsa di libri
o ne uscivano a fumare una sigaretta
d’in piedi?
«Credilo: sono scoiattoli, non hanno
niente a che fare con noi:
né quello solitario di anni fa
né i tanti di questa
estate:
né il vecchio malinconico, né i festanti
di oggi. È bello che ci siano
loro qua, che saltino così
improvvisi: raggi del mattino
arricciati sembrano
di un sole piccolino, un gomitolo
di luce.»
***
da Dialogo del poeta e del messaggero, 1992
Vita privata
E spesso, quando si finiva di parlare
di libri e fotografia, Herlinde mi chiedeva
«com’è la tua vita privata, your private
life». Mi era sempre difficile rispondere.
Da dove cominciare? Perché non bere
ancora il vino bianco secco ghiacciato
che a lei piaceva tanto? «La mia vita
privata, deprived, senza senso, tagliata,
priva di dei e di demoni, vuoi dire,
senza sostanza e saldezza: un’ombra,
che non sa chi amare, e cosa».
Ma non mi venivano così le parole.
E ridevamo tantissimo insieme, come suole
chi non è innamorato.
*
Sulla porta
Non entravo. Sulla porta il messaggero
taceva: tendendo un braccio
– mi sembrò lungo e magro, ma non era
un’ala – mi indicava il giardino.
Tante stagioni mi era stato amico,
con i pittospori, i pini,
i cedri del Libano, i cipressi,
i geranei lungo i muri, i narcisi,
la cupola chiara degli agapanti.
Ora non più. Calmi, fluitanti
come tronchi su un fiume assiduo
gli occhi andavano al di là
di tutte quelle foglie, e quel verde
mi sembrava per la prima volta crudele
e inutile, deserto, tra il susino
fiorito appena, e gli echium, il miele
delle loro pannocchie.
*
Ufficiale di macchine
Nico me lo disse per primo, lui
dal volto di greco, lui che fu l’unico
tra noi ad avere una ragazza
di dieci anni più vecchia, ad andare
per mare in vela, a sostenere
la causa degli operai e degli anarchici.
Nico Fossati, futuro ufficiale di macchine
libero lettore di classici
ateo, amico di cui non ho mai sentito
di possedere il cuore, e che forse
per questo ho più amato, mi disse,
quando mi incontrò per strada
che uscivo appena dalla malattia,
«Ci vuole il morbo – proprio così,
mi usò questa cortese, crudele ironia –
ci vuole se devi scrivere, se la poesia
è la tua vita».
***
da Canti d’Oriente e d’Occidente, 1997
Canti di Yusuf Abdel Nur
Se Islam vuol dire sottomissione a Dio
noi tutti viviamo e moriamo nell’Islam.
J.W. Goethe, Divano occidentale-orientale
I
Si racconta che Omar ibn al-Khattab,
il secondo Califfo, raccolse un giorno
sul sentiero tra la polvere e la porpora
del tramonto un fico d’India
caduto dalla spatola verde-bruciato
della sua pianta scoscesa,
un piccolo frutto incrostato
di terriccio, calpestato dagli zoccoli
dei muli, ferito sino a mostrare
la polpa rinsecchita, ormai immangiabile.
Allora lo sollevò contro la polvere
e la porpora del sole a ponente
sinché la sua sfigurata, oblunga
sagoma non incontrò un radente
ultimo raggio. «Oh fratello, perché»
gli disse «non sono io come te
non espio questo mio vivere come te
non ritorno straziato, macerato
al niente? Vorrei essere niente
vorrei non essere stato generato
cambiare con il tuo il mio stato,
subito, senza attendere.»
XLIV
L’Occidente non più?
Ma l’Oriente è di Dio.
Del Dio delle moschee, del Dio del fuoco.
Tutto è Dio, oltre il Giordano.
Le ali, i tori, i leoni
sul piedistallo di Persepoli
i giardini, i bazar, le cupole
della città che risparmiò Tamerlano
perché vi crescevano le più belle rose
e vi stava scrivendo il suo Divano
Hafiz.
***
da Ferite e rifioriture, 2006
Il mio corpo è un operaio
Il mio corpo è un operaio, un abile
tornitore, un metalmeccanico
di quelli che lavorano
tra ciminiere altissime e tra nuvole
di fiamme e fumo, è un docker che fa muovere
i lunghi bracci delle gru
sulle banchine di un porto,
il mio corpo
è un falegname che conosce gli alberi
come figli, e li taglia
e li scorteccia e ne fa tavole.
Il mio corpo sa il lavoro
duro dell’uomo perché sa
che cos’è l’energia e cos’è il dolore –
e perché sa il lavoro d’Amore.
Il tuo corpo è un metallo
che si fa incandescente e si piega
è la brocca e la spada
è la fornace dove finalmente
tutto brucia, è il container
è il silos ricolmo sino all’orlo di grano.
Il tuo corpo è il legno
dell’ulivo e del noce
è la polpa amara delle olive
è il mirtillo che insanguina
è la tavola che invano
piallo col lavoro assiduo della mia mano.
Non sono riducibili ad uno, due corpi.
Ma quello che li separa tra loro
l’amoroso lavoro dell’uomo
lo ignora.
*
Il mio demone è un senzatetto
Il mio demone è un senzatetto
senza paura della tempesta
uno che abita la battigia
uno che abita la frontiera
uno che sulla sabbia nera
corre e fa capriole
aspettando che torni il sole.
Onde e vento lo prendono
schiume, salino, nuvole
e lui continua a correre
tra nebbie che disorientano
e fulmini che scardinano.
Se io con lui mi lamento
che sono un bronco gettato
sulla riva dalla marea
orme di cani e gabbiani
un groppo di nudi rami,
ride, mia vita, e dice:
“Tu sei quello che ami.”
***
da Inediti
3
Sono esausto, sono ferito, ma
neppure così sarà finita, mare,
te lo assicuro, per quanto potrò
scriverò ancora su di una mattina
come quella che sul parabrezza
della mia auto, fuori da un parcheggio
dell’aeroporto di Nizza,
mi sei venuto immenso in corsa incontro
solcato da soffi di vento
simile a un mantello della Vergine
dipinto da Beato Angelico e gettato
su rami di meli e ciliegi fioriti.
E scriverò di quella notte
quando tu oleoso e nero, traccheggiante
tra gru e silos, pontoni e rimorchiatori
tu mare del porto, dei lavoratori
chiuso tra muraglie di container
sezionato dai moli
hai intonato da non so che punto
di te
una musica del tutto inattesa
che evoca rovine, ranuncoli e voli
crolli immani e sciami di api
rugiada ritrovata in fondo al baratro
del nulla
quella notte sul Golfo della Spezia.
E io ti dico grazie, grazie, grazie
vita, desiderio di vita,
redenzione d’amore
che dopo la distruzione
dell’universo attraverso il fuoco
fai rinascere una primula, un croco,
bisogno irrefrenabile di sempre
nuova resurrezione,
ancora vita.
*
Mare non hai chiese
Antes que el sueño (o el terror) tejiera
Mitologías y cosmogonías,
Antes que el tiempo se acuñara en días,
El mar, el siempre mar, ya estaba y era.
J.L. Borges, El mar
Tu mare non hai chiese
non hai sacerdoti, sacramenti,
non hai preghiere, monumenti
né riti né elemosine,
e non hai mai avuto pietà.
Eppure sei sacro, divino.
Ti somigliano certe cattedrali al mattino
in Liguria, tutte riflessi azzurri
mobili per i soffi dei tuoi venti
ti somigliano le moschee
con i loro minareti e i lamenti
ondeggianti dei muezzin,
ti assomiglia Jama Masjid
dal cortile sconfinato, assolato
colore di un tappeto di alghe
e di porpora
che milioni di piedi hanno calpestato
ti assomigliano i templi dei sikh
come quello di Guru Sahib
dalle cupole d’oro, dai porticati bianchi.
Ma più di tutti ti assomigliano
i gopuram dei templi indù
con la loro rincorsa trapezoidale
verso l’alto del cielo, lo zenit,
simile alla tua rincorsa quando un temporale
un vento di libeccio o di levante
ti scuote in mille onde
che si alzano frementi.
E ti ricorda che la tua culla
fu lo spazio infinito
e ti protendi verso il nulla
che noi uomini non possiamo
reggere, mare, e non lo puoi
neppure tu
tanto che dobbiamo pregare,
insieme scalare il cielo,
credere nelle ombre
di Shiva e di Visnu.
Le donne in sari vanno e vengono
sulla Promenade e l’accendono
e io seduto da qui mare ti guardo
e mi confondo, mi perdo.
Chi sei, essere oscuro, indifferente
alla grazia, all’amore, al perdono?
Chi sono queste donne che vanno e vengono
con vesti di luce, chi sono?
Pondichery, New Delhi, dicembre 2011
***
dall’ Introduzione di Giorgio Ficara
Il poeta indigente sprovvisto d’aura e ruolo, previsto da Roland Barthes negli anni Sessanta e oggi puntualmente succeduto ai poeti laureati e professori, poi poetry readers e entertainers ai quattro angoli del mondo, non dispiacerà certo al Conte più libertario e utopista nascosto in certe pagine di questo libro. Se da una parte il mitografo e il mitologo autore di Terre del mito aborre il Novecento più spoetizzato – demitizzato – dall’altra però lo considera proprio in quanto vuoto, scomodo, desolato ma colmabile di nuovi sogni. E se il poeta moderno e strutturato di ieri (il borghese-dandy Montale, ad esempio) prestava formalmente al suo tempo una metodica e riflessiva attenzione critica, Conte, oggi poeta antimoderno e anarchico per eccellenza, vorrebbe spazzare via il nostro e sostituirlo con un tempo che non c’è ancora, una specie di età dell’oro rovesciata e nuovissima. Il suo «spirito dell’utopia» non ha nulla a che fare, cioè, con le utopie concrete né con quella speranza che sta sul fronte della storia, e pone dinnanzi a sé obiettivi conseguibili con precisione razionale, che a partire da Bloch un certo Novecento non ha mai del tutto rimosso. Per Conte, al contrario, il bisogno traumatico di altro tempo o altri tempi prevale assolutamente su una considerazione critico-progressiva della storia: «la scomparsa della poesia dalle società occidentali non testimonia una crisi della poesia quanto una patologia di quelle società stesse», leggiamo nel Manuale di poesia, del 1995. E già in Whitman (1992): «Nessuno ascolta più la voce dei poeti. […] Ehi Walt […] Ti hanno tradito, lo sai?». E poi: il Novecento è «un secolo di nulla e di morte» (Lettera, 2000); l’Europa è un continente che si perde «nel suo niente / nella sua concezione del tempo / che scende su un piano inclinato» (Mio corpo che declini, scritta nel 2001)… Colpevole dell’indigenza della poesia, dunque, è il “tempo”, non certo la poesia il cui valore e la cui essenza sono fuori discussione.
[…]
Che la poesia stessa tenti un balzo indietro, fino alle sue stesse origini, e rimanga bloccata nel nostro tempo, testimone dello spirito del nostro tempo, sembrerebbe il fatum della poesia di Conte. Conoscitore di tutte le poetiche ed estetiche novecentesche, questo poeta che dice di voler essere Anacreonte divide invece la sua pena di moderno con chi interroga la poesia stessa sulla sua attuale, tremenda debolezza. E teorizza sulla fine d’un certo mondo conosciuto e condiviso, cioè vede la visione di questa fine, nel modo che più gli è proprio.
[…]
E che la poesia, nonostante l’attuale indigenza e nullità, sia oggi più che mai il gesto politico che potrebbe salvare il mondo, mi pare l’atto di fede di Conte: i suoi libri, a partire dagli “storici” L’Oceano e il Ragazzo e Le stagioni (che immediatamente calamitarono i critici: da Bertolucci a De Angelis a Calvino a Pampaloni a Bo, Anceschi…) ne sono sostenuti e ispirati. Se poi il mondo, dopotutto, si presti a essere salvato dalla fede d’un solo homme d’esprit, o invece non resti per sempre sordo e assente, non ci è dato indovinare.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).