Un’anticipazione da Oracolo manuale per poete e poeti di Giulio Mozzi e Laura Pugno, che esce oggi per Sonzogno.
Rovescia la tua poesia.
Scambia l’inizio con la fine, e la fine con l’inizio.
Sei stato quarantaquattro minuti dallo psicanalista. Sta per arrivare il quarantacinquesimo minuto: dopodiché, grazie, arrivederci, ci vediamo mercoledì prossimo. E ti accorgi – succede sempre così, succede sempre ma ogni volta te ne accorgi solo al quarantaquattresimo minuto – che fino a quel momento hai menato il can per l’aia. Dunque: confusamente, brutalmente, cerchi di dire la cosa che hai da dire; e ti viene da dirla, perché per un momento ti sei scoperto, in un modo tale che solo dopo che l’hai detta ti rendi conto di che cosa veramente hai detto. Ma comunque è arrivato il quarantacinquesimo minuto, e: grazie, quest’ultima cosa che ha detto è molto interessante, ci ritorneremo, arrivederci a mercoledì prossimo. Mentre ti allontani dallo studio un po’ irritato, le mani in tasca, i piedi desiderosi di un sasso cui dare un calcio, formuli un piano: «La prossima seduta, la comincio dalla fine!» Fuor di metafora: prendi una tua poesia, scrivi in cima a un foglio l’ultimo verso, in basso il primo – e cerca di colmare quella distanza. «In my end is my beginning, in my beginning is my end», «Nella mia fine è il mio principio, nel mio principio è la mia fine» scriveva T.S. Eliot nei Quattro quartetti (East Coker).
Scegli un senhal.
Nascondi il nome in un altro nome.
I poeti provenzali usavano rivolgersi all’amata usando un nome d’invenzione. Non si trattava solo di discrezione – visto che l’amata di solito era dotata di un regolare coniuge –, ma anche di un’operazione poetica: dare un nome significa aggiungere significato. Questi nomi fittizi erano chiamati senhal. Per fare un esempio dei tempi nostri (o quasi): Eugenio Montale scrisse molte poesie dedicate a Irma Brandeis, studiosa americana di Dante da lui conosciuta a Firenze nel 1933, e subito amata; le diede il nome di Clizia, la ninfa innamorata del dio solare Apollo (la storia la racconta Ovidio nel quarto libro delle Metamorfosi) che, da lui abbandonata per la mortale Leucotoe, crollò nel dolore e smise di nutrirsi, restando giorni e giorni seduta, immobile, ruotando solo il capo per seguire il percorso del sole – il suo amato – dall’alba al tramonto. Apollo, commosso da tanta fedeltà, la trasformò in un fiore. Clizia non è quindi un nome neutro, un nome qualsiasi; è un nome che aggiunge significato: un senhal, appunto. Ma si può scegliere un senhal anche per nominare un concetto, una città, un sentimento, una parte di sé, al limite anche se stessi. (Per i più curiosi: no, Clizia non fu trasformata in girasole, bensì in eliotropio; il girasole è una pianta americana, arrivò in Europa nel Cinquecento.) (E per gli ancora più curiosi: no, Irma non fu poi così contenta di essere trasformata in una Clizia che, immobile, guarda girare attorno al mondo l’Eugenio-sole…)
Metti la maschera.
Fa’ parlare altre voci nella tua. Riconoscile. Rendile riconoscibili. Che tono hanno? Che lingua usano? Da dove vengono? Come pesa il loro mondo nella lingua che portano con sé?
Ci sono generi poetici che sfiorano il teatro, per esempio il contrasto, nel quale due personaggi, di solito in tono giocoso, altercano, contrattano, si fanno la corte, e così via. È un gioco interessante, e per niente facile, quello di far parlare due voci dentro la propria. Altro genere interessante è la prosopopea, ossia il monologo di un personaggio – che può essere noto solo all’autore della poesia, storico, d’invenzione, o un’astrazione come la Patria o la Virtù. Ecco un esempio giocoso, dove è in scena una Lucia Mondella piuttosto pratica e spiccia: «Ma datti su una mossa, Renzo bello, / che qui ci ho intorno questo don Rodrigo / che sarà stronzo, sì, ma è pure figo, / e non gli manca qualche quattrinello. // Tu hai la bottega, l’orto, il campicello, / ma sempre mezzo vuoto tieni il frigo: / lui non è il tipo, no, che prediligo, / però ci ha roba, tanta, e un bel castello. // Che vuoi che dica? Pagherò il balzello, / e del balzello sarò ben pagata…» (Mariella Prestante, Estremi amori, postume querele).
Cosa puoi fare, che un pittore non potrebbe fare?
Nemmeno questo è una pipa.
In un intervento nella rivista L’età del ferro, Walter Siti ha affermato: «Soltanto la letteratura, tra i vari usi della parola, può affermare una cosa e contemporaneamente negarla; perché ambigua è la nostra psiche, ambiguo il nostro corpo – le ambiguità rimosse possono portare a esiti controproducenti, a discussioni sterili. L’ambiguità, lo spessore, la polisemia fanno emergere quel che non si sa ancora.» Ma forse si può rincarare: la letteratura è la sola tra le arti che possa affermare una cosa e contemporaneamente negarla. Anche Magritte, che pure era un mago dell’ambiguità, per negare che «questo» fosse «una pipa», ha dovuto scriverlo.
Scrivi nella polvere.
Cosa scriveresti non per durare, ma per svanire?
«Gesù si avviò allora verso il monte degli Ulivi. Ma all’alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava. Allora gli scribi e i farisei gli conduono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, gli dicono: “Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?” Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. E siccome insistevano nell’interrogarlo, alzò il capo e disse loro: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei.” E chinatosi di nuovo, scriveva per terra.» Così si legge nel Vangelo attribuito all’apostolo Giovanni (8, 1-11). Che cosa avrà scritto Gesù di Nazareth, col dito nella polvere del terreno? Giovanni non lo dice. E tuttavia – anzi, proprio per questo – centinaia di esegeti si sono sbizzarriti a immaginare: scriveva i peccati degli uomini presenti? Scriveva una sentenza di condanna, per poi cancellarla? Giocava a filetto contro se stesso? Prova anche tu, di tanto in tanto, a scrivere per cancellare, a scrivere e poi gettare via, a scrivere e non far leggere a nessuno.
Immagine: John Akomfrah.