Un anno fa moriva Giovanna Bemporad (1923-2013).
Quella che segue è una sua poesia inedita, databile tra il 1943 e il 1947 (ringrazio per la gentile concessione Caterina Paoli, con cui ho curato uno speciale sulla poetessa ferrarese che uscirà sul numero di febbraio della rivista “Poesia”, con venticinque altri inediti).
Malinconia
Sempre ch’io viva a me sarà compagna
malinconia. Tu, sera, mi addolcisci,
o intatta sera, l’ultima sua fiamma.
Non più l’anima mia di sentimenti
gonfiano brune giovani cantando.
E la campana semplice che squilla
l’ora del vespro più non mi trasale.
Oh, tramontando il sole, è fatta oscura
la giovinezza: solo esce una bruna
spigolatrice, freddamente a sera.
***
Gli ultimi tempi hanno visto un’autentica riscoperta dell’opera poetica di Giovanna Bemporad. Tra il 2010 e il 2011 sono uscite due versioni (per l’Archivio Dedalus e per Luca Sossella Ed.) di un’edizione degli Esercizi (vecchi e nuovi) che – l’inedito lo testimonia – non è ancora considerabile definitiva.
S’è tornati un po’ meno a parlare della sua traduzione dell’Odissea, l’opera alla quale ha sacrificato esistenza e salute, la cui ultima ristampa risale al 2005 (Le Lettere) e riprende in sostanza l’edizione del 1992 (la seconda) sempre per la casa editrice fiorentina.
Anche quell’ultima ristampa propone una versione incompleta. Giovanna Bemporad è ormai proverbiale per il perfezionismo che non le permise di porre il sigillo ai grandi progetti della sua vita letteraria – né all’Odissea né, lo si è visto, agli Esercizi.
Nel maggio scorso sono stato ospite de «La forza della poesia», una bella manifestazione ideata e curata a Frascati dalla preziosa Novella Bellucci, specialista di studi leopardiani e docente alla Sapienza di Roma. L’edizione era dedicata a Omero, e io ci andai proprio per parlare dell’approccio bemporadiano al poema di Ulisse.
Ripropongo qui gli appunti del mio intervento, insieme all’auspicio di poter vedere un giorno riuniti – e completi – tutti i libri dell’Odissea di Giovanna Bemporad.
*
La prima cosa che mi è tornata alla mente è la presenza dell’Odissea nella sua casa. Parlo della presenza fisica, materiale, per come mi è arrivata attraverso il suo racconto.
Come oggi nelle case di molti si può trovare un televisore per stanza, o un pc un telefonino un iPad o un qualsiasi altro supporto elettronico, Giovanna in ogni stanza della sua casa aveva una copia dell’Odissea. Persino nel bagno! Era una passione totalizzante. Quando le si chiedeva perché avesse scelto di tradurre l’Odissea, perché avesse dedicato tutta la vita – e una vita non è bastata – a quel progetto, lei rispondeva sempre nello stesso modo:
«Ho scelto l’Odissea perché è “la più bella storia del mondo”, perché noi siamo, ognuno di noi è Ulisse, anche noi cerchiamo i mari ignoti (o gli spazi del cielo) e la via del ritorno, ci strappiamo dalle braccia di Circe per tornare alla nostra casa e agli affetti più cari, vogliamo spingerci oltre le colonne d’Ercole per trovare la risposta definitiva alla domanda che ci siamo posti nascendo».
I primi risultati delle sue prove di traduzione risalgono all’inizio degli anni Quaranta. Innamorata di Leopardi, si trovò a ripercorrere le sue tappe. Era precoce come lui che, a dodici anni – ricordava spesso lei –, fu traduttore del I libro dell’Odissea e del II dell’Eneide.
A quindici anni le sue versioni di Omero vennero preferite a quelle di Quasimodo e inserite in un’Antologia dell’epica adottata anche al “Galvani” di Bologna, il suo liceo. Prima di allora, a tredici anni, aveva già tradotto l’Eneide, in trentasei notti. Era un vero prodigio letterario; conosceva alla perfezione greco, latino, ebraico e sanscrito; nella Bologna colta era considerata un mito.
Proprio a Bologna ci fu l’incontro con Pasolini, che cercò Giovanna per proporle una collaborazione al “Setaccio”, la rivista da lui fondata nel 1941 sotto l’egida della Gil (Gioventù italiana del Littorio). Partecipò con poesie sue e traduzioni da Goethe, sotto lo pseudonimo di Giovanna Bembo, perché ebrea. «Lui non era ancora nessuno – disse Giovanna in un’intervista dell’agosto 1994 al Messaggero –, ma capii subito che sarebbe diventato un gigante. E che io dovevo farmi da parte. Ero più famosa di lui, ma mi sentivo sopraffatta. Se esisteva lui come poeta, non potevo più esistere io».
Pasolini segnò un punto di rottura. Lui e Giovanna avevano condiviso la passione per la poesia pura, da ragazzi; lei con gli Esercizi, lui con le Poesie a Casarsa. Poi, davanti al suo successo, soprattutto dagli anni Cinquanta in poi, con la svolta civile delle Ceneri di Gramsci, Giovanna si sentì scomparire in quanto autrice. I suoi versi «neoclassici, tutta musica e forma», diventarono una moneta fuori corso. Tradurre Omero diventò il suo rifugio e la sua «pietra tombale». Così avvenne la trasformazione, da ragazza prodigio a ragazza postuma.
Negli anni Cinquanta l’Odissea diventò l’opera della sua vita. Non se ne liberò più. Omero rappresentò il punto di partenza della sua formazione e anche il punto d’arrivo: Omero, insieme alla poesia pura dei lirici greci e a quella di Leopardi, che secondo lei poteva essere considerato proprio «l’ultimo dei greci». Successivamente attraversò altre esperienze letterarie, soffermandosi a lungo su Virgilio, da lei considerato – per converso – il primo dei poeti decadenti, e toccando via via tutte le tappe della poesia europea (i romantici tedeschi, i simbolisti francesi, ma anche il barocco e il liberty), tornando presto alla poesia da lei considerata la “più assoluta”, all’origine di tutta la letteratura occidentale, e dunque “al Libro dei Libri”, appunto l’Odissea di Omero.
Così si legge in alcune sue pagine autobiografiche:
«Omero è il punto d’arrivo della poesia occidentale. Il più grande di tutti. Tocca l’assoluto con assoluta semplicità. Omero è come Mozart. E pensare che nelle scuole l’hanno ridotto a un retore molesto. Quella di Omero – continua – è la poesia più assoluta che esista nella cultura occidentale per chi, come me, ha potuto leggerla nell’originale, senza i paludamenti delle traduzioni neoclassiche, e recuperare l’Omero arcaico e barbarico che riproduce con serenità oggettiva tutti i sentimenti dell’uomo e gli aspetti della realtà».
Queste le ragioni della sua scelta. A proposito di scelta: Enzo Paci, grande studioso e interprete di Kierkegaard, nei suoi saggi sul filosofo danese si sofferma spesso sul concetto. La scelta è intesa come istituto primario dell’essere umano, il passaggio attraverso il quale rinuncia all’infinità del possibile per la possibilità di una strada sola: sola, ma che risarcisce di tutto e ripresenta in sé, potenziata, quell’infinità. Così è stato per Giovanna Bemporad con l’Odissea.
La prima versione, incompleta, è del ’70 (Eri). Successivamente, Raffaele Mattioli, economista (Bocconi), banchiere (Banca Commerciale Italiana) e mecenate (sostenne riviste, come La Fiera Letteraria, e intellettuali, tra i quali il più celebre è Gadda, che Mattioli ospitò dopo che lo scrittore era sfollato da Firenze, bombardata nella primavera del ’44), cominciò a versarle un assegno mensile purché ultimasse la traduzione. Non la ultimò mai.
La versione più recente, definitiva ma di nuovo non completa – negli anni si sono aggiunte revisioni e ripensamenti – è quella del 1992 (la prima edizione era del 1990), poi ristampata nel 2005, sempre presso le Lettere di Firenze. Firenze: la stessa città dove nel 1360 Leonzio Pilato, sotto l’egida di Petrarca, tradusse in latino per la prima volta un po’ di Omero; e sempre a Firenze nel 1488 uscì la prima edizione a stampa di Omero, quella di Demetrio Calcòndila.
E qual è invece il modo, l’atteggiamento che ha assunto la Bemporad nel tradurre Omero? «L’arte del tradurre – si legge in un suo testo autobiografico – è un’arte quanto mai difficile [… è] una vera e propria scienza, oltre ad essere la lettura critica più diretta che si possa fare di un testo poetico».
Per Giovanna, tradurre significava imparare con umiltà la poesia dei padri. Così non ci stupiamo se i suoi Esercizi paiono il risultato di una fusione con la poesia di Omero, prima di tutto, e con quella degli autori che ha tradotto successivamente, simbolisti francesi in primis. Il suo stile di traduzione, nelle intenzioni e nei risultati, guarda sempre alla lingua d’entrata.
Giovanna faceva spesso riferimento alla tesi crociana «secondo la quale la traduzione è reinvenzione del testo non essendo possibile riprodurre in un’altra lingua, cioè in una diversa organizzazione formale, lo stesso contenuto intuitivo». Partendo da questa tesi scelse la via della tradizione filologica, umanistica, secondo la quale esiste la possibilità di una traduzione univoca, di una resa felice, il più possibile perfetta, che va scoperta fra diverse varianti concepite come approssimazioni. Cioè si tratta di trovare di volta in volta l’equivalente esatto dell’originale nella propria lingua. E di approssimazione in approssimazione si è mossa durante la sua vita, ponendosi
nel solco di un limite che per sua natura tende ad abbracciare la perfezione senza mai poterla realizzare.
Questa ricerca disperata si placava solo nelle letture, e anche qui Giovanna non si risparmiava: al telefono, in un qualsiasi incontro privato, nei più bei teatri d’Italia, in televisione. In quelle occasioni – notava Giancarlo Dotto nell’intervista sul Messaggero del 1994 – la voce suonava «grave, miracolosamente ferma», nonostante nel parlato fosse solitamente instabile tra il rauco e lo stridulo, per colpa di un nervo alla tiroide maltrattato da un cattivo chirurgo.
L’elemento caratteristico dell’esercizio di traduzione di Giovanna Bemporad è ovviamente l’endecasillabo. Del resto la sua fama letteraria passa proprio di lì. Ma non per una questione di adattamento dell’esametro omerico, né soltanto perché è il metro della tradizione italiana; Giovanna scelse l’endecasillabo perché ne era innamorata, fin da bambina. L’endecasillabo era per lei una vera ossessione, nel senso che non concepiva la poesia al di fuori di quel metro. C’è una riflessione che faceva spesso, anche piuttosto divertente, e che poi ho trovato in un’intervista fattale da Donatella Bisutti:
«Fin da bambina mi ero innamorata dell’endecasillabo e mi ero ripromessa che al termine della mia vita mi sarebbe bastato poter dire di aver scritto anche soltanto qualche bell’endecasillabo. D’altra parte la lingua italiana si appoggia naturalmente sull’endecasillabo: perfino le frasi più banali sono spesso endecasillabi, come quella che si legge nei tram: “Sorreggersi agli appositi sostegni”».
Nell’endecasillabo di Giovanna Bemporad vive la tradizione ma non solo. Dentro il suo
endecasillabo: un lavorio lento e tenace di rivoluzione. La sua traduzione dell’Odissea è l’ultima di una serie lunga e plurisecolare, che comincia con Girolamo Baccelli, nel 1582 (un anno dopo la pubblicazione dell’Eneide di Annibal Caro), e si chiude con l’opera di Pindemonte, del 1882, l’unica con cui Giovanna accettava di confrontarsi. Io ammetto la mia ignoranza, ma da un punto di vista di lettore posso dire senza dubbio che il confronto con Pindemonte si sia espresso per contrasto. Citavo all’inizio l’opinione di Giovanna a riguardo, che parlava dei «paludamenti delle traduzioni neoclassiche». Su questo aspetto si sono concentrati ad esempio Emanuele Trevi e
Maurizio Perugi, che ha scritto la ricca introduzione all’edizione del 1990 per Le Lettere. La questione è quella di uno stile neoclassico che sia non la celebrazione, ma al contrario il ripensamento, del concetto stesso di neoclassico.
Ecco cosa scrisse Trevi (su “Nuovi Argomenti”, n. 46, aprile-giugno 1993):
«La grandezza ed il limite di ogni forma di neoclassicismo (in Monti come in Foscolo o in Canova) sta in questo stupore linguistico che allontana l’oggetto del suo amore (i poemi omerici, Virgilio, la scultura di Fidia…) nella distanza siderale di una bellezza compiuta una volta per tutte, irripetibile. La Bemporad è lontanissima da questo retaggio neoclassico. Conosce un’altra e più ardua via, quella praticata da Leopardi, che fu forse l’unico uomo del suo tempo capace di vedere oltre la cortina luminosa del maestoso classico. La Bemporad sa bene che la lingua degli antichi era qualcos’altro: uno strumento capace di aderire alle cose del mondo come un guanto di seta aderisce
alla forma della mano. […] La lingua dell’Odissea è un mondo completo, che dunque contiene in sé ogni cosa: la delicata bellezza di tessuti preziosi e giardini, ma anche il lezzo disgustoso emanato dai Mostri. La Bemporad segue Omero in alto come in basso». E poi passa a citare i versi del libro IX sul sonno del Ciclope:
Si rovesciò all’indietro, e con la grossa
testa piegata sulla spalla, a terra
giacque supino; poi, lo vinse il sonno
che tutto doma, e dalla gola interi
pezzi di carne umana e nero vino
ruttando vomitava, ebbro, il Ciclope.
Perugi parlò nello stesso senso della «deflagrazione dell’edificio neoclassico». Per Giovanna il ripensamento del classicismo passa per forza di cose da un ripensamento dell’endecasillabo e della sua funzione. Si ha dunque l’infrazione della sua cantabilità, per rendere l’endecasillabo conduttore di prosa. È qualcosa di cui ci si rende subito conto.
Stimolata da Biagio Balistreri sulla rivista “Arenaria”, svolse una riflessione forse banale, ma nonostante tutto interessante, sull’endecasillabo:
«Usare l’endecasillabo non significa applicare la misura di un verso stereotipo uguale in chiunque l’adoperi. La tradizione poetica italiana ci insegna che c’è l’endecasillabo di Dante e quello di Petrarca, l’endecasillabo del Foscolo e quello del Leopardi, l’endecasillabo di Ungaretti di Sentimento del tempo e quello di Saba e perfino quello del primo Pasolini. Non è certo mai in nessun modo lo stesso endecasillabo. Ognuno opera un’invenzione del proprio endecasillabo e naturalmente lo adatta ad esprimere di volta in volta i contenuti della poesia altrui e della propria. Io ho tentato di avviare l’endecasillabo, senza incrinarne la struttura, verso la possibilità del discorso diretto, verso la chiarezza che altri trova nella prosa. In questo senso, come ha anche detto Pasolini in una sua recensione, il mio endecasillabo è al limite della dissacrazione. Intendendo il mio rapporto con l’endecasillabo in questa maniera innovatrice e vitale, concordo con Luca Canali (che curò la prefazione del florilegio Dall’Eneide, Rusconi 1983) che vede la “rivoluzione” moderna della frantumazione o della illimitazione ritmica realizzata da me entro il sistema metrico tradizionale».
Per chiudere voglio affrontare un ultimo aspetto, che direi decisivo, ed è quello dell’incompiutezza dell’Odissea della Bemporad. Con l’endecasillabo, direi che anche l’incompiutezza è stata un marchio di fabbrica della sua opera. Con l’Odissea infatti ha condiviso questo destino anche l’altra sua grande opera: gli Esercizi, le sue poesie, più e più volte ristampate, ma mai in una versione completa e definitiva.
Fin dall’inizio Giovanna affiancò il lavoro della traduzione a quello creativo, finché le due attività si sono fuse insieme quando scelse l’Odissea come opera della sua vita, negli anni Cinquanta. La traduzione di Omero è stata cioè il proseguimento e il completamento del suo unico libro di poesie.
Odissea e Esercizi: in un certo senso, due opere incompiute che si completano a vicenda.
A questo proposito Giovanna amava ricordare Giovanni Raboni, quando scriveva che nel suo caso è impossibile distinguere tra testi originali e testi derivati «perché in entrambi circola la stessa esigenza di assolutezza formale, la stessa vitrea incandescenza, un’unica rarefatta ossessione».
Ossessione. Questa è la parola chiave. Per Giovanna era un’ossessione la perfezione così come la morte. Anche i suoi Esercizi parlano di questo. Era abituata a non considerare mai conclusa la traduzione; correggeva, modificava, ripristinava parti di testo fino all’ultimo secondo prima di andare in stampa, alla ricerca maniacale del verso perfetto.
Provando a spiegare le ragioni dell’incompiutezza, posta quasi a legge del suo operare, mi viene da pensare che il suo programma letterario avesse ragioni che andavano oltre l’ambito della scrittura, per addentrarsi in quelle di una sorta di magia. Per lei la traduzione era una performance senza fine, fatta di approssimazioni continue. In tutto ciò v’era una consapevolezza del limite, cioè dell’infinità del viaggio, ma anche l’ostinazione a volerlo comunque intraprendere, senza possibilità di rinuncia.
Ecco, forse così sperava di sconfiggere, dando per invincibile la prima, la seconda delle due ossessioni – la morte. E dunque, assumendosi la responsabilità di un compito per sua natura infinito, rendersi immortale. Così, ovviamente, non è potuto essere nel senso stretto, naturale del termine. Ma lo sarà forse in un senso più profondo per l’uomo, quello della storia.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).