Di Giovanni Turra
Archetipi e miti classici nella poesia italiana d’oggi
Lasciata alle spalle la stagione delle neoavanguardie, le generazioni che hanno cominciato o ripreso ad affacciarsi sulla scena della poesia italiana a partire dalla metà degli anni Settanta abbandonano qualsiasi avamposto e si ritirano in ordine sparso: esauritasi la spinta del Sessantotto, non è più possibile credersi garantiti da teorie e ideologie; parimenti, non esistono né direzioni di marcia né opzioni letterarie storicamente più fondate di altre.
Abbandonati a se stessi, molti poeti si vedono costretti a una sorta di «empirismo assoluto»[1], forzati a misurarsi con la poesia prima che con le poetiche, in una disseminazione – e dissipazione – di talenti e saperi. Già nel 1975 Alfonso Berardinelli può osservare che «tutti i generi hanno ripreso a fiorire simultaneamente» in una situazione non più di conflitto e di reciproca aggressione ma di «ilare convivenza»[2].
Di lì a poco però, alla svolta degli anni Ottanta, sembra prevalere la ricerca di nuovi rapporti con il testo che recuperino fette sempre più ampie di quotidiano (quando erano state espunte) a una dimensione più oggettiva e oggettuale. Questo, insieme con altri fattori – su tutti il repentino cambiamento della società stessa –, costringe a formulare nuovamente il rapporto con la tradizione e, quindi, a riconsiderare un’altra volta il significato del mito in letteratura.
Ripensare il rapporto con la tradizione non vuol dire, com’è ovvio, escluderlo a priori: non è infrequente in questi anni il ritorno a forme espressive e modelli versificatori preavanguardistici, ipertradizionali addirittura (si prenda ad esempio l’Ipersonetto di Andrea Zanzotto, contenuto ne Il galateo in bosco del 1978); allo stesso tempo, l’imporsi a tutti i livelli dell’italiano standard è messo sotto accusa attraverso l’impiego di idiomi e parlate marginali (ancora di Zanzotto, Cantilena londinese – da Filò, 1976). L’una e l’altra soluzione, pre- e postgrammaticale, acuiscono il senso di inadeguatezza e scoramento di fronte a una realtà sempre più inafferrabile nei suoi velocissimi trapassi.
In un contesto simile, attingere il patrimonio classico – sia in forma allusiva, sia in forma di ripresa letterale – assume un significato chiaro: usando il Mito e operando un confronto continuo tra la nostra epoca e l’età antica, alcuni autori si propongono di controllare, di dare forma e significato all’orizzonte troppe volte desolante che è la storia stricto sensu contemporanea; un tentativo cioè, da parte dei poeti, di rendere accessibile all’arte il mondo moderno, percorrendo strade talora diametralmente opposte.
Vi è chi istituisce un’antitesi fra il caos del presente e l’ordine ideale dei classici: in Fernando Bandini e Valerio Magrelli, ad esempio, l’elaborato e deliberato gioco di corrispondenze fra una cronaca piatta ma veritiera e il Mito serve a sottolineare non certo un’identificazione, semmai un’insanabile dicotomia tra due fasi della civiltà. In altri invece, come Ida Vallerugo o Alessandro Fo, il ricorso al Mito perviene non a stabilire un parallelismo, ossia due binari che mai s’incontrano, tra contemporaneità e antichità, ma a fondere senza scorie l’una con l’altra, come costituenti della storia umana.
Ida Vallerugo in modo particolare si dimostra consapevole dell’esistenza di quello che si potrebbe chiamare «ordine simultaneo»: il passato non solo è passato, è anche presente. In ciò consisterebbe, secondo Thomas Stearns Eliot, il «senso storico»[3]. Il possesso del senso storico sortisce però il benefico effetto di rendere tradizionali tutti gli autori qui presi in esame; tradizionali e, allo stesso modo, acutamente consapevoli del posto che essi occupano nel tempo, vale a dire della loro contemporaneità.
Sono caduti già i primi nomi, altri ne seguiranno. Ma la selezione dei poeti più significativi in rapporto al mito non è stata facile. Soprattutto, non è stato sventato il rischio di semplificare eccessivamente una realtà quanto più mossa e articolata. Avrebbero per esempio meritato di essere chiosate la rilettura ad opera di Giovanni Raboni del mito di Alcesti[4] e la celebrazione dell’anniversario di Virgilio nelle poesie postume di Sandro Sinigaglia[5].
D’altra parte, per la prospettiva ravvicinata da cui si guarda e per la specificità di quanto si tratta, non è possibile offrire una panoramica esaustiva dei miti attualizzati nella poesia italiana recente: accostando una letteratura ancora in divenire, fatalmente si cade in definizioni inesatte e si disconoscono valori.
I titani sfiniti di Fernando Bandini
La poesia di Fernando Bandini ricorre spesso agli antichi miti greci e latini. Egli scrive in dialetto vicentino, in italiano (un italiano sempre nitido e di ascendenza illustre) e in latino. È vincitore del Certamen di Amsterdam e del Certamen Vaticanum, nonché traduttore di Orazio[6].
Questa pratica versipelle gli ha consentito di affinare uno strumento linguistico sensibilissimo, che declina ogni più acceso lirismo in una riflessione pacata e sconsolata, saggia e affettuosa: uno specillo con il quale sondare i territori remoti e poco accessibili dell’esperienza.
Egli non divide nettamente le sue tre lingue d’uso, soprattutto non separa il latino dal dialetto, tanto da affermare:
Considero i poeti in dialetto poeti di lingua morta, alla stessa stregua di chi componga versi in latino. La differenza è soltanto nel più sottile diaframma che ci separa dal mondo di sentimenti e di cose una volta espresso dal dialetto. Diversa la qualità «subliminare» del latino: è una lingua metastorica e il ricorso ad essa dà quasi un senso di sicurezza.[7]
Il poeta vicentino medita sulle storture e sui capricci della storia, con escursioni che vanno dalla provincia veneta sopravvissuta ai violenti mutamenti intercorsi negli ultimi anni, alla nuova realtà svuotata di senso e alienante della globalizzazione, cercando i nessi segreti che le intrecciano.
Cosciente del paradosso di trovarsi a scrivere in un tempo di deriva, appartenere al quale è difficile oltre che imbarazzante – «un tempo che accade senza accadere», chiosò Berardinelli a proposito di Bandini[8] -, egli assomiglia sempre più, di libro in libro, a un antico e appartato umanista, la cui cultura, la cui humanitas non possono fare a meno della poesia, del suo valore salvifico e, quindi, del suo indispensabile esercizio.
Animano la poesia del vicentino figure e archetipi ripresi, tutti o quasi, dal patrimonio classico. Questo procedimento è evidente in alcuni, esemplari componimenti in lingua di Santi di dicembre (1994), la raccolta forse meglio rappresentativa dell’ultimo Bandini:
Gracile Atlante
Da molto tempo ormai
minatore ostinato
scavi sottoterra per cercare le stelle
e basterebbe che alzassi la testa.
Quello che nasce oscuro e franto
non si ricompone in unità:
gli uccelli del bosco al tuo passaggio scappano
invocando Aristotele.
[…]
Ma io quaggiù sono un gracile Atlante,
mi curvo sotto il peso dell’azzurro.
Le mie cose da sempre
vive nel duro universo
come inventarne i nomi, come renderle
leggère?[9]
Il nome di Atlante, il titano ormai sfinito che sorregge il cielo e divenuto fin dal titolo «gracile», è dapprima sostituito con l’apostrofe «minatore ostinato» (v. 2), poi è assunto dal poeta stesso («Ma io quaggiù sono un gracile Atlante»). L’adynaton del v. 3 («scavi sottoterra per cercare le stelle») è figura del caos irredimibile e tremendo dell’universo («Quello che nasce oscuro e franto / non si ricompone in unità»), con buona pace di coloro che invocano una qualche organicità di matrice aristotelica («gli uccelli del bosco» al v. 7).
In questa poesia, Bandini vuol dare l’impressione di non essersi ancora fatto un’idea di come dire ciò che sta dicendo e sembra in preda a un’emozione; di qui la forte sospensione che taglia a metà gli ultimi quattro versi e scardina la sintassi convenzionale, a indicare un rapporto non pacifico con la realtà. È inoltre adombrato un riferimento al «fanciullo musico» di Giovanni Pascoli, l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente: «vecchissimo è il mondo che tu vedi nuovamente!»[10], quasi che bastasse davvero alzare il capo per vedere le cose in modo chiaro e poterle infine ridire.
E Pascoli, come rileva Zanzotto, è effettivamente uno dei numi tutelari del vicentino[11], che ne fa derivare il gusto per la terminologia specialistica (botanica e ornitologica), oltreché la tendenza a inquadrare la meditazione sulla sorte umana in un quadro cosmologico (come nel poemetto Il ritorno della cometa, sempre da Santi di dicembre).
Ma una distanza siderale si frappone ormai tra il poeta di Myricae e il suo proselito. La corsa del tempo è inarrestabile e sbalestra lo scrittore veneto alle soglie del terzo millennio; qualsiasi concezione teofanica della storia è, agli occhi di Bandini, insostenibile. Consapevole dei mutamenti crudi e dell’indecenza del secondo Novecento, il poeta biasima l’evo disumano in cui è costretto a vivere: «Troppo torbido il tempo / in cui mi è toccato vivere».
È significativa, a questo riguardo, la chiusa dell’ultima poesia della raccolta, Canzone:
[…] io stolido nemico
del presente, la sola cosa che ci appartiene.[12]
Non è da escludere, nella raccolta di Bandini, un riferimento all’Angelus novus di Walter Benjiamin. In quell’opera, il filosofo tedesco dava la sua interpretazione dell’omonimo quadro di Paul Klee, descrivendo una tempesta che quasi straccia le ali del messo celeste. Questa tempesta, spiegava Benjiamin, è ciò che comunemente chiamiamo progresso[13]. «Tempesta» è sostituita, in Bandini, dalla circonlocuzione «questi nembi agli ordini di una truce ventessa / […] fanno ressa / all’uscita del secolo che muore».
Analogamente all’Angelus Novus di Benijamin/Klee, il Giano bifronte di Bandini sembra scontare tutta la storia dell’umanità, dai primordi ai giorni nostri, come un incubo dal quale è impossibile destarsi:
Giano bifronte
Lui non ha mai diviso
presente da passato.
Perché dietro il suo viso
non c’è nuca ma un altro viso ancora.
Segue senza girarsi il lungo volo
del falco pellegrino dall’aurora
fino al ponente che si oscura, dove
farà il suo nido
in dirupi o su rocche.
Non esiste per lui scoscendimento
fra il prima e il dopo, gli esce da due bocche
un solo occhiuto grido.
A un progresso onnivoro e irrevocabile corrisponde in Bandini «il lungo volo / del falco pellegrino dall’aurora / fino al ponente che si oscura», indizio, agli occhi dell’augure, di un futuro senza redenzione. A Giano non resta che levare al cielo la straziante, impotente sinestesia di «un solo occhiuto grido».
Attraverso la propria poesia, sempre colta e allo stesso tempo comunicativa, Bandini non cessa di occupare attivamente lo spicchio di storia avuto in sorte; e lo interroga, da un lato tenendosene «separato o fuori sincrono», come annota Enrico Testa, e dall’altro scrutando i passaggi sottili attraverso i quali la biografia individuale entra «in contatto o in cortocircuito»[15] con i fatti della realtà.
[1] A. Berardinelli, Effetti di deriva, in A. Berardinelli – F. Cordelli, Il pubblico della poesia (1975), Roma, Castelvecchi 2004, p. 19.
[2] Ivi, pp. 19-20.
[3] Per le espressioni tra virgolette contenute nel paragrafo, cfr. T.S. Eliot, Tradizione e talento individuale (1919), in Id, Opere. 1904.1939, Milano, Bompiani 2001, pp. 393-394.
[4] G. Raboni, Alcesti, o La recita dell’esilio, Milano, Garzanti libri 2002. Si tratta di un poemetto drammatico, i cui protagonisti, Sara, Simone e Stefano, fuggono dal loro paese sprofondato nella tragedia della guerra. Si nascondono per l’ultima notte insieme in un teatro dismesso. Partiranno l’indomani, all’alba – ma ci sarà posto solo per due. Come nel mito antico, qualcuno dovrà sacrificare la propria vita a favore di un altro.
[5] S. Sinigaglia, Versi dispersi e fugaci, Milano, Scheiwiller 1990. Circa la presenza del mito in Sinigaglia, cfr. P. Gibellini, La musa trasgressiva nei versi di Sinigaglia, «Microprovincia», n. speciale su S. Sinigaglia, 1999, pp. 179-181.
[6] Orazio, Il libro degli epodi, a c. di A. Cavarzere, traduzione di F. Bandini, Venezia, Marsilio 1992.
[7] L’affermazione di Bandini è contenuta senza alcun rimando biografico in M. Cucchi, Fernando Bandini, in *Poeti italiani del secondo Novecento, Milano, Mondadori 2004, p. 564.
[8] Cfr. A. Berardinelli, La poesia verso la prosa, Torino, Bollati Boringhieri, p. 143.
[9] F. Bandini, Santi di dicembre, Milano, Garzanti 1994, p. 29.
[10] G. Pascoli, Il Fanciullino (1897), a c. di G. Agamben, Milano, Feltrinelli 1982, p. 23.
[11] Cfr. A. Zanzotto, Fernando Bandini (1994), in Id, Scritti sulla letteratura, vol. II, a c. di G.M. Villalta, Milano, Mondadori 2001, pp. 377 e ss.
[12] F. Bandini, op. cit., p. 117. Altrove Bandini riecheggia Vittorio Sereni. «Sono parte / di ciò che cambia anche se resto indietro» sembra, infatti, la parafrasi della definizione che di sé diede il poeta di Luino ne Un posto di vacanza (II, 13): «straniero al grande moto e da questo agganciato». Ancora Sereni scrisse in un verso celeberrimo: «Non lo amo il mio tempo, non lo amo».
[13] Cfr. W. Benjamin, Angelus novus, Torino, Einaudi 1962, pp. 76-77: «Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali; è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che comunemente è chiamato progresso è questa tempesta».
[14] F. Bandini, op. cit., p. 92.
[15] E. Testa, Fernando Bandini, in Id, Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, Torino, Einaudi 2005, p. 250.
Immagine: Atlante Farnese, particolare.