Anche l’antologia è una forma letteraria che interpreta il proprio contenuto in relazione a tutto un mondo, quello letterario, e quindi gode a pieno titolo di un’autonomia in quanto genere. Tuttavia, l’antologia è anche un genere che esercita la sua funzione su un altro genere, nel nostro caso la poesia. L’antologia è allora un genere letterario parassita, poiché si nutre di un altro genere che contribuisce a mantenere in vita, ma lo trasforma al contempo in una forma diversa di discorso da quello originario: muta cioè la poesia in canone, mutuando dal proprio oggetto una norma.
Il genere dell’antologia funziona infatti secondo un’azione duplice: riducendo la quantità della poesia in una forma che ne salvaguardi la qualità, l’antologista mira a conservare nient’altro che il totale rappresentativo della poesia di una corrente o di un’epoca in un particolare che, fin da Aristotele, deve fornire al contempo una norma da seguire – una poetica – e un pugno di modelli – gli autori – che ne siano il buon riferimento e in cui le leggi generali prescritte si siano già manifestate come pratiche storiche.
Il più noto, tra i sottogeneri dell’antologia, è il genere dell’antologia d’autore (in cui l’autore è il critico); il suo scopo è fondatamente ermeneutico. Nondimeno esistono anche un’antologia aziendale, condotta sulla base di un criterio editoriale unico, a iniziativa esclusivamente promozionale o economica (ne esistono vari esempi presso piccoli editori), e un’antologia generazionale e di tendenza. La disgiunzione sarebbe d’obbligo. Se inseriamo la copula è perché esiste un rapporto pressoché naturalizzato tra il fenomeno che vede apparire una nuova generazione e quello che riconosce una novità presente nel campo letterario: è un’identità apparente e nondimeno automatica, ma che spinge a considerare sempre la generazione “nuova”, in mero senso temporale, come portatrice di novità, in senso invece letterario.
Cosa s’intende con ‘generazione’ in poesia?
Si fa continuamente ironia sulle varie forme di generazionalismo in poesia, dalle antologie ai premi letterari, senza mai entrare nel merito dei concetti e dei discorsi. Sebbene il tentativo sembri inutile e destinato a concludere sull’ovvio – l’insufficienza di ogni paradigma generazionale per suddividere e analizzare la storia di una tradizione come quella letteraria – dobbiamo approfondire nondimeno questo concetto, accettando che la frequenza del suo utilizzo nel nostro presente abbia alcune ragioni di sistema.
Dagli storici della cultura e dell’arte, il concetto di generazione è stato utilizzato per segnalare la comparsa sulla scena intellettuale o artistica di nuove tendenze e stili che sono condivisi da rappresentanti della stessa età passati attraverso le medesime esperienze formative. Questa potrebbe essere una buona sintesi delle definizioni di generazione letteraria che forniscono Julius Petersen in Die literarischen Generationen (1930) e Henri Peyre in Les générations littéraires (1948).
Tra i fenomeni generazionali, il più studiato è senz’altro quello delle generazioni politiche. Nelle generazioni politiche, i giovani sono portatori di una cultura politica che si scosta sensibilmente da quella delle generazioni precedenti, o addirittura si scontra con essa. Nella successione delle generazioni diventa allora possibile leggere la storia politica di una data società. Il paradigma generazionale è insomma un buon strumento, tra gli altri, per storicizzare lo schema politico di un campo sociale. Nelle generazioni politiche è stato però spesso individuato un fattore determinante per la loro lettura d’insieme: l’accadere di un evento (o di un complesso di eventi) intorno al quale si struttura la socializzazione politica di una data generazione.
Non è inutile tentare un parallelo tra le generazioni poetiche e le generazioni politiche a partire dal rapporto con l’evento. Riflettiamo sul fatto che un autore come Gianni D’Elia rivendica sempre la poesia come quell’esperienza posteriore a quell’evento ben determinato che ha segnato la sua generazione: il Settantasette in Italia. Nell’auto-narrazione del suo percorso poetico, costruita attraverso alcune interviste, D’Elia spiega come il suo avvicinamento alla poesia segua il fallimento del movimento giovanile in Italia e come nella poesia di Pasolini abbia trovato un germe originario idoneo a spiegare anche le ragioni stesse di quella sconfitta. Un altro poeta, Alberto Bertoni (di soli due anni più giovane di D’Elia), ha riconosciuto – prima oralmente e ora anche sulla carta stampata, in una recente intervista rilasciata alla rivista Atelier – come evento spartiacque dentro la propria produzione poetica (tra le prove della giovinezza e l’inizio del lavoro poetico vero e proprio) l’uccisione dello studente Francesco Lorusso nei fatti dell’11 marzo 1977.
La prima domanda che dovremmo porci è l’esistenza o meno di un evento discriminante per definire una generazione poetica. In particolare, dovremmo chiederci se anche la generazione dei nati negli anni Ottanta, al centro di una qualche visibilità poetica recente, sia una generazione associabile a un evento o, al contrario, sia una generazione rimasta ancora senza evento (traumatico o meno).
Per restare sul campo italiano penso non sia inutile rammentare di come la critica italiana abbia tentato di usare il criterio generazionale per definire la storia della propria poesia. Lo studioso più importante per la poesia italiana secondo un metodo generazionale è stato l’ispanista Oreste Macrí, che elabora il suo schema tra gli anni Cinquanta e Sessanta. I contributi che c’interessano sono stati raccolti in un volume, curato da Anna Dolfi, dal titolo La teoria letteraria delle generazioni (1995), in cui emerge chiaramente come il modello di Macrì provenga da Ortega y Gasset.
Per Ortega y Gasset, il cui El tema de nuestro tiempo risale al 1923, quando una nuova generazione non riconosce il carattere “sacro” di una tradizione – in quanto quest’ultima non è capace di fungere da quadro di riferimento nella nuova situazione – la generazione neo-apparsa sulla scena si scarta dalla precedente. Sulla base di questo principio, Macrì cerca di riscrivere la storia della poesia italiana a partire da quattro generazioni. La loro successione è nota: la prima generazione è costituita dai nati dal 1883 al 1890 (Saba, Sbarbaro, Ungaretti…); la seconda generazione dai nati dal 1894 al 1901 (Montale, Solmi, Quasimodo…); la terza generazione dai nati dal 1906 al 1914 (Penna, Bertolucci, Caproni, Sereni, Luzi…) e la quarta generazione dai nati dal 1922 al 1931 (Zanzotto, Pasolini, Giudici, Pagliarani…). A un ritmo di nascite prevalentemente settennale corrisponde un ritmo decennale che registra il cambiamento sul piano storico-letterario realizzato da una generazione dal punto di vista delle pubblicazioni dei suoi libri di poesia: vale a dire che, ad esempio, la prima generazione marca la sua differenza rispetto alla precedente dal 1911 al 1922 con le Poesie (1911) e il Canzoniere (1921) di Saba, Il porto sepolto (1916) e Allegria (1919) di Ungaretti; la seconda, dal 1923 al 1933, con Ossi di seppia di Montale (1925-28) e Oboe sommerso (1932) di Quasimodo; la terza, dal 1934 al 1944, con Sirio (1929) e Fuochi di novembre (1934) di Bertolucci, Frontiera (1941) di Sereni, Cronistoria (1943) di Caproni, Poesie (1938) di Penna, Lavorare stanca (1936) di Pavese; e così via…
Quello di Macrì non è stato un tentativo solitario. Anche Pietro Chiara e Luciano Erba compongono un’antologia intitolata Quarta generazione pubblicata a Varese nel 1954, in una collana diretta da Luciano Anceschi presso Magenta, lo stesso editore in cui era apparso la sua Linea lombarda (al riguardo, Diego Bertelli ha recentemente pubblicato un articolo su Alias ora disponibile anche su minimaetmoralia.it).
Ci preme sottolineare questo approccio quantitativo e positivista alla teoria della generazione, che si riflette nella ricerca di una legge generale fondabile matematicamente, secondo un’espressione geometrica che rappresenti una storia della poesia italiana immaginata ad andamento progressivo nel succedersi delle sue generazioni poetiche. La generazione procederebbe in una direzione consequenziale alla storia, manifestandosi nei modi di un’apparizione ciclica ma ordinata, dando addirittura ricambio e fondamento, significato alla storia letteraria.
Ci può interessare però un approccio un po’ diverso. Parto da un articolo del sociologo Karl Mannheim dal titolo Il problema delle generazioni, che esce nel 1928 (quindi di poco posteriore alle idee di Ortega y Gasset). Mannheim spiega il concetto di generazione tramite una relazione che deve instaurarsi tra due termini: il legame di generazione – il fatto di nascere nello stesso periodo in parti diverse d’Italia, ad esempio – e l’unità generazionale – il fatto di condividere caratteri sociologici e culturali comuni.
La domanda su cui dovremmo soffermarci, e a cui è difficile dare una risposta, è appunto se esiste per la generazione poetica dei nati negli anni Ottanta solo un legame generazionale oppure anche un’unità di generazione.
Le note biografiche, ovvero delle posture e delle forme della nostra generazione
Per cercare questa fantomatica unità dentro la generazione degli anni Ottanta credo si possa guardare a un oggetto un po’ particolare: le note biografiche, ormai assurte a genere discorsivo a sé stante nella loro applicazione in rete, ma che originariamente erano una parte costitutiva delle antologie di poesia, prima di esserlo delle riviste di poesia. Le biografie, anche quelle di esseri miti come i poeti, sono un elemento che suscita sempre interesse, come se la nostra lettura della poesia fosse oggi deviata da qualcos’altro che siamo indotti a cercare e che ci attende come necessario. Il poeta è qualcosa di più di una funzione autoriale. Senza la nota biografica del poeta, nessuna conclusione della parte antologica riservata alle sue poesie.
Nell’antologia curata da Vincenzo Ostuni, Poeti degli Anni Zero, gli autori selezionati sono nati tra il 1964 e il 1978. Il discrimine non riguarda il loro esordio, ma lo statuto di «autore affermato compiutamente negli anni Duemila». Uscita nel 2010, l’antologia può a buon diritto proporsi come una sorta di sintesi dei primi dieci anni poetici del nuovo secolo: Poeti degli Anni Zero tenta così di dare un minimo di profondità storica alla una lettura del fenomeno poetico odierno.
Da un rapido sommario delle biografie, emerge tuttavia una figura del poeta un po’ particolare e inedita, almeno per l’Italia. Troviamo poeti impegnati in una carriera universitaria all’estero, addirittura con esperienze pedagogiche tipicamente anglosassoni come l’insegnamento della scrittura creativa; troviamo poeti pendolari dagli Stati Uniti all’Italia, dall’Italia alla Spagna e alla Francia; incontriamo poeti che rivendicano una pratica autoriale complessa, iscritta in un multilinguismo esperenziale prima che di poetica; poeti che fanno della contaminazione interartistica e transmediale un momento fondante del loro lavoro, così come dell’impegno divulgativo della poesia quell’abilità a trecentosessanta gradi di intrecciare la poesia in una maniera polimorfa, assieme alle arti visive, all’incontro coi media tradizionali della radio e della TV, ma ovviamente anche coi nuovi media del digitale. L’unità generazionale di questi poeti non apparirà, allora, tanto la nozione di “poesia di ricerca” rivendicata da Ostuni (che comunque non istituisce per questo criterio critico un discrimine generazionale). Questi autori si muovono oltre i confini italiani e oltre i confini tradizionali della nostra poesia.
Prendiamo invece l’antologia curata da Matteo Fantuzzi col titolo La generazione entrante: poeti nati negli anni Ottanta (2011). Le note biografiche sono brevi, in tono minore rispetto la precedente, perché composte attorno alla figura di un poeta che appare ancora tradizionale, com’è legato a una formazione poetica da svolgere per riviste, per festival, per altre antologie: un apprendistato che avviene attorno a nuclei pressoché familiari, a contatto ravvicinato con alcuni luoghi, soprattutto premi ed eventi, a contatto col pubblico della poesia, altri poeti. Ma il poeta che esce da queste biografie è certo un poeta ancora in fieri, poiché sono biografie in cui s’iscrive sempre una mancanza programmatica dentro la figura stessa del poeta: quella del libro di poesia. Ciò non significa che gli autori non abbiano pubblicato libri di poesia, ma che la postura che viene fatta loro assumere nell’antologia crea una narrazione in cui l’epilogo della loro formazione è sempre un libro di poesia.
Sono due antologie volutamente agli opposti, per poetica, per costruzione, ma pur sempre ascrivibili alla problematica che c’interessa; sono due antologie che permettono una lettura concomitante del poeta contemporaneo poiché uscite a un solo anno di distanza, appena qualche anno fa. Resta da capire se da questa lettura si può ricavare una discontinuità della generazione poetica degli anni Ottanta da quella sua precedente (i poeti Anni Zero nati dal 1964 al 1978).
La mia tesi è che in realtà le due generazioni coincidano, non nel dato biografico, ma in quello poetico, e non nella poetica degli autori antologizzati, ovviamente, ma nella poetica dell’antologia autoriale: una poetica che crea una figura precisa di poeta-giovane, che non coincide con la generazione letteraria giovane ma ci appare nondimeno come una postura (ormai una forma letteraria) attesa e normale: il poeta degli anni Zero figura certo più articolata, avventurosa e complessa, sempre in fuga, e internazionale; il poeta della Generazione entrante sottoposto a una continua tensione a un certo dover essere che prevede ciò che ancora non ha dimostrato di aver fatto fino in fondo, il libro, e che la critica recente, difatti, non gli ha ancora riconosciuto, come fosse una sua colpa originaria.
Il dover essere del Poeta Giovane a scapito del Libro
Tutte e due le antologie dimostrano che le due generazioni, Settanta e Ottanta, superano una certa idea tradizionale del poeta, un’idea che è inerente alla tradizione stessa della nostra poesia e che potremmo riassumere nella convinzione che esista un valore etico e letterario attorno alla forma e al genere del Libro di Poesia.
Lo statuto “internazionale” della generazione poetica dei Settanta è appena il frutto di un’evoluzione storica non ancora analizzata, ma tale internazionalità si propone come un paradigma solidale a quello della sperimentazione poetica oltre i generi, cioè oltre il Libro di Poesia come forma letteraria eminentemente nazionale, rappresentante dello spirito delle nazioni occidentali.
Mentre la generazione degli anni Ottanta trova il suo fondamento nel fatto di non aver ancora prodotto questo libro di poesia, poiché la sua antologia di riferimento è fondata più sull’idea di una formazione del poeta da condursi tramite altre antologie e riviste, secondo un principio di sostegno interno e orizzontale tra le forme incomplete del campo poetico, che sul riconoscimento critico dei libri già pubblicati, oltretutto affiancati da altre forme simboliche di affermazione e riconoscimento sociali.
Il libro di poesia mirerebbe a cancellare la diversità delle poesie, a cancellare i segni della poeticità per imporre il segno della continuità, di ciò che non è interrotto. Il Libro di poesia sarebbe insomma contro il verso; starebbe oggi dal lato della prosa, che è il vero discorso della contemporaneità, secondo un’analogia che scorre dalla frase letteraria alla società, per escludere dalla sintassi ogni interruzione marcatamente individuale del discorso corrente e dell’opinione comune (endoxale), com’è quella che piega all’architettura individuale del verso poetico la gerarchia verbale di una lingua. Il libro di poesie agisce insomma contrariamente all’indole della poesia stessa. Oggi il libro di poesia, valore etico, è stato assorbito dalla postura sociale del poeta, potenziata dall’identificazione avanzata tra poeta giovane e affermazione necessaria della novità dentro l’ultima generazione. La battuta tipica che vuole che si resti poeta fino a quarant’anni ha allora un fondamento serio, se essa permette di prolungare fino ai limiti del possibile biografico la speranza di produrre un nuovo stile all’interno di una produzione letteraria esplicitamente contemporanea, che avviene nel nostro presente.
Non necessariamente l’assenza del Libro è male. Semplicemente sostengo che la sua sostituzione con altro vada esplicitata dalla critica. Se possiamo ricordare che l’attesa di coerenza è fondamentale nel lettore (Ricoeur), l’antologia è ciò che rappresenta la possibilità per la poesia italiana contemporanea di evitare la forma del Libro senza perdere il lettore: è sostanzialmente, oggi, un genere letterario di sostituzione. L’antologia è cioè esaudire quest’attesa di coerenza lasciata in sospeso nel lettore.
Per concludere, cercando un ultimo momento di maggior chiarezza, vediamo dove il Libro aveva un ruolo antologico centrale. Prendiamo l’antologia curata da Roberto Galaverni, Nuovi poeti italiani contemporanei, uscita ormai vent’anni fa, nel 1996. L’impianto di Galaverni segue quello della celebre antologia di Pier Vincenzo Mengaldo (1978). Troviamo vere introduzioni agli autori condotte sotto la responsabilità del critico (come vuole l’antologia d’autore), in cui la biografia, redatta dal critico, viene ad essere costretta e rifunzionalizzata (proprio com’era in Mengaldo) dal discorso ermeneutico assunto dall’antologista. Le note biografiche sono dissolte dentro il discorso critico di Galaverni perché, nella sua antologia, il libro diventa in qualche modo il luogo prescritto per la poesia; ed è un po’ la cifra critica di Galaverni quella di unire luogo in quanto appartenenza geografica e libro come luogo specifico di una poesia o di una poetica. Oggi, le biografie vengono spesso a costituire la sesta poesia di un gruppetto selezionato di cinque all’interno della produzione di un autore giovane antologizzato.
Soprattutto, riguardo la generazione, Galaverni osserva un fenomeno che ci appare più congeniale per tentare una lettura corretta del paradigma generazionale, almeno in letteratura: «il dato più significativo risiede nel fatto che, dal punto di vista dei cosiddetti maestri, avvenga un salto di almeno due generazioni». Il salto generazionale si verifica, nei poeti prescelti da Galaverni, non sulla base del loro legame di generazione specifico, quello che divide una generazione da quella precedente, ma tramite un’unità di generazioni, declinata al plurale, un’unità di unità poetiche che funziona per un altro ritmo rispetto quello sequenziale e lineare immaginato da Macrì: è un’unità infra-generazionale che procede a spirale attorno alla tradizione, a una tradizione che per Galaverni è tuttavia continuativa rispetto una poetica ancora tardo-novecentesca come quella di Sereni, Luzi, Caproni, o dell’ultimo Montale.
Insomma, lo scopo dell’antologia di Galaverni non era ovviamente quello di difendere una poetica o una generazione, ma continuare la germinazione di Mengaldo, cioè l’estensione del canone pubblico da una prospettiva storica (il Nuovi del titolo di Galaverni andrà intesto in senso soprattutto storico) nel rifiuto igienico di crearne un altro privato e alternativo; nel rifiuto di soccombere alla tentazione della proliferazione dei canoni, la stessa che noi oggi, nel nostro presente, non siamo più capaci di ridurre. Così facendo, intrecciando continuità e discontinuità rispetto il canone precedente, l’antologia di Galaverni evitava di stabilire un dover essere di facciata per quella generazioni di poeti ed evitava, concludendo, proprio ciò che Caproni auspicava il dover essere della propria generazione: «una generazione di riverbero, destinata a restar non necessaria tra quella dei padri e quella dei figli». Resta insomma tutto da verificare se la nostra generazione, la generazione degli anni Ottanta, incontrerà il destino che Caproni e i suoi coetanei non hanno per fortuna, e loro senza dubbio giustamente, conosciuto.
Immagine: Giulio Paolini, Mnemosine (Les Charmes de la Vie/3-6), 1981-87.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).