Sei poesie inedite.
#1
Percorriamo esecrabili distanze
con una sola spinta siamo dell’altra parte.
Ma passando per crune continentali e guardando
giù per gli schermi – dalle allentate lenti
puoi vedermi prendere svincoli
col solo scopo di non ritrovarti – l’ora è grigia e hanno
l’ombra stretta dal solstizio –
il cielo è fermo e il passeggiare
questa sera nel filare di lampioni
solamente una distesa di passi:
(guardando giù): io non so più,
non so se dove sono siamo.
#2
Lasciammo l’auto a Pian delle Fugazze
e risaliti dalla scala purgatoriale delle gallerie
sbucammo su sopra al pianoro.
Là dove sarebbe dovuto essere il rifugio
un mare bianco, invece, tutto riccioli di nebbia.
Il vento ci passava la mano pesante,
strappandoli senza scompigliarne uno.
Una confusione fremeva, un vuoto di presenze
di cui si sentiva però il crepitare
delle magre voci dei turisti tutto attorno,
e per la prima volta forse in vita mia
vidi stanco mio padre, mentre io
stranamente mi sentivo vivo,
d’un’allegrezza che mi spingeva a saltare i massi a piedi pari,
come una capra che esplorasse quella landa
alla ricerca d’un ciuffo d’erba morso dal freddo.
Ci mettemmo per un sentiero accennato sul pietrisco,
ci perdemmo a leggere i cartelli bilingui[1]
Dopo tanto vagare decidemmo di sederci su un dosso alto.
Avevamo appena tirato fuori i panini
che la nebbia dietro a noi si diradò,
mostrando il tetto del rifugio
come un vomere di tegole nel cielo.
La birra pareva oro, le parole pietra.
Una volta scesi, rigirandoci a guardare,
la vetta appariva sgombra e c’era il sole.
[1] Di segnaletica bilingue non c’è traccia sul Pasubio.
#3
I.
La casa ha molte stanze, si entra e si esce a orari, il corridoio percorrerlo
dietro a questa infermiera, pensare: “A Colono
…………………………………………mi ci farei scortare volentieri, da un’Antigone
come questa” (la cecità sa usare le mani); ma io (e i vecchi, si sa, li lasci fare)
dall’alto dei miei trent’anni ho grande dignità; prosegue il corridoio una porta nel mezzo:
l’esempio è quest’uomo, reliquia o reperto, tradotto di madre in figlio, di figlio in figlia, incompreso
che non si è mai capito ora si lascia;
…………………………….per esempio, dicevo, quest’uomo, la porta
spalanca la bocca spalanca l’ano spalanca le braccia levate al cielo (dietro è la striscia di briciole
di un Hänsel incontinente) (Gretel perduta per sempre), il prolasso di viscere in atto di un uomo, che è [quest’uomo,
per esempio, pannolone che lega caviglia a caviglia, che esce dal bianco sepolcro del bagno lasciandosi [dietro
una scia di piccole briciole nere (rincorso dalle infermiere), ed è ancora quest’uomo a venire
placcato alle gambe, e mentre le donne armeggiano con le sue parti basse
quest’uomo (lo stesso), ad esempio, può anche (la porta spalanca) uscire dal bianco sepolcro del [bagno e dire
alla prima che passa (la aggranfia una mano di scheletro, il bagliore nell’occhio): «Finalmente sei qui.
Riportami a casa».
II.
La casa ha molte stanze, si entra e si esce a orari, il corridoio percorrerlo
fino in fondo ha nome altisonante: sala polifunzionale;
…………………………………………..le stanze attraverso le porte,
ordinaria miseria umana, la famiglia assiepata attorno a un vecchio primate morente; per esempio
la donna laggiù, un guscio avvizzito, poco più che uno scheletro,
ha ancora la forza (uno spasmo della memoria) di rispondere al figlio ora padre, se racconta alla figlia [del lupo
che insegue tre ochette nascoste in case diverse
………………………………………(varda ocheta davèrzeme, se no con en pet
e na slofa); la vecchia, rintuzzata, si riscuote e tira fuori dalla memoria, cassettino ingombro
di cianfrusaglie, col doppiofondo, e dice, la vecchia: te smaco zo la to casota.
III.
La mia memoria, solitamente, fa cilecca; se capita che c’azzecca, col suo solito modo un po’ [burlone,
un po’ terrificante, è per reliquie, scorie, frane; così ho ricordato che la storia
che ho sentito raccontare al figlio della vecchia la raccontava anche mia madre; e che mi si è
[ripresentata, poi, anche,
in diversi modi, nella mia vita, in diverse
……………………………………versioni: la storia del lupo, delle ochette rintanate
in tre case diverse (rispettivamente, registra la bambina, di paglia, di legno e di mattoni); il soffio
[irriverente (da dietro)
del lupo, degno dell’esser ripetuto (in dittologia) e preceduto da un avvertimento in rima. In un caso
le ochette si mutano in tre inquietanti porcelli; e cantano, suonano, hanno l’uso di coprirsi solo
la parte superiore del corpo e restare nudi di sotto. C’è poi il resoconto (in Austerlitz, credo) delle fasi
di fortificazione della città di Anversa («escarpe, courtine […] o glacis»), il barricarsi concentrico [dietro a forti, ridotte e antemurali
(finché la casa non diventa un labirinto e il lupo
………………………………………rispunta fuori nei panni della nonna) (e questa è e non è
tutta un’altra storia), l’inespugnabile fortezza a stella
che getta l’ombra della propria distruzione. E poi la questione dei morti ammazzati,
fotografati, lì, sul muro della porcilaia: diciassette anime sbagliate, la vicenda ricostruita
a tentoni (la Storia e il suo rastrello), ogni manata una tagliola;
………………………………………storia buona
per ingrassar l’occhiello al quotidiano (il tinello della Storia dove, di nascosto, si mette il veleno nel
[caffè); le cantilene
di nazisti e fucilati che, alla fine, hanno la stessa consistenza delle favole, e solo come favole (puoi
[spacciarle) hanno il sapore delle cose accadute:
la versione ufficiale (il Come Andò) modellata su una fiaba per bambini, l’edificio
in muratura che nasconde e chiude, per paura, dai denti acuminati del lupo,
per proteggere che cosa, alla fine, dall’oblio?
—————————————————————————–(varda ocheta davèrzeme)
Sirena
Pedaliamo per vie semideserte,
stasera (sera di luglio, leggera),
le strade sono come tutte aperte,
spaziose come un cielo di riviera.
Spronando il mio Pegaso nell’aria
che cigola t’inseguo e do la caccia
alle parole che abbandoni all’aria
muta, nel tremito della bonaccia.
«Di qua!», mi dici, e ti tuffi nel gorgo
di vicoli e stradine dietro l’angolo.
Quando riemergi, poi, quando ti scorgo,
poco più avanti, naufrago rimango:
una folata d’anni tra i capelli
passando ti ha portata – distaccandoti
soltanto un po’ dal suolo – fino a quelli
che eravamo, in sirena sfigurandoti.
Non sei più tu eppure torni: il liso
sguardo di schiuma e sulla rena dita
troppo lunghe, animali; il tuo sorriso
stretto ai piani bassi della vita.
Io già non posso più crederti, ora
che questo vento d’estate non argina
il lento sanguinìo del tempo, ora
che la tua immagine non si rimargina.
Ahi! ché già siamo colti nel naufragio
di te, di me, di noi, e al colpo inferto
ci vince l’illusione del presagio
d’aver avuto vita in mare aperto.
Gabriele Zobele è nato a Rovereto (TN) nel 1987. Ha studiato Lettere e Filosofia a Bologna, dove vie lavorando come editor e traduttore dall’inglese. Nel 2011 ha contribuito a fondare Lo spazio esposto, un archivio online di videointerviste a poeti contemporanei. Col poemetto in dialetto trentino Fin a Malga Zonta, dedicato a un episodio della Resistenza dell’Alto vicentino, ha ottenuto una menzione al Concorso Co.F.As. 2011. Per alcune poesie inedite ha ricevuto una menzione al Premio Letterario Nazionale Anna Osti 2019.
Immagine: Ansel Adams.