Franco Loi, le cose terribili del mondo

da | Gen 15, 2022

Quello che segue è il capitolo “Le cose terribili del mondo” della biografia romanzesca di Franco Loi raccontata da Rudy Toffanetti in “Franco Loi. L’erede del sole”, da poco uscito per FVEeditori.

 

Franco tutti li portava sotto la luce. Li stringeva e poi li fissava. Conoscendo altri amici seppi che lo faceva da tempo, e forse via via che perdeva lo sguardo l’indagine si fece più lenta. Le risposte che dava erano sempre le stesse: se non aveva visto niente ti accarezzava e ti lasciava andare sorridendo, altrimenti diceva ‘hai gli occhi sensibili e intelligenti’ o ‘sei più sensibile che intelligente, forse troppo sensibile’; una volta anche ‘hai gli occhi come quelli di un bambino, come quelli della Vivian’. Negli anni ti dovevi sottoporre a questo esame ciclicamente: ogni volta che un evento ti turbava, che giungevi da lui con un peso non confidato, tornavi sempre sotto la lampada e lui si gettava ancora a capofitto nel tuo sguardo Ho sempre cercato di darmi una spiegazione razionale di come facesse, tanto più che vedeva sempre meno. Per alcuni era un sensitivo, per altri erano dei tentativi con cui a volte ci azzeccava e indovinava la personalità di chi aveva di fronte. Per quella che è la mia esperienza, è sempre riuscito a descrivere ogni persona venutagli a tiro, con poche e semplici parole prive di giudizio. Sì, certo, credo che guardasse non solo gli occhi ma soprattutto la tensione muscolare del volto: avvertiva, forse con le mani, le guance che sorridevano imbarazzate, o gli zigomi spavaldi di chi si lasciava toccare con diffidenza e addirittura con un po’ di meschina compassione. Conosceva gli uomini non perché riuscisse a tracciarne un profilo psicologico, ma perché capiva i loro desideri, ciò che li muoveva e anche ciò che con difficoltà ammettevano a loro stessi. “Non credere” mi disse un giorno “io la vedo anche la tua vanità di voler pubblicare il primo libro. Vedo la tua vanità ma anche la tua paura.” Sapeva che i pensieri non sono velleità dell’anima. Aveva un’alta considerazione dell’uomo perché sapeva che l’uomo era un agente nella storia. Sapeva che le tensioni di un singolo sono il motore dell’universo. Sapeva che le meschinità e il coraggio fanno ruotare le città e che le tragedie e le imprese si compiono con la forza o la debolezza dei desideri. Gli uomini, in viale Misurata, sulla 90, o a Romolo in coda ai tornelli delle metro, soffrivano una privazione. Ogni volta mi sembrava che tutti noi timbrassimo il biglietto ATM come garanzia di una speranza, che forse un temporale venisse e scuotesse le piante, strappasse gli ombrelli con cui ci ripariamo dalla vita e ci facesse guardare in faccia finalmente l’uno con l’altro. Era sempre una speranza disattesa da ogni pioggia acida che cadeva sull’asfalto e sui monumenti. Mi sembrava che ogni uomo, mentre mi avvicinavo a Viale Misurata 60, si sentisse come me: fuori dalla storia, incapace di agire se non subendola Franco, però, veniva da un altro tempo.

“Da dove viene il male nelle tue poesie?” mi chiedeva sempre prima di imparare a conoscermi.
Cose terribili sono successe al mondo. E lui lo aveva sempre a mente. La frattura esposta perdeva sangue sull’asfalto. Si infilava nei rivoli misto alla pioggia e scorreva lungo la discesa della rampa di immissione. Amin si guardava di sfuggita il ginocchio con il femore e la rotula a vista, senza ben capire cosa fosse accaduto, mentre io gli reggevo la testa per prevenire dei traumi spinali. Aveva piovuto solo mezzora. In solo mezzora si era rovesciata sulla campagna una secchiata d’acqua che aveva infradiciato tutto. In quel tempo Amin aveva preso la moto per andare al lavoro ed era scivolato. Chissà se sarebbe tornato a camminare. Accadono cose terribili al mondo. Ferite profonde tanto che a stento si pensa possibile una primavera, e nel luglio del 2021 in Lombardia non faceva altro che piovere, e nel resto del mondo scoppiavano gli incendi. Pensai che Franco non c’era più già da quasi otto mesi.

“Da dove viene questo male nelle tue poesie? Tu scrivi che ogni sapienza di vita / è sapienza di morte. Perché? Tra le prime poesie che ho scritto ci sono queste… J àn lì badan runciâ / e dànsen a la rusada sott i frund / tra i trunch magher. / Vègn de luntan quel vent che sbèrv el fiüm / e rezza tra i cavèj la soga i grüm. Ma  questi sono gli impiccati, quelli del ’44. A te da dove viene il male?”. “Non so, forse… forse da bambino. Gli altri bambini… ero un po’ escluso…”. “Sì, certo… ma c’è di più… anch’io! Anch’io! Ho cambiato undici case nei primi sette anni. Prima a Genova, poi a Milano. E durante i bombardamenti andavo a Colorno. Mi hanno salvato le bambine, perché mi facevano giocare con loro. Dopo sì, dopo sì… quando stavo con le bambine allora anche gli altri ragazzi volevano venire. Ma non sono queste cose a fare male.”

La Milano del ’40. Franco ci si era trasferito un giorno d’autunno del 1937. Appena uscito dalla
Stazione Centrale, con la gabbietta del canarino “che gli sembrava il suo unico amico” , fu subito inghiottito dalla scighéra di Milano, quella nebbia che alcuni vecchi rimpiangono come simbolo d’aria pulita e che in realtà è il prodotto dei fumi delle fabbriche mischiato con l’umidità della pianura. Nell’intervista sulla sua vita “Da bambino il cielo”, Franco dice che la Milano degli anni Quaranta era surreale, sembrava che la guerra non ci fosse, la vita scorreva uguale e poi all’improvviso faceva irruzione la violenza: quel soldato che al fisarmonicista e alla cantante di strada vicino ai bastioni di Porta Venezia intimò con la rivoltella alzata di suonare Giovinezza, mentre la folla sbigottita assisteva; la portinaia di Via Teodosio, dove abitava Franco, che nel mezzo della notte fu trascinata in Questura e interrogata, e poi riaccompagnata all’alba perché non sapeva ritrovare la strada di casa; il brigatista con le bombe appese al cinturone, i baffetti scuri e lo sguardo di sfida, che sale sul tram e urla a tutti i passeggeri ‘Vili! Siete tutti dei vigliacchi!’. Anche i giorni dopo l’8 settembre 1943 si svolsero in una situazione di tensione marcia, quasi un’ubriacatura di realtà che si sfalda. Il 12 o il 13 o il 14, Franco racconta di essersi avvicinato col suo amico Sergio Temolo e altri bambini alla scuola Tito Speri in via Porpora, dove alcuni ufficiali si erano rifiutati di collaborare con i tedeschi. I bambini – tredicenni come Franco, poco più piccoli o poco più grandi – assicuravano il loro appoggio ai soldati e promettevano loro che li avrebbero sostenuti in tutti i modi. Un ufficiale ribelle si avvicinò e li mandò via: la situazione poteva mettersi male da un momento all’altro. Era la meschinità a fare male al mondo. Non tanto quella dei politici; l’arroganza delle persone comuni quando si fanno meschine, anziché ribelli.

Amin era appena tornato dalle ferie, andava al lavoro e uno scoppio di pioggia improvviso l’aveva sorpreso sulla moto. È stato un battito di ciglia, breve ma non abbastanza per non accorgersi. Amin ha perso il controllo della moto, sotto la pioggia, ha visto la moto piegarsi e scivolare di lato sotto il guardrail. Il guardrail gli ha tagliato la carne e l’urto ha spaccato le ossa.
È bastata mezzora di pioggia, una pioggia forte come quelle che si abbattono sempre più spesso
in estate. Mentre lo medicavamo il sole del pomeriggio illuminava gli arbusti fradici intorno alla statale. Le zanzare intanto, uscite dai loro rifugi, ci mordevano, indifferenti a tutto. Io gli stringevo la testa e lo guardavo negli occhi. Amin non si lamentava: stringeva i denti e mi fissava. Gli tenevamo insieme la gamba con uno straccio. Da dove viene il male dentro le poesie?
Franco guardava seduto al tavolo Viale Misurata: “Non si capisce niente. Questo tempo. Non si
è mai comportato così. L’uomo la sta soffocando questa natura. Non ha mai fatto questo caldo.
Siamo stupidi e non ci rendiamo conto. Non c’è rispetto per le cose più grandi di noi. Ormai agiamo e siamo tutti ciechi. E la natura si ribellerà.  Ma nemmeno, farà il suo corso in base alle nostre stupidaggini.”

Franco imparò a riconoscere gli uomini sotto una lampada, perché a sua volta era stato riconosciuto dagli uomini. Prima dalle bambine, che vedendolo giocare da solo gli corsero incontro, e poi da Sergio, nel 1939. I due si incrociarono all’angolo tra via Casoretto e via Teodosio. Franco era lì per incontrarsi con una bambina che viveva nello stesso palazzo di Sergio. Quando si incontrarono Sergio intimò a Franco di andarsene e Franco replicò che lui non era padrone della strada. Sergio scattò, prese il braccio di Franco e glielo torse dietro la schiena: “Dimmi che sei un mio schiavo e che ho ragione io!” Franco si oppose e più si opponeva più Sergio gli tirava il braccio, e Franco con più forza ripeteva “No!”. Sergio allora lo lasciò e gli disse: “Da questo momento tu sei mio amico.” Di ritorno da Colorno nel febbraio del 1943 il treno si arresta a Melegnano, ma il macchinista non fa scendere nessuno dal vagone. Franco dal finestrino con suo zio Piero guarda degli strani fuochi d’artificio che illuminano il cielo. Sono i bombardamenti di Milano, i bengala e le contraeree. E poi ancora tra il 7 e il 9 agosto dello stesso anno, da Viale Umbria a Lambrate la città è divelta: rotaie torte che guardano al cielo, case esplose che intoppano la strada con le loro macerie e ovunque donne e uomini che si affannano tra i detriti a cercare qualcosa o che si appoggiano con il volto privo di espressione a qualche muro ancora in piedi. Viene dagli uomini il male, e nelle poesie si riversa. È la paura che abbiamo dentro che ci spinge a odiare e a sopraffare l’altro, a consumare e a possedere. È il coraggio e la lealtà al prossimo che ci spingono a volerci bene. Chiamare destino tutto questo è una leggerezza e una superficialità commessa dalla nostra ignoranza. A dieci anni Franco, nel 1940, fondò l’associazione dei bambini antifascisti che esistette per tutta la guerra e divenne poi il nucleo di un’organizzazione giovanile comunista in zona Casoretto. Distribuivano volantini pacifisti nelle case dei ricchi, convinti che fossero di borghesi, facevano le elezioni per decidere chi fosse il capo e correvano ovunque perché correre sembrava un modo per stare in vita in un tempo pieno di morte. Sergio e Franco erano inseparabili e avevano fame di giustizia. Si immaginavano il mondo pronto alla riscossa e loro volevano farne parte: aiutavano chi riuscivano a trovare della Resistenza, sviavano gli inseguitori delle brigate nere e scalmanati correvano all’avventura, con in testa qualcosa di più, qualcosa che forse non era ben chiaro nemmeno a loro.

È il 1944. Tra i fucilati di piazzale Loreto c’è anche il padre di Sergio, e già da bambini sapevano
che la divisa era solo una maschera: erano sempre gli uomini a fare l’orrore o la pietà. C’era una
donna coperta da un velo, che di fronte a quei quattordici cadaveri attorcigliati e sporchi di sangue, “spaccati a colpi di scure come tronchi”, si fa scappare, in mezzo alla folla morta, più morta dei morti, un ‘pôr fjö…’, poveri ragazzi, l’unica tra tutti gli astanti, e un soldato la sente, si avvicina e la minaccia: “Cosa hai detto? Se lo ripeti ti faccio fare la fine di questi banditi”. Non seppi rispondere a Franco. Nemmeno negli ultimi mesi della nostra frequentazione. Non seppi mai dirgli da dove veniva il male nelle mie poesie. So per certo che ogni volta che gli parlavo non era la morte a spaventare Franco, o le altre inezie della vita. Quanta miseria, e quanta cicoria, “quanta gente morta su una strada la storia è passata senza vedere”. Moriamo prima di morire, ed è questo che fa paura. Moriamo tutti per miopia e cupidigia, per la smania di essere al di là degli altri, senza gli altri o sopra gli altri. In ospedale ci dissero che Amin non sarebbe ritornato a camminare prima di due anni, ma che ne sarà delle piogge che si abbattono ogni estate, tra due anni, e che trascinano via colline intere sotto la forza di miliardi di gocce d’acqua; che ne sarà dei boschi che bruciano e gettano il loro fuoco agli ombrelloni sulla spiaggia; che ne sarà dell’estate… Cose terribili accadono al mondo, ma quello che manca è saperci riconoscere a vicenda sotto una lampada: vederci figli unici in cerca di fratelli, in un mondo che grida aiuto.