Riflessione sul fare poetico, che potete leggere qui sotto, è una delle prose saggistiche contenute in Gli strumenti della poesia. Manuale di poetica di Franco Buffoni, appena uscito per Interlinea.
Roland Barthes sosteneva che fu un musicista – Robert Schumann – ad avere, meglio di chiunque altro, praticato e capito l’estetica del frammento: definiva il frammento «intermezzo». E moltiplicò a tal punto nelle sue opere gli intermezzi che, alla fine, tutto ciò che scriveva era “intercalato”. Ma tra che cosa e che cosa, si domandava Barthes. Che cosa vuol dire una pura successione di intermezzi?
Allo stesso modo potrei dire del mio rapporto con la scrittura in versi. Consiste di frammenti poetici che io continuo a produrre. Come un flusso di lava più o meno forte, ma abbastanza costante. Poi i frammenti si compongono divenendo le tessere di un mosaico, e io stesso stento a capacitarmi della precisione con cui esse finiscono col combaciare.
Col tempo mi sono convinto che il collante misterioso – la forza unificante – che mi permette di inanellare gli intermezzi e quindi di scrivere dei libri in poesia è la mia “poetica”. Come diceva Pasolini del film montato e finito: solo allora quella storia diventa morale. Solo quando i frammenti naturalmente si compongono mi rendo conto dell’estrema pertinenza per me della definizione anceschiana di poetica («la riflessione che gli artisti e i poeti compiono sul loro fare, indicandone i sistemi tecnici, le norme operative, le moralità e gli ideali») e dell’importanza del concetto anceschiano di «progetto».
Il punto fondamentale è per me di stabilire quando il progetto diventa opera, così da indurmi a unificare con sicurezza gli intermezzi. Di libro in libro constato un progressivo avvicinamento nel tempo di tale momento. Credo di avere raggiunto un certo equilibrio con Il profilo del Rosa. Dagli intermezzi si schiuse il progetto e si chiamò Nella casa riaperta. Era il 1993. L’anno successivo uscì una plaquette con questo titolo, che costituì una sorta di prova d’orchestra del progetto. Il libro le si costruì attorno – testo dopo testo, frammento dopo frammento – nei sei anni successivi.
Mi capita di scrivere due (o persino più) libri contemporaneamente. Di seguire cioè due o più “progetti” in differenti fasi di elaborazione. Mentre Il profilo del Rosa era già delineato, nel 1995 mi accadde di rinvenire casualmente una cassetta di metallo coi documenti di guerra di mio padre. Passai l’estate del 1996 a tradurre quelle paginette leggerissime scritte in stenografia senza sapere che cosa ne avrei tratto; sapevo solo che ne ero attratto, che avevo voglia di leggere quelle sue pagine. Oggi posso dire che, negli stessi anni in cui Il profilo del Rosa diventava libro (e dunque diventava “morale”), andava formandosi il progetto di Guerra.
Il punto concettuale credo sia di stabilire qual è il mio grado di consapevolezza del “tutto” mentre scrivo gli intermezzi. La risposta che riesco a darmi è che tale grado è andato crescendo con il passare dei decenni. Negli anni ottanta, al tempo di Quaranta a quindici o ancor più dei Tre desideri, era piuttosto esiguo. Per non dire della prima raccolta del 1979 Nell’acqua degli occhi. Non che disconosca le poesie (gli intermezzi) che compongono quelle raccolte. Al contrario: mi sento ancora ben rappresentato da quei versi, tanto che sovente mi capita di estrapolarne alcuni (cfr. «Voi che domani sarete medici e avvocati / staccherete denti d’oro / dritti con gli scalpelli / proprio nel punto là dove si dividono le ferrovie / nella casuale bestialità delle montagne»: si leggono in Guerra, ma sono già presenti nei Tre desideri) o di immettere interi testi nella nuova raccolta (Come un polittico è nei Tre desideri e apre in corsivo Il profilo del Rosa). Ma con difficoltà riesco a pensare a quelle mie prime raccolte come a dei libri.
Sull’equivalenza tra singola poesia e intermezzo o frammento ovviamente ci sarebbe molto da dire. Anche nelle mie prime raccolte alcuni testi sono contemporaneamente poesia e frammento o intermezzo (la poesia è il frammento), mentre altri testi sono il risultato della fusione di due o più frammenti. Un procedimento – quest’ultimo – che nel Profilo del Rosa ho voluto scarnificare – in particolare nella prima sezione – giungendo a presentare la “pagina” di poesia con tre intermezzi, il primo in alto a destra, il secondo a centro pagina, il terzo in basso a destra. E non necessariamente quella centrale è la tessera essenziale per comprendere il senso dell’intera pagina.
In che cosa si differenzia il processo che sto tentando di descrivere dal canonico rapporto tra testo e macrotesto? Dalla sequenza, dalla disposizione, dai criteri di ordinamento seguiti dal poeta nell’inanellare i singoli testi – si dice – è possibile per lo studioso comprendere molto del suo “messaggio” (personalmente preferisco parlare di “progetto”): occorre dipanare la matassa macrotestuale per capire veramente Ossi di seppia e Diario di Algeria. Il processo che cerco di descrivere si differenzia semplicemente perché comincia prima. In sostanza il passaggio significativo testo-macrotesto rimane, ma ve n’è uno precedente – intermezzo/i-testo (o frammenti-testo) – che mi appare ugualmente o persino più significativo.
Guerra uscì nel 2005, ma l’ossatura del libro – la sua consistenza macrotestuale – risale al 2001. Dal 2002 quel fluire di frammenti o intermezzi si è andato sempre più diradando dal registro di Guerra per occuparne un altro, che poi ho definito Noi e loro. Nell’estate del 2004 compresi che quei frammenti di intonazione esotico-erotica – che nulla avevano a che fare con Guerra e che cominciavano a intasarmi il cassetto – appartenevano a un altro progetto, descrittivo di due esclusioni: l’extracomunitario e l’omosessuale. Allora ho cominciato a lavorare seriamente al nuovo progetto.
La prima fase – quella dei frammenti che vanno a intasare il cassetto – non è del tutto consapevole: non so ancora precisamente che cosa sto facendo. In realtà sto scrivendo le poesie migliori del nuovo libro. Ma non me ne rendo conto. La fase della consapevolezza giunge successivamente, con il passaggio dagli intermezzi ai testi, e in filigrana la visione scheletrica del macrotesto.
Il lavoro su Noi e loro poi è stato lungo, ma è stato lavoro di bulino, a partire da quando – un anno dopo – gli intermezzi con quella intonazione cominciarono a diradarsi. In quell’ultima fase, quando giunge qualcosa, è un già detto: tornano gli stessi versi (o simili) e non ricordo se li ho già scritti (non sono ancora padrone del libro, non lo maneggio con facilità) così li riscrivo, ma so già che poi mi toccherà confrontare e scegliere tra diverse versioni dello stesso intermezzo con lievi varianti.
Quella fase è noiosa. È la fase degli intermezzi ripetitivi: ho la sensazione di avere già scritto un certo passaggio, ma non ho la possibilità materiale e/o psicologica di controllare (“materiale”, perché non viaggio col dattiloscritto; “psicologica” perché anche se sono a casa, oppure ho con me il portatile, non mi va di violare il libro per appurare se un certo verso già esiste: sciuperei il piacere di una successiva, concentrata lettura). Per sicurezza riscrivo.
In seguito depositai per anni nuovi intermezzi in due distinte cartelline, che tenevo una a Roma, l’altra a Gallarate. Su quella di Roma c’era scritto lo stesso nome della città; su quella di Gallarate c’era scritto Terreno, poi diventata Jucci. Si trattava della sindrome del salvadanaio: sapevo che un’estate avrei trascorso giorni e notti di febbrile gioia – esaltazione, spossatezza, ritorno di voglia, timori, delusioni, e di nuovo voglia di rileggere – quando avessi aperto quelle cartelline e sversato sul tavolo grande il contenuto.
Immagine: Greta Bratescu.