Otto poesie di Helga M. Novak da Finchè arrivano lettere d’amore. Poesie 1956-2004, traduzione a cura di Paola Quadrelli, Effigie, 2017.
in un giorno d’inverno tedesco
in un giorno d’inverno tedesco
incontrai un uomo
che con un modesto bagaglio
stava arrivando dalla Francia
parlai di com’è il tempo da noi
e dissi come mi chiamavo
– il tuo nome non mi interessa
e la neve tedesca è bianca come sempre –
dissi che avevo un passaporto tedesco
e che tuttavia non potevo viaggiare
mi rise in faccia beffardo
il suo sguardo mi raggelò
poi si rivolse a me e aggiunse
– sii solo giullare e piangi
come ho fatto io cent’anni fa
il mio nome è Heinrich Heine –
*
ringraziamento all’impastapillole della grünenthal
io – bambino deforme
strappato e affogato nel vicino stagno
al chiaro di luna della nostra europa ammuffita
non mi sono lasciato impantanare
mia madre
ancora affondava nelle pozzanghere sul tragitto verso casa
ed io già davo spettacolo sui giornali
di nazioni venerande e guaivo
nella mia crociata
attraverso strade e piazze tedesche incontrai
seimila storpi simili a me
e me li trascinai dietro
verso il nostro creatore
impastapillole della grünenthal che ci ha
creati e approntati a scherno e disonore
della specie umana
suvvia, maestro,
la cucina delle streghe puttana cavalcata dal denaro rognoso
ci ha partoriti e ci ha chiamati tutti
figli del talidomide
attaccaci ora
al carro ignominioso della tua stirpe ti laceriamo
in dodicimila monconi nell’aria –
coorte dei lupi
*
nell’album di poesie di un funzionario
là dove tu cammini si levava un pino
io l’ho abbattuto
là dove tu guardi c’è un altoforno
io ho trasportato le pietre
dalla piattaforma di carico gli uomini
dapprincipio cadevano avvelenati
in basso i tubi per i gas di scarico
li ho sistemati io
tu con me i cavi elettrici
non li hai mai denudati
tra le colate d’acciaio
tra i treni in manovra
sotto le barre strepitanti
non ti ho mai incontrato
la città piena di bambini che tu
attraversi l’ho costruita io
non mi ricordo
del tuo volto quando
alloggiavamo negli isolotti di baracche
i balli notturni dei carpentieri
tu non li hai visti gli urli
delle donne non hai sentito
quelle a cui legavano le gonne sopra la testa
sopra le tribune a tenere discorsi
su pace fucili straordinari norme
anche quando indossavo l’uniforme
sono passata oltre
oltre le tue stralunate visioni politiche
alla fine mi resta
una domanda:
a chi appartiene davvero
la proprietà del popolo
*
fortilizio celtico presso römhild
una contrada evitata persino dai romani
e il fortilizio celtico
inaccessibile e recintato
la cima della montagna è ormai impraticabile
nel fortilizio non si può più entrare
ma nelle sere estive verso le otto
l’ora dei pipistrelli
mi immagino di sentire dal gleichberg
imprecazioni e suppliche interrotte
da canzoni galliche amare come il fiele
sessantamila arretrarono dinanzi al nemico svevo
dentro al labirinto a cielo aperto
nei fossati negli stanzini nei cunicoli
indietro nel fortilizio
anche laddove non ci sono strade militari
le persone sospingono persone davanti a sé
sponde petrose del galles ricovero sicuro
coste verdeggianti di isole nel nord
la loro pioggia alle propaggini occidentali
del vecchio mondo
la cittadella di römhild si trova proprio al centro
e lo sguardo che spazia lontano
non può non accorgersi del coltello alla gola
prive di valore si rivelarono in breve
le imitazioni di monete macedoni
distrutti i torni dei vasai
sui focolari non ribolliva
più la selvaggina
i bambini si buttarono
sul frutto sbagliato
minuscoli funghi disposti ad anello
cappelli violacei pieni di veleno
gonfiarono le pance come tamburi
saccheggiati i nidi degli uccelli
ingoiate le ultime bacche di belladonna
quando infine gli Svevi urlanti
assaltarono il fortilizio
non trovarono né spade né mani levate
neppure l’eloquenza dei druidi
nei fossati sopra l’erba rosicchiata
era distesa un’armata di morti
le acque e le paludi sono prosciugate
e sprofondati i villaggi su palafitte
anche tra i Celti viveva
distrutto e intoccabile un idiota del villaggio
che non capì più niente dopo che lo picchiarono
e niente di ciò che aveva capito poté dimenticare
nelle sere estive verso le otto
l’ora dei pipistrelli
ancora riaffiorano nomi celtici
sillabe promettenti
parole come barget sulz o strut
la fantasia non ha confini
*
götaland
tra rugiada e morena terminale
i gabbiani volteggiano verso terra
le piume incatramate
odorosi di olio di balena
si riempiono la gola di acqua dolce
il Baltico non è lontano
ma chi è quello che s’ingozza volentieri
ogni giorno di aringhe e platesse
quanti pini
ma non sono gli stessi
della costa di fronte
quanti tronchi si riversano in mare
ma nessuna zattera mi porta
alla costa di fronte
Sopot è ben più lontana della terra del fuoco
e le mie brame si infrangono
sulle falesie di Wolin
ogni sera arrivano i gabbiani
e poi tornano indietro
verso le barriere di luce
con le trote nel becco
nel frattempo nessun piccione viaggiatore
una sera li accompagnerò
la follia avanza a grandi passi
*
Čechov in viaggio verso Sachalin
quando Čechov si mise in cammino
a casa sua fiorivano i mughetti
il lillà e i cuori di Maria
ancora stordito dal profumo di acace finì
tra tjumen e tomsk alla fine della strada
ferrata in brulle foreste dai laghi ghiacciati
beccacce anatre selvatiche e oche selvatiche
cigni e una coppia di gru lo seguirono
nel 1890 sull’antichissima strada per Sachalin
sponde scoscese salici rami nodosi
il battito d’ali dei gabbiani ma dove
prendono tutto quel grasso contro il gelo
furibondo smisurato che fende gli alberi
è stato forse su questa strada
che Čechov sferragliando senza molle gemendo
superò un viandante solitario scarpe di rafia
stracci ai piedi berretto leggero “un uomo inutile”
con nient’altro che due violini sulla schiena
*
andiamo ad adescare
andiamo ad adescare andiamo a richiamare
davanti al cervo reale mettiamo mele fermentate
spargiamo mais e barbabietola e fieno
i campi sono vuoti e i prati
e allora versiamo un cumulo di melassa di sciroppo
portiamo il topinambur al cinghiale
e alla martora le patate e molte uova
andiamo ad adescare andiamo a richiamare
la volpe ama le ossa con la carne
le ultime carote sono per la lepre
i conigli si approvvigionano da soli
i nostri vasi per l’inverno sono ormai pieni
e nella dispensa abbiamo lardo e midollo
di cervo e le nostre scarpe
sono foderate di pelliccia di tasso
*
dove sono adesso
dove sono adesso è stata la mia infanzia sul
sandur – tra valle glaciale e morena terminale la
terra qui ha una scorza dura – di sabbia
provvista di un passaporto falso e del mio riso
autentico ho ritrovato il mio volto
qui la terra assorbe lenta ogni goccia di pianto l’era glaciale
ha versato tutte le sue lacrime
il polverino cancella tutto anche gli uomini
pensieri come un setaccio
la storia millenaria del rinoceronte lanoso
sepolti i fieri ulani accanto ai
vincitori indegni sto su un cimitero di ossa
francesi
paragonabile all’antica Macedonia tripartita su questa
povera sabbia i pini i ginepri le patate quanti piani
architettati dissolti ormai ricoperti da distese di aghi
e dalle metastasi di quei leccini che chiamano anche
[cosacchi
periodo interglaciale – fintanto che il polo nord non esagera
con la sua scorza dura
ci metteranno in mostra come dinosauri di 50 tonnellate
[esseri
simili hanno solcato la terra e sono scomparsi al pari del
[coriaceo
rinoceronte all’epoca in cui il cavallo aveva ancora le
[dimensioni di un pastore tedesco
collasso generale rimasto è soltanto il leggiadro
equiseto nelle zone di rimboschimento e noi la specie
di grande formato prima della scomparsa ancora
[proteggo il mio perduto
e riconquistato volto e imparo a memoria
il mio ultimo nome
Immagine: Helga M. Novak nel 1971.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).